Che John Grant sia una delle figure più tormentate nel panorama musicale alternativo degli ultimi anni è cosa nota. Basta curiosare un attimo la sua biografia.
A quanto pare il suo primo sogno nel cassetto era di diventare traduttore in Germania, ma dopo un lungo e infruttuoso soggiorno in terra Crucca, rientrò nella natia Denver nel 1994 per dare vita ai Czars. Band dalla vita non proprio facile i Czars, raggiunsero il picco della loro, non proprio misera, popolarità nel 2000 quando sotto la spinta di Simon Raymonde, pubblicarono per la rinomata etichetta londinese Belle Union il disco Before..But Longer. Da lì tra eccessi e dissidi interni il percorso dei Czars iniziò a scivolare verso lo sfaldamento, nel 2004, nel giro di nove mesi e con un tour nel mezzo, 5 dei sei componenti abbandonarono il gruppo, il reduce John Grant continuò sotto il nome Czars alcune date prima di abbandonare il tutto e affrontare quello che sarà un lungo periodo di pausa dalle scene musicali.
Trasferitosi a New York, la nuova nascita di JG ha come simbolo i Midlake, è proprio il gruppo di Tim Smith a credere in lui, portarlo in tour con loro e rinchiuderlo nella loro sala studio di Denton, Texas, a registrare quello che sarà l’esordio capolavoro, Queen of Denmark. Tuttavia il successo inatteso dell’esordio non è bastato a placare i tormenti interiori del nostro che per registrare Pale Green Ghosts, il suo secondo album, vola fino in Islanda, affidando la produzione a Biggi Viera dei Gus Gus, rivoluzionando la fase produttiva dal Texas rock e bucolico, all’eterea freddezza elettronica della terra di ghiaccio. La magica alchimia elettro-cantautorale che permea Pale Green Ghost è il frutto di tutto questo.
John ripartiva da qui, un disco in cui le sue straordinarie doti cantautoriali trovano una via d’uscita inattesa, l’emblema di come la musica sia ancora tutta e per fortuna nella mani dell’artista e della sua sensibilità, che i suoi mezzi siano una chitarra classica o un sintetizzatore, o entrambi come nel suo caso.
Di fronte al terzo disco, la domanda era soprattutto una, dove andrà John Grant questa volta? Dove lo avranno condotto i suoi tormenti ?
Per la produzione di Grey Tickles, Black Pressure il nostro si è affidato ad una mano sicura come quella di John Cogleton (Modest Mouse, Franz Ferdinand, St Vincent, Anna Calvi ecc )affiancandosi con importanti collaborazioni che evocano fin da subito il taglio dell’album: Tracey Thorn (Everything but the Girl), Amanda Palmer (Dresden Dolls), Andy Butler (Hercules & Love Affair).
Fin dal primo ascolto appare evidente come l’anima pop-elettro sia quella che a questo giro fa da padrona. La splendida ed imperiosa title track ci illude, mettendoci davanti gli epici orizzonti sonori che solo JG è in grado di disegnare. Nelle successive tracce è il synth a fare da padrone, dal funky kitch di Snug Slacks si passa alla nine-inch-nailsiana Guess How I Know fino al ritornello di You & Him dove sembra di sentire i Franz Ferdinand. Tracce sicuramente splendidamente prodotte e curate ma che passano lasciando poco.
Down Here è una traccia mid-tempo piacevole ma anch’essa insipida, Vodoo Doll funkeggia sui beat senza lode, mentre finalmente con Global Warning si risenta quella complessa ed armoniosa capacità compositiva e lirica degna del suo nome. Da qui in poi l’album tende a risalire, le atmosfere si fanno più cupe e claustrofobiche, da Magma Arrives a Black Blizzards, per poi tornare improvvisamente danzerecce e anni ’80 in Disappointing, dove invece sembra di sentire gli Hercules & Love Affair. A chiudere il disco ci sono invece due ballad piuttosto classiche e “già sentite”, No More Tangles e Geraldine.
Anche dopo il decimo ascolto la sensazione che viene fuori alla fine di questo disco è di tanta confusione. Tracce che si seguono senza alcun filo conduttore e in molte delle quali è evidente una scarsa ispirazione. Sembra evidente il tentativo di riproporre l’alchimia di Pale Green Ghost, il tutto però alleggerendo notevolmente gli animi spostando il metronomo su sonorità più “easy listening”. Sebbene ci siano alcune tracce in cui la maestosità del nostro riesca a venire fuori in tutto il suo potere emozionale e la qualità della produzione sia elevatissima, il risultato complessivo del disco lascia l’amaro in bocca.
Dove è andato John Grant questa volta? Probabilmente da nessuna parte.
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