Entra zoppicando quando le nove e mezza sono appena passate, John Cale, con una divisa nera che ricorda quella di un fabbro – capiremo poi dopo – . Spuntano qua e là fra il pubblico le immagini della storia dei Velvet Underground, un disco, quello con Nico, sotto al braccio di un ragazzo. Ci ritroviamo immersi in una comunità, non solo dentro ai palchi di Arti Vive, ma anche fuori, a ridosso dei torrioni del castello, fra un foodtruck e un altro, le famiglie e gli abitanti, gli anziani per mano, i bambini che corrono. Sono le immagini più calzanti per spiegare cosa sia il festival di (e per) Soliera, quale valore abbiano questo tipo di contesti nei paesi un po’ senza tempo che, proprio solo in questo modo, possono rinnovarsi, aprire porte dove spesso l’abitudine è difficile da abbattere. Di questi tempi, combattere, il caldo, l’età, lo stare chiusi, è più di una posizione politica, la stessa che hanno rivendicato i Costello dal palco, con poche parole prima di riprendere le lunghe distorsioni rock che hanno caratterizzato la loro apertura.
John Cale, dicevamo, uno che con la musica ha sempre vissuto un rapporto da randagio. Un ramingo dell’avanguardia che, nemmeno a ottant’anni, ha smesso di sperimentare e vagare in ogni genere, lasciando una traccia personale e mai scontata. Ha lo sguardo del magnete, di chi non ti vede nel buio della platea ma indirizza l’occhio su di sé per uno speciale cammino di reverenza riservato a chi è portatore di arte – e storia, specialmente nel suo caso. Ciò che lo sostiene, oltre a una band che sembra aver sposato senza remore la causa dell’improvvisazione e della live art tipica dei bootlegs e delle improvvisazioni made in VU, è un certo tipo di perseveranza, di rigidità morale che l’ha reso parte di processi creativi e umani spesso inesplicabili, dalla rottura con Lou Reed, il rapporto con le tossicodipendenze alle malinconiche poesie di Wasteland. Si tratta pur sempre di ragionamenti, anche quando le improvvisazioni nella chiusura dei brani non sembrano avere alcuna struttura si capisce che in realtà portano con sé un processo mediato, in grado di avere una linearità dove sarebbe giustificato non trovarla:
Even if you’re improvising, the fact that beforehand you know certain things will work helps you make those improvisations successful. It really helps to have a certain amount of knowledge about musical structure.
Ci troviamo davanti una figura ruvida, a tratti scomoda, che ha dentro di sé quell’alone tipico dei portatori di mistero e grandezza. Il passato è uno, fra i tanti, strumenti di rielaborazione cosciente e artistica e non funziona come un ostacolo o un semplice ricordo dei tempi che furono. Così Venus in Furs, ed I’m Waiting for the Man, diventano la versione di John e l’unica – la sola – possibile. La conversazione col pubblico parte dal rock e si fionda sulla no wave, sulla distorsione estrema di un certo free jazz a quella elettronica. Cartoline di quei viaggi lungo la vita che gli hanno dato e gli hanno tolto ma che forse non lo hanno mai voluto capire. Alle sue spalle i visual compongono il quadro mobile della sua esibizione, i colori accesi, le immagini delle devastazioni, cavalli di una discografia immensa, fatta di sfumature dai toni rock e una verve decadente e profonda. Un tutt’uno di immagini, fra Fluxus e Andy Warhol, fra le accademie e la strada. Qui ritorna l’immagine del fabbro, del lavoro certosino e artigianale di un certo tipo di musica che si ciba di visioni e sceglie di darsi come unica regola l’estetica del sentimento, anche quando prevale lo smarrimento. Efesto, il produttore alle viscere del vulcano, fatto di scintille e suoni complicati al limite di un altro tipo di musicalità, quella pura e disarmonizzante.
Basterebbe pensare, per un attimo, al valore dell’avant-garde, dell’immersione elettronica di alcuni brani, per comprendere l’importanza del background del compositore gallese, ma non serve, perché una delle sue opere originali riguarda la possibilità di rendere partecipi gli altri, trascinarli, raccontare qualcosa. Farli scatenare anche quando l’età non lo consente più a molti. E anche questa domanda ci scorre nelle vene, se un maestro possa mai dichiararsi stanco di suonare, se ne possa fare a meno o se la spinta non si esaurisca mai, finché le forze ti tengono in piedi e l’orecchio non perde allenamento. Chi è John Cale, e cosa saremo noi? Quei milioni di sogni, dopo ore di sonno, dove sono diretti? Allora il mestiere, l’artigiano, può utilizzare le sue armi per combattere il tempo, il destino dell’oblio, e riaprire uno sguardo? John Cale è, fondamentalmente, una serie di domande senza risposta, che si chinano su accordi e distorsioni ma provengono da luoghi inaccessibili. A noi, finché possiamo, il compito di godere il più possibile a tutti questi party del domani.