John Thomas Fante, figlio dell’immigrazione italiana in America, è una delle riscoperte letterarie più sorprendenti degli ultimi dieci anni. Già a partire dagli anni ’50, illustri traduttori come Pavese e Vittorini lavorarono sulle opere dei maggiori romanzieri americani, da Melville, Hemingway e Dos Passos fino ad arrivare a Fitzgerald, Faulkner e Steinbeck: nel dopoguerra il miracolo economico italiano pareva il corrispettivo di quel mito americano stampato sulle pagine dei libri e visto attraverso gli occhi del cinema. Tra tutti John Fante, pur inserito in Americana, la miscellanea redatta da Vittorini, è colui che né in vita, né subito dopo la morte poté godere della fama e delle giuste celebrazioni. Il suo genio creativo fortunatamente fu poi intuito da Charles Bukowski, che trovò una copia di Ask the Dust (Chiedi alla Polvere) – il capolavoro di Fante – in una biblioteca pubblica di Los Angeles e catturato dall’entusiasmo, promosse il suo messaggio letterario: quel libro esercitò un’influenza inimmaginabile e duratura su di lui e sui suoi scritti.
Tornando alle vicissitudini di Fante, la ricerca continua della felicità e di un posto in cui vivere senza difficoltà insieme alla lotta per la sopravvivenza in un microcosmo fatto di santi e peccatori mettono in moto una serie di riflessioni che daranno vita alle migliori storie della nazione segreta, in cui povertà e miseria erano all’ordine del giorno. Tutto ebbe inizio l’8 aprile del 1909 a Denver, nel Colorado, dove nacque da una coppia decisamente mal assortita. Il padre Nick Fante, abruzzese, di Torricella Peligna era arrivato in America appena otto anni prima, per raggiungere il padre arrotino, e qui aveva cominciato a pagarsi da vivere facendo il muratore. Fin dai primi racconti, Fante lo descrive come un giocatore incallito, un alcolista violento, un bestemmiatore fantasioso e adultero. Non di certo uno stinco di santo. Al contrario, la madre Mary Capolungo era una donna riservata, fervente cattolica e figlia di un sarto di origini italiane, che si era caricata addosso da sola il peso dell’educazione dei figli. Quest’unione fin dal giorno del matrimonio si rivelò un vero e proprio disastro, portando numerose turbolenze in famiglia. Il contrasto tra i genitori è il primo degli spunti di Fante, soprattutto per Wait Until Spring, Bandini (Aspetta primavera, Bandini), dedicato a Nick e a Mary, protagonisti indiscussi del libro.
E’ sempre in questo periodo che Fante inizia a passare le ore della sua giornata nella biblioteca civica di Boulder e qui avviene l’incontro decisivo con l’opera di Henry Louis Mencken, direttore dell’ American Mercury, il più prestigioso mensile letterario dell’epoca. Mencken è un personaggio fondamentale nella biografia di Fante, è colui che lo stimola a riprendere in mano il suo futuro, permettendogli di conseguire i primi piccoli successi come novelliere. Fante decide in seguito di trasferirsi a Los Angeles, luogo prediletto per le ambientazioni dei suoi racconti e romanzi, dove il suo alter-ego Arturo Bandini attraverserà mille e più peripezie. Ma le sue condizioni finanziarie e la tormentata situazione della famiglia Fante, dopo che il padre Nick se n’era andato di casa, avevano costretto il giovane John a lavorare nel conservificio di pesce descritto nel suo primo romanzo The Road To Los Angeles (La strada per Los Angeles).
Intanto si era riscritto all’università nel 1931, dove per la prima volta si era imbattuto in una docente determinata ad
Nel 1932, dopo che il padre era tornato con la coda tra le gambe dalla madre, John Fante entra nella sua fase letteraria più proficua – centocinquantamila parole in trenta giorni, dice egli stesso a Mencken – legge di continuo, da Nietzsche a Maupassant, da Dos Passos ad Hemingway, ed entra in contatto con Ernest Pagano, sceneggiatore hollywoodiano, che lo porterà a pensare al cinema e ai proventi facili. Risale a questi anni anche l’inizio dell’amicizia con il giornalista, politico e scrittore Carey McWilliams che rimarrà fino alla fine il suo più caro confidente. Proprio il suo più fedele amico gli procura un appuntamento con Ross B. Wills, capo dello story department della Metro Goldwyn Meyer. E’ come un colpo di fulmine. I due saranno per lunghi anni compagni di bevute e coinquilini. E’ infatti del 1935 la sua prima sceneggiatura Dinky.
La persona che gli sta più vicino, insieme al magnanimo Wills, è una certa Marie Baray, una modella messicana che amò con passione. E’ lei la celeberrima Camilla Lopez di Chiedi alla Polvere, è questa donna la sua vera musa, la principessa Maya, la bomba sensuale che ha fatto innamorare migliaia di lettori. Ed è probabilmente il sentimento per la messicana Marie/Camilla a fargli aprire gli occhi sulla forte ondata razzista che stava investendo gli Stati Uniti. I due amanti condividono una condizione di marginalità rispetto alla società che li circonda, mettendo da parte il grande sogno americano, che è assolutamente improbabile per entrambi. La vita di John a questo punto diventa più che mai quella di Arturo che in alcuni frangenti ha il coraggio di professarsi come voce della propria coscienza. Non rimane loro che camminare a testa alta per le strade e cacciare il pensiero di ciò che potrebbe sussurrare la gente: è l’intento di una narrazione avvincente e mai scontata. Arturo Bandini diventa il testimone più autorevole delle disgrazie di quel grande melting pot di razze che compongono l’America, di quei viandanti alla ricerca di una patria e di un rifugio. John Fante, fiero delle sue radici italiane, odia Mussolini perché ha distrutto un popolo di talento e cultura, ma non avrà mai la totale consapevolezza del bagaglio genetico che porta dentro.
Il vero amore della vita di Fante non è, però, la messicana, bensì Joyce Smart, da cui avrà ben quattro figli, poetessa ed ex redattrice del The Peninsulan, donna sensibile e determinata che cerca di mettere ordine al caos esistenziale del suo compagno. Dopo l’uscita di La Strada per Los Angeles nel ’38, molti dei suoi romanzi verranno pubblicati dalla Stackpole Sons, tra cui Aspetta primavera, Bandini e Chiedi alla Polvere, tutti e tre appartenenti al ciclo di Arturo Bandini.
Il suo primo bestseller però, è del 1952 ed è Full of Life che viene apprezzato immediatamente dalla critica e dal pubblico, tant’è che viene stampato anche per la rivista Reader’s Digest, a solo un mese dall’uscita. Quattro anni dopo, la Columbia Pictures decide di farne un film sceneggiato dallo stesso Fante, diretto da Richard Quine e interpretato da Judy Holliday. Questa sarà l’unica volta in cui riuscirà a coniugare cinema e letteratura, arrivando quasi alla promessa di un Oscar – che poi non arrivò – così realizzando dei veri sogni di gloria. La vicenda è interamente autobiografica: i protagonisti sono lui, John, e la moglie Joyce. I nomi non vengono neppure cambiati. Il romanziere, anzi lo sceneggiatore diventa così l’eroe della sua stessa finzione mediatica. Joyce è in dolce attesa del loro primogenito e la futura nascita del bambino porta all’allontanamento dei coniugi. John si sente freudianamente minacciato dall’intrusione di suo figlio all’interno del tanto agognato universo familiare, mentre la moglie si avvicina alla fede cattolica, preferendo la meditazione alla compagnia chiassosa del marito. Un avvenimento inaspettato sbloccherà la crisi che si era venuta a creare: l’invasione delle termiti in casa Fante. Non è però, una situazione per nulla comica come si potrebbe pensare. Il pavimento della cucina crolla e Joyce cade, senza però riportare danni alla sua salute e a quella del nascituro. John decide allora di tornare nella sua terra natale e dalla sua famiglia per chiedere aiuto al padre Nick, un abilissimo muratore. La cinepresa mette a fuoco l’incontro tra le due generazioni, confrontando i diversi punti di vista sui propri valori e sul futuro.
In seguito si era tenuto distante per alcuni periodi dal mondo hollywoodiano che per lui non era altro che «il lavoro più disgustoso del regno di Cristo» come scrisse in una lettera al mentore Mencken. Pur essendo questa l’era del maccartismo Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra: quest’atteggiamento non aveva fatto altro che ostacolarlo in quell’ambiente così fortemente politicizzato. Era un vero e proprio outsider, uno sceneggiatore mai inseritosi completamente, visto costantemente come un renitente, un intruso. Si era rifiutato di allinearsi agli altri suoi colleghi e molto incisive, ma ambigue erano le sue parole riguardanti le masse:
Mi farò mettere contro il muro e sparare prima di sottoscrivere il marxismo da salotto di uno stupido gruppo di laureati di Harvard. Simpatizzano con le masse. Questa è una bugia. Usano le masse come materiale, ma non simpatizzano se non in modo ipocrita. Sono comunisti perché il comunismo in questo paese paga. Per quello che mi riguarda non simpatizzo con le masse. Le masse esisteranno sempre. Sono formate da sciocchi. Sono necessari alla società. Se proprio lo devo dire, odio le masse. Ho vissuto con loro e ho sentito il loro fiato sporco e le loro menti vuote. L’istruzione non le tocca. Niente può toccarle. Sono segnate. Che muoiano. Devo farmi gli affari miei, in questa vita, ovvero sopravvivere. Che è un lavoro tremendo. Non mi sporcherò le mani cercando di salvare le masse.
Viene poi ingaggiato dalla RKO e collabora con un Orson Welles agli albori, il regista che dopo pochi anni avrebbe diretto Quarto potere, destinato a diventare uno dei film leggendari della storia del cinema e crea curiosità in Peter Sellers che vuole fare una trasposizione cinematografica de Il mio cane stupido con un cast d’eccezione che avrebbe compreso Jack Lemmon, Walther Matthau, Frank Sinatra e Peter Falk, ma il progetto sfortunatamente non verrà mai realizzato. Le grandi aspirazioni del giovane Fante devono però essere ridimensionate. La famiglia comincia ad aumentare e c’è bisogno di molti più soldi di un tempo per mantenerla. Avrebbe voluto imparare l’italiano, trasferirsi in Europa e capire se stesso, quel se stesso dannatamente italiano. E invece le speranze si trasformano in litri d’alcol e nel gioco d’azzardo.
Dagli anni sessanta in poi avviene però, una svolta. Bandini non è più il protagonista dei suoi romanzi. Ora lo è la famiglia Molise che manda avanti le vicende di Was a Bad Year (Un anno Terribile), My dog stupid (Il mio cane stupido) e The Brotherhood of the Grape (La confraternità dell’uva). Tra gli anni cinquanta e sessanta riesce a realizzare uno dei suoi sogni, quello di viaggiare in Europa e conosce numerosi registi tra cui Dino De Laurentiis con cui spesso collaborerà. Ma, tornato a casa, per Fante sono ancora tempi duri. Dopo la morte del padre, muore anche la madre, il figlio maggiore Nick scappa di casa e subito dopo entra nella Marina; tutti e quattro i figli passano una burrascosa fase di ribellione hippie e con la moglie è quasi impossibile comunicare come un tempo. Lui, invece, si isolò nel golf, ma ben presto non poté fare neanche più quello, perché le sue condizioni fisiche erano peggiorate. Gli è stato già diagnosticato il diabete, ma ad accrescere i suoi tormenti erano principalmente gli arti inferiori che gli verranno poi entrambi amputati, per non parlare della vista che gli era bruscamente calata.
L’ultimo suo romanzo è Dreams from Bunker Hill (Sogni di Bunker Hill), che viene dettato interamente alla moglie, è un ritorno alla saga dell’ormai vecchio Arturo Bandini. E’ un chiaro segno di come lo scrittore abbia voluto concludere la propria esistenza tornando alle origini. John Fante era arrivato a Los Angeles a vent’anni così come Arturo Bandini, la sua eterna mimesi, e in quella città dorata dalla polvere e dai desideri, dove gli odori, i volti della gente, le palme e il deserto aveva scavato dentro di sé una nuova identità. Un urlo disperato che non può trattenere:
Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.
Era partito con la volontà di buttarsi tutto dietro alle spalle, ma sarà, alla fine, proprio la sua valigia pesante a diventare il materiale adatto per i suoi racconti. La saga di Arturo Bandini è uno show in cui vengono presentati quasi in forma maniacale sempre gli stessi personaggi e i soliti luoghi. Non per questo, però, le storie diventano monotone. Riesce a catturare i lettori con la potenza della parola,
Arturo è un personaggio indomabile, un amante focoso e un figlio generoso, ma rissoso e provocatorio, caratterizzato da un’istintività senza maschere cucite sul volto. E’ un fannullone combattivo, risoluto nel conseguire i propri obiettivi. Mille mestieri l’hanno accompagnato in viaggio verso l’El Dorado: è uno spalatore di fossi, un lavatore di piatti, uno scaricatore di
Ma Arturo Bandini non è soltanto quel ventunenne temerario on the road è anche un quattordicenne molto più maturo della sua età. In Aspetta primavera, Bandini, terzo romanzo della saga, in cui il vero protagonista è il padre Nick, il rapporto tra i due comincia ad incrinarsi. John Fante sia nella finzione che nella realtà non riesce mai ad avvicinarsi completamente alla figura paterna:
Me le suonava di santa ragione un paio di volte la settimana e io lo rispettavo moltissimo. Non c’è mai stata una volta in cui sia venuto da me per chiedermi un consiglio, e questa cosa mi faceva restare male, ma in ultima analisi mi rendeva ancora più orgoglioso di lui.
Attraverso la corrispondenza con il direttore del Mercury, si può notare un tratteggio di Nick Fante molto amaro, stemperato soltanto dall’ironia del suo tono: «Mio padre era contentissimo quando sono nato. Era così felice che si è ubriacato, ed è rimasto in quello stato per una settimana. Di tanto in tanto negli ultimi ventun anni ha continuato a celebrare il mio arrivo.» Camminando per le strade Fante/Bandini incontra centinaia di vecchi. Tutte quelle persone sono suo padre che intanto era diventato il suo più grande fan, orgoglioso di un figlio che fino a pochi anni prima aveva considerato uno smidollato. Nick Fante, John Fante e Arturo Bandini sono più che mai simili, cartaceo e generazionale non fa differenza, l’incapacità di invecchiare è più logorante di qualsiasi sogno di gloria. Dopo alcuni ricoveri d’urgenza e un breve periodo in una casa di cura per personaggi dello spettacolo, John Fante, portavoce di tutti gli antieroi del mondo, si spense l’8 maggio del 1983 tra le braccia della moglie, con in sottofondo la radio sempre accesa che, come a vent’anni, nei bar affogati nel sole della California era la sua più grande amica.