John Cale: una viola sotterranea a New York

“Quando arrivarono i Beatles rimanemmo sbalorditi. Mi dissi: Wow, mi sono perso qualcosa. E poi incontrai Lou. Alla base di tutto c’era un’inclinazione letteraria, e poi, con tutta la droga che girava, Lou e io ci capivamo benissimo.” John Cale

Attraverso i Velvet Underground, si possono raccontare innumerevoli mondi. Sono lì, davanti agli occhi da sempre. C’è la copertina – quella della banana – ideata da Andy Warhol, che immediatamente rimanda alla Factory, alla New York sotterranea, in fermento, che sperimenta tagli di luce inediti per illuminare squarci di esistenze inquiete e nascoste, cariche di creatività pronte a liberarsi. C’è Lou Reed, dietro gli occhiali scuri e la sua chitarra agrodolce, c’è la moda e la Pop Art, il cinema e le performance simil-teatrali. Ma c’è anche Nico, la modella che diventa cantante, con una vita musicale nel gruppo e una propria pronta a mostrarsi con l’album d’esordio (Chelsea Hotel), sempre supportata dai Velvet. In questi ambienti così cupi, e dilatati, ma allo stesso tempo vivaci e all’avanguardia, si parla sempre troppo poco di John Cale. Per dare un termine di paragone, uno del livello di David Bowie, non ne era solo fan, ma quasi ossessionato. Certo per gli addetti ai lavori e per i musicisti che frequentano quel mondo, non è una scoperta, ma più passa il tempo, più aumenta lo spazio da quella storia, più i Velvet Underground diventano la band di Lou Reed. E in parte è così ovviamente, ma appunto: in parte. Prima di parlare di quando sul palco decapitò un pollo perdendo all’istante e per sempre il suo batterista vegetariano, ricordiamo che i Velvet è lui, Cale, a fondarli insieme a Lou Reed. Quella creatura così speciale prende forma proprio dalle loro prime chiacchierate newyorkesi di metà anni Sessanta, coinvolgendo successivamente Sterling Morrison, Maureen Tucker e poi ancora Doug Yule.

Ma che ci fa un giovane gallese a New York ?

L’avrà capito da bambino John Cale che per comunicare avrebbe dovuto sviluppare più linguaggi e battere più strade. Finchè non inizia la scuola parla solo il gallese, così ha deciso la nonna. Vive con lei nel sud della regione, tra un grosso fiume e le fabbriche. Si appassiona al violoncello e quello sarà inizialmente il suo strumento, mentre con gli anni, scopre la musica d’avanguardia. Entra in contatto con la corrente artistica Fluxus, che unisce discipline diverse, in parte simile all’approccio che ritroverà poi nella Factory di Warhol.

Non sceglie vie facili, e anche in America non ci va mica per il rock’n’roll, che pure comincia ad apprezzare. Ama la musica di Aaron Copland, un compositore statunitense che unisce il jazz e la contemporanea alla classica. John decide quindi che è il momento di varcare l’oceano e andare proprio a New York, dalle parti di Copland. In questa prima fase di vita negli States, frequenta gli ambienti controculturali della Grande Mela, ma anche quelli legati all’ambito compositivo, della musica classica e d’avanguardia, tanto che si trova coinvolto in una maratona pianistica di 18 ore che celebra l’opera di Erik Satie “Vexations”. In quello stesso periodo, mentre Cale approfondisce la musica minimalista di La Monte Young, Lou Reed, è in tutt’altra situazione, al soldo di etichette come autore di facili canzoni commerciali. È in questo momento che i due si incontrano e pensano a un progetto che possa unire e soddisfare le loro due passioni in comune, il rock’n’roll e la sperimentazione. Da questo incontro, del 1965, al primo disco, passano due anni, ma i Velvet Underground ormai sono realtà.

“Il primo album dei Velvet Underground ha venduto 10.000 copie, ma tutti quelli che l’hanno comprato hanno fondato una band.” Brian Eno.

Qui coimincia la parte più nota della vita artistica di Cale, stampata sui primi due vinili della band “Velvet Underground & Nico” del 1967 e “White Light/White Heat” del 1968. Il primo è uno dei fondamenti della storia del rock. Cale suona la viola elettrica, il piano e il basso, ma soprattutto crea, insieme alla chitarra di Lou Reed, un’alchimia che rompe le regole del rock, apre nuove strade a sonorità più spigolose, sporche, acide e psichedeliche, poi spinte da altri in direzioni diverse fino al post punk o al post-rock. Anche nei testi l’accelerazione è grossa. In Heroin per la prima volta, non ci sono semplici allusioni alla droga, ma la si racconta. Cale resta solo pochi anni accanto a Lou Reed e soci, ma bastano per scrivere una pagina di storia fondamentale a partire da quell’incredibile esordio. Nello stesso periodo, parallelamente e sempre insieme a Lou Reed, lavorerà, come detto, anche al disco di Nico.

Lasciati i Velvet, alterna i suoi lavori e quelli di altri nei panni di produttore. In quest’ultima veste realizza dischi davvero importanti: produce infatti nel 1969 The Stooges, l’esordio di Iggy Pop con gli Stooges, e quello di Patti Smith, Horses, del 1975. In Europa, nel 1970, lavora al secondo album di Nick Drake, Bryter Layter, suonando anche nella canzone Northern Sky. La sua produzione solista, ristabilitosi in Europa, è varia, e si muove tra il rock e le sperimentazioni: collabora con Brian Eno, stimola e incontra la nascente scena punk. Probabilmente i suoi migliori lavori in solitaria sono Vintage Violence (1970) e Paris 1919 (1973). L’annebbiamento da cocaina e la ricerca di performance estreme lo portano a esibizioni al limite, e a rimetterci, come già anticipato, è il povero pollo. Sul finire degli anni Ottanta si incontra ancora una volta con Lou Reed per l’album Songs for Drella dedicato alla memoria di Andy Warhol. È senza dubbio un picco compositivo per emtrambi quello che si riscontra in questa manciata di nuove canzoni dedicate all’amico scomparso.

 

Il percorso artistico di Cale è davvero difficile da chiudere in recinti di genere o in periodi più o meno prolifici e riusciti. La sua ricerca è in continua evoluzione e la sua unica regola sembra proprio quella di rompere quei recinti per capire cosa c’è oltre. Emblematico è forse il periodo a metà dei Settanta, quando in pochi mesi sfiora e anticipa punk e post-punk, si immerge in un rock decadente che si manifesterà più avanti con prolifiche band, senza rinunciare a colonne sonore sperimentali, e alle nuove frontiere che l’elettronica stava aprendo anche in ambito rock. Un fulgido granello sonoro che sintetizza le principali direzioni e pulsazioni di Cale è il brano Fear, una ballata sostenuta dal piano che va a finire in un delirante caos rumoristico, a base di urla e convulsioni, che riporta a galla quel senso di claustrofobia e paranoia presente sin dall’incrocio newyorkese con Lou Reed.

Grazie a questo sfogo necessario, Cale sembra avere successivamente la serenità per andare a riscoprire quelle influenze, sempre avute e poco sviluppate, derivanti dalla scoperta in giovane età dei Beatles, dei Beach Boys di Wilson e del rock’n’roll delle origini. In fondo quando si pensa a John Cale si mischiano tanti mondi musicali, si tratta pur sempre di un compositore e polistrumentista importante, ma resta una costante, il suo strumento prediletto: la sua viola. Ha avuto l’ardire e il coraggio di togliere quel delicato componente della famiglia degli archi dalla custodia e dall’ovattato palcoscenico dei teatri per portarlo nei più ambigui e polverosi backstage e palchi rock di tutto il mondo, avendone sempre il più grande rispetto.

“Per essere pronti al successo bisogna avere innanzitutto una personalità stabile, e Lou non l’aveva. Neppure io per dirla tutta. E quindi non siamo mai stati pronti al successo.” John Cale

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