La facilità con cui può nascere una banale incomprensione la conoscono tutti. Una parola fuori posto, un gesto forse inaspettato e tutta una serie di comportamenti imprevedibili, fanno sì che qualcosa o qualcuno assuma le sembianze di quello che in realtà non è. Sarà capitato a tutti di farsi un’idea sbagliata su un determinato evento, su una determinata persona, su una determinata storia. Proprio quella di John O’Brien, scrittore americano morto suicida nell’aprile del 1994, è contraddistinta da tratti che non smettono di alimentare numerosi fraintendimenti, gli stessi che a loro volta danno vita a quello che viene considerato un falso mito – sua sorella Erin è la prima a definirlo tale.
“He knew that being handy is the kind of conspicuous skill that makes it easier for others to tolerate you. They tolerated, and even liked him, for as long as they could.”
― John O’Brien, Leaving Las Vegas
Quando O’Brien si sparò un colpo di pistola alla testa, erano trascorse appena due settimane dalla conferma che il suo celebre romanzo, Via da Las Vegas (Minimum Fax, traduzione di Raul Montanari), di lì a breve sarebbe diventato un film – pellicola diretta da Mike Figgis nel 1995 con protagonista un bravissimo Nicolas Cage. Il suo stesso romanzo racconta la storia di un uomo ormai preda di quella disillusione tutta americana: sogni di gloria infranti, alcolismo smisurato e voglia di riscattarsi pari a zero. Questa sembrerebbe la perfetta messa in scena del dolore che l’autore viveva negli ultimi periodi della sua vita, e il suo ultimo gesto sembrerebbe avvalorare ancora una volta questa ipotesi. Allora, in casi come questi, Via da Las Vegas altro non è che un romanzo di pura nonfiction che preannuncia quella che sarà la fine di un uomo ormai dimenticato da tutti, molto probabilmente dimenticato addirittura da se stesso. Tutto ciò non fa una piega, il gioco è fatto!
Eppure, con il passare degli anni, è stata proprio sua sorella, Erin O’Brien, a mettere un punto definitivo a tutta la valanga di melma mediatica che si era sprigionata in seguito al suicidio di suo fratello. Il fraintendimento fagocitato dal pettegolezzo da copertina patinata, stava avendo la meglio su quelle che erano le vere intenzioni dello scrittore americano rimasto per svariati anni dietro le luci della ribalta. Un percorso, il suo, che non riusciva a tracciare la giusta linea per il tanto ricercato decollo a cui John non smetteva di aspirare. Col tempo dalla sua, Erin non perse occasione per ribadire quanto fossero inutili le chiacchiere da salotto sul conto del fratello, cercando in tutti i modi di ripristinare un certo valore intrinseco alla sua opera – la stessa Erin è stata colei che ha ultimato le tre opere postume di John O’Brien, rinvenute incompiute tra gli scatoloni dello scrittore.
“His point was made, and he moved along, in keeping with the tangential nature that must consume at least one of them. There is a bottle in his future–perhaps sooner a glass–elsewhere on the line.”
― John O’Brien, Leaving Las Vegas
Per nutrirsi, un’incomprensione ha bisogno di essere foraggiata da una controparte che, nonostante le sue nobili intenzioni, contribuisce inconsapevolmente – nel caso di O’Brien – ad alimentare le voci sul suicidio annunciato attraverso un romanzo inizialmente non ritenuto incisivo da nessuno. A creare una notevole confusione è Bill O’Brien, padre dello scrittore, che in un’intervista rilasciata negli anni successivi ha trovato il modo di raccontare i suoi ultimi giorni trascorsi con suo figlio. In famiglia tutti conoscevano la depressione di John, tanto che Bill fece tutto il possibile per salvarlo dal baratro a cui il figlio si stava avvicinando. Dopo aver trascorso qualche settimana insieme, i due si ritrovano negli sguardi silenziosi che irrompono prepotentemente nei momenti meno opportuni. È in quello stesso momento che John comunica a suo padre la volontà di voler entrare in una comunità di recupero, allontanandosi definitivamente dallo spettro dell’alcolismo che lentamente lo stavo divorando dal suo interno. A quel punto Bill lo abbraccia forte, avvertendo una stranissima sensazione: in quel preciso istante comprende che quella sarà l’ultima volta che vedrà in vita John. Infatti, per pura casualità, le cose andarono proprio in questo modo.
Via da Las Vegas è la storia di un uomo che cerca in tutti modi di “sbarcare il lunario” (se ci permettete il clichè). Frequenta i casinò e beve come se non ci fosse un domani. Dentro di lui vige una determinazione tale da consentirgli di incontrare un’efferatezza emotiva da impiegare poi in quelli che sono i suoi passi verso la gloria. Volendo dar vita ad una lettura più approfondita che sfoci dritto nell’aspetto biografico legato al suo autore, l’energia di Ben – protagonista del romanzo – incontrerebbe quella che John investe nella sua voglia di dare una svolta alla sua storia personale. I soldi che Ben accumula con le vincite, e che non vede l’ora di spendere in alcol, sono il corrispettivo dei piccoli fattori positivi che lo scrittore mette da parte per dare inizio alla sua ripresa. Ma la depressione, l’alcolismo e il successo repentino si coalizzeranno per ostacolare il corso delle cose. Un coacervo di buoni principi stralciati una volta per tutte.
“Casinos … know that chips are a wonderful, pretty tool, and possess none of the stigma of dollars. Dollars translate too easily into hours or houses or cars or sex or food or everything, and so losing a dollar is a much more tangible experience than parting with a chip, an object that looks more like a midway consolation token than a medium of exchange.”
Alla domanda ormai classica, ovvero se Via da Las Vegas fosse o meno un urlo di disperazione lanciato dal suo autore, Erin O’Brien ha confermato che quelle pagine scritte sono il semplice risultato di un’opera di fantasia. Suo fratello non era cinico e disfattista come il protagonista. Suo fratello non era Ben. John O’Brien aveva un rapporto spiazzante con la sua voglia di vivere. Alternava fasi di aulica euforia a momenti dissacranti in cui la depressione aveva sempre la meglio. In tutto questo conflitto di emozioni e sentimenti, l’alcolismo faceva il buono ed il cattivo tempo.
Solo in questo modo, conoscendo i particolari oltraggiati dal pettegolezzo smodato che si consumava sulle pagine delle riviste di settore, riusciamo a definire Via da Las Vegas come un romanzo corale per una dimensione in cui a cadere sono i vinti di una società dipinta come una musa spietata. Gli ultimi, coloro rimasti all’esterno del party e che non riescono in alcun modo a farsene una ragione, sono tutti lì a guardare le bocche ingorde mentre masticano a sbafo l’osso più piccolo della propria preda. Sono le stesse bocche di chi ci è riuscito, di chi ha chiuso un libro per poi aprirne un altro. Lo stomaco trattiene i rimasugli di una disfatta fino a farli lievitare oltre ogni misura consentita. Allora il dolore cresce, e con lui il disagio nel condurre una vita che, in fondo, non la si desiderava affatto. Ecco cosa è riuscito a creare John O’Brien: ha dato vita ad un manifesto hemingwaiano a cavallo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Il crollo definitivo dell’essere umano, niente di più.