Le circostanze e la singolarità | Intervista a John Banville

Anni Cinquanta, Spagna, in pieno franchismo.
È questo lo sfondo su cui si distende la figura del burbero medico irlandese, Garret Quirke, che all’inizio del romanzo troviamo lontano dalla sua Dublino, in vacanza con la moglie nella costa atlantica di San Sebastián. Basta un volto familiare per risvegliare gli incubi del passato. Una ragazza, identica ad April Latimer, l’amica di sua figlia che era stata uccisa dal fratello anni prima. Sembra proprio lei, ma qualcosa non torna. Sarà questo dubbio il motore che spingerà Quirke a chiamare la figlia Phoebe e a farla venire nei Paesi Baschi.

Il dubbio del killer (Guanda, 2022), il cui titolo originale April in Spain gioca sul nome della presunta ragazza uccisa, è l’ultimo romanzo di John Banville tradotto in Italia. L’autore irlandese, vincitore del Man Booker Prize con Il mare (Guanda) nel 2015, è tra le maggiori firme contemporanee del mondo anglofono. Sotto lo pseudonimo di Benjamin Black, Banville ha pubblicato la serie di romanzi gialli che hanno per protagonista il dottor Quirke e il suo vecchio amico, l’ispettore Hackett, tutti editi da Guanda in Italia.

Ho avuto il piacere di intervistare l’autore a Roma, in occasione della rassegna Libri come, al termine del suo incontro con Giancarlo Cataldo all’auditorium Ennio Morricone. Si ringrazia per la traduzione Marina Astrologo.

In John Banville convive anche l’anima di Benjamin Black. Che posto occupa Black nella sua coscienza? E quanto influisce il modo di scrivere di Black su Banville e viceversa?

L’ho ucciso. [ndr, ride] Ci sono tanti motivi per cui ho inventato Benjamin Black, ma essenzialmente è andata così: dovevo scrivere una sceneggiatura televisiva, a un certo punto ho capito che quel telefilm non sarebbe stato mai prodotto e, dal momento che odio gli sprechi, ho deciso di trasformarlo in un romanzo. Poi ci ho preso gusto, ho continuato. In realtà, chi leggeva sapeva che dietro Black c’ero io, ma l’esperimento mi sembrava convincente. Poi a un tratto ho voluto provare l’esperienza di tornare indietro, ai miei libri precedenti, ho sentito l’esigenza di rileggermi, anche se io detesto leggere i miei vecchi libri, lo trovo insopportabile, così ho trovato una soluzione di compromesso: sono passato agli audiolibri. Sentendo leggere la mia storia da un’altra voce, ho cominciato a pensare che quelle storie mi convincevano. In quel momento ho deciso di farlo fuori.

Credo che passare da un genere all’altro le permetta anche di esaminare il male da prospettive diverse. Dalla furia del killer all’odio dei gemelli verso la governante ne Il mare. Il male è un elemento ricorrente nei suoi romanzi, come un ronzio costante o una malattia di cui si preferisce non parlare. Cosa l’affascina più del male? È una condizione radicata nell’uomo e quindi necessaria o un effetto sociale, un elemento esterno?

Sono convinto che il male non esista, toglierei questa parola dai dizionari di qualsiasi lingua. Quello che conta sono le circostanze. Ricordo che una volta, mentre camminavo per strada, sono inciampato, caduto e un gruppo di persone mi ha aiutato a rialzarmi, io in quell’istante ho pensato: “Questi potrebbero rapirmi, uccidermi qui e io non potrei farci niente”. Tutto dipende dalle circostanze.

“A Terry Tice piaceva ammazzare la gente. Tutto qui. Forse «piaceva» non era la parola giusta. E adesso lo pagavano per farlo, e lo pagavano bene. Ma non era mai una questione di soldi, in effetti. E allora cos’era? Ci aveva pensato e ripensato molto, in vari momenti, nel corso degli anni. Non era un mattoide e non era roba di sesso o comunque malata, niente del genere, non era uno psicopatico. La risposta migliore che aveva trovato era che si trattava di fare ordine, di sistemare le cose come si deve.”

La sua narrativa, sia quella noir che non di genere, racconta la fragilità umana e la morte, i fantasmi della memoria che possono sostituirsi alla vita. L’uomo parte e alcune volte non riesce a muoversi dalla sua condizione di sconfitta. Questa fragilità dell’essere umano è un riflesso della società postmoderna o una consapevolezza maturata soggettivamente?

Dipende sempre dalle circostanze. Gli esseri umani non cambiano, non sono mai cambiati. È vero, la vita umana è qualcosa di estremamente fragile, ma a me piace pensare che da scrittore io descrivo il mondo così com’è, senza filtri o compromessi.

Sono passati più di cinquant’anni dalla pubblicazione del suo primo romanzo, eppure continua a scrivere con grande costanza. Cosa la spinge a continuare, dove trova le motivazioni per alternare romanzi introspettivi a noir?

Rispondo molto semplicemente: scrivo gialli per guadagnarmi da vivere; gli altri romanzi per vivere.

John Banville, Nunzio Bellassai

La pandemia ha sconvolto gli equilibri delle nostre vite, ma per gli scrittori quest’esperienza ha significato qualcosa in più. Come ha vissuto il lockdown? Cosa abbiamo imparato secondo lei da questo dramma e cos’ancora possiamo imparare?

Gli esseri umani non imparano niente da niente, siamo quello che siamo. Per me il lockdown è stato un momento in realtà quasi piacevole, ho continuato a vivere come facevo, in isolamento, come molti scrittori. Tre mesi fa però questo virus si è portato via la mia prima moglie. Ora pensiamoci: dopo la prima guerra mondiale, l’epidemia di Spagnola ha tolto la vita a più persone di quelle che erano morte in guerra, ma nessun poeta o romanziere ha ricordato quella fase storica travolgente in una sua opera. Ecco, io spero solo che non ci siano schiere di scrittori assorti nella stesura del romanzo sul Covid. Lo spero, ma credo di sbagliarmi.

Che progetti ha per il futuro?

Quali progetti? [n.d.r., sorride] Al massimo vivere o provare a vivere un’altra vita. Ho scritto un ultimo libro a ottobre che non è noir, non ci sono delitti, ho impiegato cinque o sei anni a scriverlo e sarà l’ultimo del suo genere.

L’ultimo romanzo di mainstream o l’ultimo in generale?

Non ho più il tempo di fare progetti a lunga durata. E aggiungo un’ultima cosa: The singularities, il romanzo in questione che è uscito a ottobre nel mondo anglofono, termina con la parola “Punto”. Qualcosa vorrà dire.

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