Atteso, discusso, pluripremiato. Il Joker di Todd Phillips ha conquistato tutti, addetti ai lavori e appassionati dei fumetti DC (a parte una cerchia ristretta di puristi hardcore e alcuni osceni critici che hanno subito urlato all’istigazione della violenza), e la vittoria del Leone d’Oro alla 76° edizione del festival di Venezia sembra suggellare quanto questa pellicola costituisca un termine di paragone di qualità e importanza per il filone imperante e chiacchierato dei film ispirati alle gesta dei supereroi. Joker è la storia di Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un mediocre attore di cabaret affetto da disturbi psichici, che arrotonda lo stipendio con un malfamato lavoro da clown di strada e vive assieme all’anziana madre. Piegato da una precaria situazione familiare e continuamente schernito dagli abitanti di Gotham City per la sua “diversità”, Arthur scivola gradualmente nell’alienazione distruttiva, fino a trasformarsi in un mostruoso assassino inarrestabile truccato da pagliaccio. Todd Phillips tiene a mente la lezione di capolavori scorsesiani quali Taxi Driver, Re per una notte e persino il più recente Gangs of New York e realizza un film che funge da cordone ombelicale tra il cinema del passato (la New Hollywood artisticamente libera e tormentata di Scorsese; il lirismo espressivo della grande cinematografia muta, da Charlie Chaplin a L’uomo che ride) e le esigenze commerciali moderne, insaporendo il tutto con influenze letterarie altissime, provenienti dal Dostoevskij di Le memorie dal sottosuolo (che già furono in Taxi Driver) e dal miglior Lovecraft, entrambi poeti decadenti di una follia insita nell’essere umano, liberata per far sì che il mondo si accorga del singolo anche se il tributo richiesto è quello del sangue e della distruzione.
Phillips, che proviene dal mondo della commedia caciarona di Una notte da leoni e Parto col folle, si getta anima e corpo su un realistico thriller apocalittico, e lo riempie di soluzioni registiche pittoriche atte a estetizzare contrapposizioni metaforiche di pura poesia deviata. La conturbante bipolarità del racconto, pervaso da una tensione inarrestabile, viene puntellata da scoppi di violenza improvvisa, priva di filtri. La dissonante e minimale colonna sonora della violoncellista Hildur Guðnadòttir offre un’ulteriore chiave di lettura, si amalgama al corpus fimico e offrendo risposte ambigue a pesanti quesiti morali; difatti, per quanto riguarda il rapporto tra spettatore e protagonista, sicuramente Arancia meccanica di Kubrick è il film che meglio si adatta a un paragone, perché in eguale maniera l’attrazione inconscia per una violenza selvaggia, giustificabile solo attraverso la lente di una pazzia cosciente, innesca la tangibilità di quel misto di patetismo, fascinazione e ribrezzo che è proprio della nemesi di Batman.
Giunti a questo punto è impossibile non parlare di Joaquin Phoenix, volto deformato dalla pazzia e corpo scheletrico. Nei panni di un Joker dal look quanto mai accattivante che ricorda uno Charlot posseduto da spiriti demoniaci, l’attore statunitense invade e monopolizza ogni inquadratura con una personalità magnetica di livello elevatissimo. Agevolato dalla centralità di un personaggio che da sempre ha svolto il ruolo del comprimario negativo, Phoenix regge il peso dell’ingombrante eredità dei Joker di Jack Nicholson e Heath Ledger, lasciando a briglia sciolta un repertorio espressivo magistrale, che anche nei momenti tendenti al grottesco non scivolano mai nell’esagerazione pura. Pianti soffocati, ghigni alienati e movenze sinuose costituiscono la cifra stilistica di una rappresentazione perfetta di un corpo e di una mente debilitati. Il ritratto di Joker è quello di un ribelle sociale che sembra voler “salvare” Gotham (ancora più corrotta e amorale di quanto già non fosse nella trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan) dalle ipocrisie dei borghesi e dei ricchi, abbracciando l’idea del caos e accettando l’oscurità per poter trovare quel posto nel mondo tanto bramato e sempre negato. Non si può che fare i complimenti a Phillips sceneggiatore per esser stato così brillante nell’esposizione di un racconto di formazione al contrario, in cui il processo di presa di coscienza della follia dopo un interminabile accumulo di sopraffazioni è graduale e mai brusco. La scansione dei tempi è quella lenta e metodica del noir, ma non perde mai di interesse o ritmo per tutto il corso della pellicola.
L’opera di sovversione di Joker non si ferma certo al suo protagonista, riuscendo a sviscerare anche il marciume di tutti quei comprimari che gli orbitano intorno. La mitologia della saga cartacea dell’Uomo Pipistrello risulta riletta e adattata alla marcata contradditorietà dei nostri tempi: Thomas Wayne, il padre del futuro Crociato Incappucciato, è un conservatore consumato dall’egoismo mentre sta “a veder bruciare il mondo”, e Murray Franklin (un Robert De Niro in gran spolvero dopo almeno un decennio di performance indecorose) è un David Letterman cinico e profittatore che non si fa certo scrupolo a passare sopra la dignità umana. Joker è una origin story amarissima e tragica, ammaliante e respingente assieme, la cui anima fumettistica e politico-sociale converge in un finale nerissimo, che si riallaccia con compattezza e coerenza alla figura e all’epos di Batman. In un’epoca in cui il cinecomic si è arenato su sentieri rassicuranti, commercialmente proficui ma artisticamente altalenanti, avevamo bisogno di qualcosa che, come già fece Nolan con il trittico di cui sopra, sconvolgesse le nostre consuetudini morali.
a cura di Riccardo Antoniazzi