Qualcosa di diabolico si nasconde nel fascino esercitato da Joaquin Phoenix, classe 1974, uno dei volti più interessanti del nuovo secolo cinematografico e figura forte e polemica nel panorama dell’attivismo animalista. Sebbene nel suo sguardo si possano leggere la sincerità e l’umiltà di un uomo schivo nei confronti dello star-system, cresciuto in una situazione familiare e monetaria estremamente ostica, la sua espressività è ammantata da un’ombra capace di far tracimare aspetti di ambiguità (e persino di crudeltà) che diverrà cardine inossidabile di alcune delle sue interpretazioni più amate da critica e pubblico.
Gli inizi di Phoenix sono abbastanza modesti. Assieme al fratello maggiore River, deceduto prematuramente all’età di 23 anni a causa di un mix letale di alcool e droga, il giovane attore passa da esibizioni di strada alle luci della ribalta hollywoodiane grazie alla mediazione della scopritrice di talenti Penny Marshall della Paramount. Da lì, l’ascesa inarrestabile e la prima scrittura importante: la commedia noir To Die For del 1995, scritta e diretta dal regista indipendente Gus Van Sant, con Nicole Kidman nei panni di Suzanne Stone, una femme fatale intraprendente e ambiziosa pronta a sfruttare il proprio corpo e addirittura a commettere un omicidio per raggiungere i suoi scopi. Phoenix, appena ventunenne, interpreta Jimmy, un ragazzo inevitabilmente intrappolato nella rete della subdola protagonista, e sebbene relegato in un ruolo secondario, fa traboccare il suo talento nell’impersonare personaggi eccentrici.
L’interpretazione ben accolta di To Die For non sfugge neppure all’occhio del regista inglese Ridley Scott, che chiama Phoenix a interpretare il crudele imperatore Commodo nel suo kolossal di successo mondiale Il Gladiatore (2000). Per l’attore, accettare la parte della nemesi del “generale che divenne schiavo” Massimo (Russell Crowe) sarà una mossa chiave sia per dare una svolta alla carriera (non tarderà, difatti, la prima nomination all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista) che per costruire un immaginario cinematografico memorabile e riconoscibile. Nei panni del dissoluto sovrano romano con pulsioni incestuose verso la sorella Lucilla (Connie Nielsen) e alla ricerca dell’approvazione del padre Marco Aurelio (Richard Harris), Phoenix alterna brutalità e pacatezza dando vita a una figura tirannica paranoica e imprevedibile, spietata ma dotata di un barlume di perversa e tragica umanità molto vicina al teatro scespiriano.
Dopo aver spalleggiato Mel Gibson in Signs e Bryce Dallas Howard in The Village, entrambi thriller paranormali diretti da M. Night Shyamalan (autore e regista di Il sesto senso) e basati su twist-ending scioccanti e suggestivi, Phoenix sfiora nuovamente l’Oscar (questa volta come Miglior Attore) per Walk The Line (2005), in cui il regista James Mangold sviscera l’intrecciarsi tormentato tra la vita privata e la carriera artistica del cantautore Johnny Cash, dilaniato dall’amore per la cantante June Carter (Reese Witherspoon), la dipendenza dai farmaci e il rapporto con la musica come esorcismo di caducità esistenziali. Nel 2007, Phoenix interpreta il gangster gestore di night club Robert Green in I padroni della notte di James Gray (con Mark Wahlberg), che come Commodo di Il Gladiatore è un personaggio desideroso di amore paterno (il genitore è un riverito capo della polizia impersonato da Robert Duvall) ma mosso da impulsi violenti in un viaggio interiore alla ricerca di un posto nel mondo, salvo poi dover fare i conti con gli errori di una vita.
Nel 2010 è la volta di I am still here! diretto da Casey Affleck, falso documentario in cui l’attore recita nella parte di sé stesso, mettendosi al servizio di una buffoneria metacinematografica che riflette sulla figura del performer annullando la parete che separa la finzione cinematografica dal reale. Ugualmente interessante, anche se per motivi diametralmente opposti, il protagonista (terza nomination all’Oscar) di The Master dell’erede di Robert Altman Paul Thomas Anderson, ovvero Freddie Quell, un rabbioso reduce della seconda guerra mondiale affetto da disturbi psichici che troverà una sorta di redenzione dalle sue emarginazioni grazie al “mentore” Lancaster Dodd (il compianto Philip Seymour Hoffmann), fondatore della Causa, una setta religiosa ispirata a Scientology. Dopo The Master, l’attore e Anderson collaboreranno ancora una volta nell’atipico noir Vizio di forma, controverso per la sua struttura narrativa non lineare e caratterizzato da dialoghi taglienti e da una cristallina ricostruzione storica dell’America hippie.
Ormai attore navigato, con una carriera trentennale perfettamente calibrata nella rigorosa scelta dei progetti su cui riversare tutta la sua verve interpretativa, Phoenix continua imperterrito ad arricchire la sua galleria di personaggi sui generis. Lo fa in primo luogo con il malinconico Theodore di Her (2013) di Spike Jonze, un solitario poeta perennemente in camicia rosa che finisce con l’iniziare una relazione pura e sincera con un’intelligenza artificiale (nella versione originale doppiata da Scarlett Johansson). Il film è temporalmente collocato in un futuro tanto distopico quanto inquietantemente allacciato alla nostra attualità per come ha anticipato lo sviluppo delle relazioni personali nell’era social. Segue poi il cinico filosofo maledetto Abe Lucas di Irrational Man (2015), inizialmente disinteressato alle problematiche del mondo finché non decide di uccidere un giudice reo di non applicare quell’equità della legge pretesa dalla sua carica. L’opera, con Emma Stone tra i protagonisti e tra le ultime schegge geniali di un Woody Allen ormai stanco e manierista, racconta una storia inquietante (per quanto edulcorata dall’umorismo beffardo del regista newyorkese) di scelte impulsive e conseguenze inaspettate, e fa una disamina ambigua del pericolo costituito da un intellettuale che pretende di possedere la verità in tasca.
Il disegnatore satirico paraplegico di Don’t Worry, He Won’t Get Far On Foot (Gus Van Sant, 2018) e il Gesù di Maria Maddalena (2018) confermano le doti di Joaquin Phoenix nel dar vita a personaggi vividi, lavorando principalmente sugli occhi e i mezzi toni per coglierne tutta l’umanità, trasmettendo così la loro voglia di vivere. Entrambi i film non sono troppo conosciuti, e in entrambi Phoenix figura con spiccata alchimia affianco alla compagna di vita Rooney Mara. Ben diversa la caratterizzazione horror impressa a Joker (Todd Phillips, 2019), ispirato ai fumetti DC e a oggi la sua miglior performance: a metà tra l’alienazione allucinata di Taxi Driver, la fascinazione perversa di Arancia meccanica e la fisicità sinuosa di Charlie Chaplin, il “clown principe del crimine” di Phoenix indossa il volto dolente e umano del Male, e si fa mattatore lasciato a briglia sciolta (elevato il numero di scene improvvisate sul set) di una storia di formazione al negativo, e catalizzatore della follia di un mondo ormai alla deriva. Un angelo vendicatore dei losers conscio della sua malvagità, agghiacciante nei suoi scatti di violenza.
Grazie alla sua mastodontica prova nelle vesti dell’arcinemico Batman (superiore persino a quelle già iconiche di Jack Nicholson e Heath Ledger), l’attore americano si avvia probabilmente a mettere finalmente le mani su quella statuetta rincorsa per quasi vent’anni. Sarebbe il giusto coronamento per un percorso giunto al massimo del suo splendore che, di sicuro, avrà ancora modo di stupirci, ammaliarci e tenerci in pugno.