Tutto il fascino delle parole di Joan Didion

 

The Blue Notebook

La lunga storia di Joan Didion ha inizio con un grande quaderno dalla copertina azzurra regalatole dalla madre con la speranza di renderla meno irrequieta e con il consiglio di appuntarvi sopra i propri pensieri. La prima storia che scriverà, ancora bambina, sarà un racconto surreale capace di mescolare ironia ed esotismo. Nata a Sacramento, nel 1934, da una famiglia che era andata a cercare fortuna fino all’estrema frontiera, al secondo anno all’Università di Berkley, spinta ancora dalla madre, vince un concorso, il “Prix de Paris”, che le assicura un lavoro come assistente alla ricerca presso la prestigiosa rivista di moda Vogue. La redazione del più importante fashion magazine del mondo è la palestra in cui crescerà la futura scrittrice: sotto la severa guida di Allene Talmey, editorialista del magazine, Joan Didion imparerà una lezione che non dimenticherà mai. Scrivere con ironia, con sense of humour, sviluppare la capacità di attrarre il pubblico, prediligere i verbi di azione per dare movimento al testo e tutto in uno spazio ridottissimo sono le regole da seguire: la porteranno in due anni a una scalata da semplice copywriter a redattrice associata.

Una volta in una stagione secca, scrissi a grandi lettere su due pagine di un quaderno che l’innocenza finisce quando veniamo privati dell’illusione di piacere a noi stessi.

È il 1961, sulla cover di Vogue è previsto già un pezzo: “Self respect, its source, its power”. Joan Didion a ventisette anni è chiamata a coprire il vuoto lasciato dal collega che avrebbe dovuto occuparsene. Con un incipit folgorante Joan Didion si prende improvvisamente lo spazio che merita. Si parla di carattere, di virtù diventate improvvisamente negoziabili, di letti resi scomodi dalle proprie scelte senza coraggio. È dentro le pagine patinate di Vogue che Joan Didion fa scoppiare una bomba con un pezzo assolutamente inusuale per lo standard del magazine. Di notte, nello stesso periodo scriverà il suo primo romanzo, e come ogni scrittore che si rispetti, inizierà scrivendo di ciò che più conosce: la propria vita, la propria famiglia. Non sa nemmeno come fare, attacca brevi appunti su fogli in giro per il suo appartamento sulla famiglia, sul padre e la sua tristezza, così tangibile da farle sentire forte il bisogno di scappare in sua presenza a rifugiarsi nella sua stanza. Run River (1963) non sarà affatto un successo, anzi, ma è con questo libro che Joan Didion, che pure scrive da quand’è piccolissima, comincia a pensare a se stessa come una scrittrice.

 

The Center Will Not Hold

Things fall apart; the centre cannot hold;

Mere Anarchy is loosed upon the world

 Non è da qui però che parte The center will not hold, il documentario girato dal nipote Griffin Dunne per celebrare un’icona di giornalismo, di scrittura e di stile, ma dalle immagini di giovani hippie a Haight-Ashbury, il quartiere di San Francisco, meta e culla della controcultura degli anni sessanta. È il 1967: il giornale The Saturday Evening Post, il pezzo dal titolo Slouching Towards Bethlehem e l’epigrafe che lo apre sono un omaggio a “The Second Coming”, by W. B. Yeats scritta nel 1919, una visione che prende a prestito le immagini de L’Apocalisse attraverso cui, la sensibilità del poeta riconosce il baratro aperto dalla fine della Prima Guerra Mondiale, ponte verso una tragedia ancora più grande. Le cose cadono a pezzi; il centro non può tenere. È tutta lì la visione di Joan Didion, lucidissima, ferma, cruda, diretta. Slouching Towards Bethlehem è uno schiaffo in pieno volto a chi sognava la favola della controcultura hippie che in quel reportage si fa, invece, universo di disperati, tra vite allo sbando e consumo di droga, non movimento di libertà e pace ma piuttosto uno specchio deformato del potere. Didion dosa le parole, fa suo lo slang dell’umanità varia e colorata tra cui s’infiltra in quei giorni, lei trentaduenne, dieci anni più grandi della quasi totalità dei ragazzi fuggiti da casa verso il Golden Gate come nuova mecca, una religione sintetica dove l’acido, l’LSD è l’ostia di un’eucarestia che non sembra far risorgere ma che invece consuma e divora.

Andai a san Francisco perché non ero stata più capace di lavorare da qualche mese. Ero paralizzata dalla convinzione che scrivere fosse un atto irrilevante. E che il mondo come l’avevo compreso non esistesse più. Se avessi ancora lavorato, sarebbe stato necessario per me venire a patti col disordine.

San Francisco sarà una delle tappe della sua vita, alla ricerca di una stabilità e di quell’ordine che disperatamente cerca e tragicamente le sfuggirà sempre dalle mani.

Chi è davvero Joan Didion? Questa donna ormai più che ottantenne, magrissima, con un fisico nodoso, minutissimo, magrissima, dallo sguardo e dal sorriso ancora giovanissimi, certamente più giovani dell’aria greve che ha nelle tante bellissime foto che scorrono a puntellare il documentario.

The Center will not Hold prova a rispondere a questa domanda e lo fa in una maniera classica e asciutta con un modello forse troppo televisivo in stile Netflix da cui è prodotto. È lontano, insomma da recenti capolavori del genere come Listen to me, Marlon (2015, di Stevan Riley) o Ingrid in her own words (2015, Stig Björkman) ma che riesce comunque a mantenere alta l’attenzione grazie al carisma della Didion che prorompe dalla lunga intervista rilasciata al nipote (e solo all’interno dell’ambito familiare la Didion avrebbe potuto lasciarsi andare a un racconto di sé) e alle tante immagini di repertorio di un’epoca che in maniera fortissima fa parte dell’immaginario da controcultura pop (lo stesso che emerge dal bellissimo libro Io sono vivo, voi siete morti di quell’Emmanuel Carrère che tanto deve al movimento giornalistico/letterario cui la Didion diede un contributo fondamentale).

Mentre è ancora a New York avviene l’incontro con John Gregory Dunne che scriveva per il TIME Magazine: “io non so cosa significhi “fall in love” non è parte del mio mondo ma ero determinata a sposarlo, voglio dire, ricordo quanto mi fosse chiaro che volessi che la nostra storia continuasse. Mi piaceva essere in una coppia e mai avrei potuto esserci se non con qualcuno che faceva lo scrittore, perché avrebbe avuto pazienza con me”.

Sembra quasi rifiutare la passione Joan Didion come se anche questa celasse il disordine, come se l’amore, sì anche quello, dovesse rientrare dentro le logiche di una vita borghese, dalla parte sinistra del mondo certamente ma sempre dentro a un mondo da tenere sotto controllo. La storia con Dunne è il connubio tra due scrittori che si comprendono a vicenda che finiscono l’uno le frasi dell’altro. A ventotto anni però Joan Didion vive una delle sue crisi. Anche New York che è stata la sua nave scuola, che l’ha accolta per quanto New York possa accogliere, abituata com’è ad allargare le braccia senza mai chiuderle in un vero abbraccio, è diventato un posto dove tutto sembra già detto, e per Didion si fa avanti la consapevolezza come uno spettro quanto mai reale, che: “it’s not possible to stay too long at the fair”.

 

New Journalism

Un annuncio su un giornale, una casa in affitto a Los Angeles a picco sul mare sulle scogliere della baia di Portuguese Bend con vista sul Pacifico. Dai sei mesi previsti inizialmente Los Angeles diventa invece la nuova casa. John lavora a Delano: The Story of the California Grape Strike e Joan inizia a collaborare con lui. Scrivono insieme per diverse riviste, Saturday Evening Post, Holiday, LIFE ed Esquire fino ad arrivare a curare una colonna a quattro mani. Una totale fiducia nel lavoro dell’altro alimentata dal rispetto dei diversi sguardi e punti di vista.

E a Los Angeles dopo i tentativi falliti di avere un figlio arriva una benedizione, una telefonata dal Saint John Hospital e la possibilità di adottare una bambina appena nata: Quintana Roo. L’arrivo di Quintana coincide con il trasferimento in una bellissima vecchia villa piena di stanze su Franklin Avenue. È in questa casa che Joan e John inizieranno a ospitare amici e vicini; Joan tutte le mattine si alza tardi, mangia mandorle da una lattina e beve rigorosamente una bottiglia di coca cola ghiacciata: l’America e i suoi simboli pop anche all’interno dell’elite, dentro a un sabba di contraddizioni. La grande villa ha un vicinato particolare, rockstar, gruppi di terapia. È qui che nasce l’interesse per il movimento hippie.

Il centro non reggeva. Era un paese di avvisi di fallimento e annunci di aste pubbliche e comuni denunce di omicidi casuali e bambini smarriti e case abbandonate e vandali incapaci di scrivere bene persino le parole di quattro lettere scarabocchiate. Gli adolescenti andavano lacerati alla deriva da città a città, raschiando via tanto il passato che il futuro come serpenti che mutano la loro pelle, bambini a cui mai sono stati insegnati e che mai avrebbero imparato i giochi che avevano tenuto insieme la società.

Slouching Towards Bethlehem, che darà il nome anche alla sua prima raccolta di saggi (1968), si conclude con l’immagine fortissima di un bambino di appena cinque anni, seduto a terra con le labbra lucide di quello che Joan Didion crede essere un semplice lipstick e si rivelerà invece essere dell’acido.

È un racconto sconvolgente per l’elite democratica americana, per quella classe politica e sociale progressista in piena fascinazione da hippiedom. Un reportage che dal cuore pulsante e brulicante di Haight-Ashbury raggiunge le prime pagine. Quando il nipote le chiede com’era stato assistere a quella scena, Joan Didion risponde in maniera netta “It was gold. Se decidi di lavorare come giornalista la verità è che vivi per momenti come questo”.

Joan Didion inizia così a scrivere la storia del suo tempo attraverso i saggi ma rifuggendo dall’accademia, aggiungendo i colori, le sfumature della fiction e realizzando qualcosa che in quel modo nessuno aveva fatto prima.

Miss Didion merita sicuramente un pubblico più vasto tra quei lettori capaci di apprezzare qualità come grazia, raffinatezza, sfumatura, ironia e, come la stessa Didion sottolinea “ciò che eravamo abituati a chiamare carattere”.

(New York Times, 1968)

9 agosto 1969, è l’attrice Nathalie Woods a chiamare a casa Dunne-Didion per raccontarle cos’è accaduto la terribile notte prima: Los Angeles, Cielo Drive, Sharon Tate, la Family di Charles Manson.

Prima, ogni cosa sembrava avere una spiegazione poi improvvisamente accade il caso Manson e nulla più aveva senso.

Joan Didion così profondamente scioccata dal caso Manson (in fondo la grande perdita dell’innocenza americana) e toccata direttamente dall’ambiente californiano nel quale si muove (troverà durante una festa, persone a drogarsi nella stessa stanza dove la piccola Quintana sta dormendo) decide di seguire direttamente il caso di Lynda Kasabian, vent’anni, incinta di sette mesi del suo secondo figlio e dichiaratasi non colpevole per l’omicidio di Sharon Tate e di altre sei persone. L’incontro con Lynda Kasabian è scioccante: le racconterà, infatti, che in un primo tempo la casa a essere presa in considerazione era stata proprio quella in Franklin Avenue dove abitava con John e Quintana.

Strana e inquietante la catena di corrispondenze che improvvisamente la legano a Lynda Kasabian: tornano tutte a galla il giorno in cui le comprerà un abito bianco per il processo, bianco come il vestito che la Didion aveva acquistato il giorno dell’omicidio del presidente Kennedy e sul quale, anni dopo, proprio Roman Polanski, marito di Sharon Tate, avrebbe versato distrattamente del vino. Tentativi di dare un ordine alle cose che un ordine non ce l’hanno.

I believe to be an authentically senseless chain of correspondences. But in the jingle jangle morning of that summer, it made as much sense as anything else did.

 

The White Album

Il disco del 1968 dei Beatles è il fulcro intorno a cui ruota la strage di Cielo Drive, Helter Skelter l’invito ad agire che il folle Manson crede di leggere tra le parole scritte da Paul McCartney in cui intravede la descrizione dell’Apocalisse.

Joan Didion impiegherà dieci anni a realizzare il suo White Album (1979), la sua seconda raccolta di saggi, scegliendo un titolo che, oltre a richiamare evidentemente, la strage di Beverly Hills è in qualche modo una dichiarazione d’intenti. La Didion si rende conto che il disordine le impedisce una riduzione organica di ciò che ha davanti e per raccontarlo si affida a una raccolta di saggi sfruttando la stessa struttura del disco dei Beatles, capolavoro disomogeneo e polifonico, summa di quell’atmosfera, e capace di alternare canzoncine pop à la Ob-La-Di Ob-La-Da alle sperimentazioni più audaci di Revolution 9.

I want you to know as you read me precisely who I am and where I am, and what is on my mind. I want you to understand exactly what you’re getting. You’re getting a woman, who for some time now, has felt radically separated from most of the ideas that seem to interest other people. You’re getting a woman who somewhere along the line, misplaced whatever slight faith she had in the social contract in the whole grand pattern of human endeavor.

 I dubbi di John Dunne portano non solo a una crisi matrimoniale ma a due nuove opere. Vegas, A Memoir of a Dark Season sarà il libro di John Dunne sulla sua fuga a Las Vegas; Joan Didion invece scriverà un articolo a cuore aperto affidandosi ancora una volta alle correzioni del marito: incredibilmente sull’orlo del divorzio la loro reciproca fedeltà letteraria non subisce contraccolpi.

I dark times si riflettono anche nel nuovo romanzo della Didion, Play it as it lays (1972). La copertina con un serpente ripropone un’immagine ricorrente nella sua scrittura assurgendo sempre più a simbolo se non del male certamente del disordine che l’angoscia.

Play it as it lays acuisce ancora di più i contrasti tra lo stile raffinato e il disordine che attraversa la materia narrativa che tratta. La protagonista, Maria è certamente una parte della Didion, sua è, infatti, quella meaningless of experience, quellamancanza che la Didion percepisce non solo come angoscia personale ma come male comune all’intera comunità losangelina.

Cinema

Una casa a Malibù Beach, il mare con la sua vicinanza all’orizzonte così importante per Joan Didion e i pezzi tornano improvvisamente insieme.

Per uno di quei casi particolari, prima ancora che il destino bussasse alla porta di casa Dunne-Didion, a entrarci fu un giovane aspirante attore nelle vesti di carpentiere. È Harrison Ford, cui è affidata la ristrutturazione della villa, che si ritrova improvvisamente immerso in un mondo che era l’emblema del grande fermento culturale di quegli anni. Brian De Palma, Martin Scorsese, Steven Spielberg erano i giovani ospiti abituali. È così che la coppia Dunne-Didion entra nel mondo del cinema dall’unica porta a loro accessibile, quella della scrittura. E in fondo era una strada segnata, l’esperienza a Vogue, quel senso di movimento nel racconto non potevano che portare all’arte della sceneggiatura, a quell’idea asciutta di un testo che non può bastare a se stesso ma che ha bisogno di essere ricoperto dalle immagini, dal movimento della camera e degli attori. The panic in the needle park, il primo film di cui si occuperanno, non è un soggetto originale ma è preso da un romanzo di James Mills, sviluppato partendo da una serie di articoli pubblicati per LIFE Magazine.

It’s Romeo and Juliet but they are junkies

(Dalla presentazione di The Panic in the Needle Park)

Anche Play a sit Lays diventerà un film (ne seguiranno altri tre) ma con risultati deludenti tanto per la critica quanto per la stessa Didion: “tutto era differente nonostante io avessi scritto la sceneggiatura”, una dichiarazione che è in parte discorso serio sul ruolo differente del medium scelto, dall’altra parte boutade messa lì a evidenziare una personalità non sempre granitica anzi spesso naïf e ricca di contraddizioni. Un modo, il suo, di essere presente e assente a un tempo, di essere affascinata e respinta da fenomeni contigui (la Didion amava, ad esempio, i Doors perché bad boys ma detestava, al contempo, i suoi vicini rockettari) con un’espressione spesso distaccata che sembra non mostrare quasi alcuna empatia, come se la donna racchiudesse la scrittrice in un involucro di durezza e impermeabilità a protezione di un animo sensibile.

Il lavoro di scrittura delle sceneggiature funziona secondo uno schema ben preciso: una serie di stesure alternate in cui l’altro ricopre il ruolo dell’editor. La Didion tra fiction e verità trova un’altra strada che lei stessa però legge con molta più leggerezza: “lo faccio per divertimento, e per soldi. Scrivere una sceneggiatura è un po’ come scrivere delle note per il regista”.

 

La politica

Scrivere, scrivere, scrivere. La Didion sembra rispondere a un solo comandamento. Se il White Album rappresenta certamente uno spartiacque profondo nella sua carriera che le apre orizzonti d’interesse verso il mondo esterno, A Book of Common Prayer di due anni prima (1977), storia di una tragedia privata e politica in un paese immaginario del Sudamerica è anche il tentativo di riportare su carta, nero su bianco le paure di una madre, del distacco da una figlia, della paura di cosa succederà quando la figlia crescerà.

Ma tutto ciò è una considerazione a posteriori: la scrittura per Joan Didion è una terapia psicanalitica a freddo, l’unico modo per comprendere i propri sentimenti, i propri pensieri, il suo posto dentro a un mondo che fa fatica a comprendere e che desidera comprendere ad ogni costo. Da qui la sua forza, di donna lucidissima che cerca invece di evitare il baratro, spingendosi su sentieri e percorsi sempre più impervi.

Per la Didion, un libro è un divenire continuo sotto le proprie mani, grazie a una consapevolezza acquisita col tempo e lontano dai giorni newyorchesi. Qualcosa di vivo, di fisico al punto tale che quando Joan si blocca mette letteralmente il manoscritto nel freezer di casa, avvolgendolo in una busta di plastica, come a voler fermare i suoi pensieri, per dare loro la possibilità, al ritorno dell’ispirazione, di restare intatti senza che si siano decomposti sotto il peso del tempo e quello incrollabile dell’assenza.

I libri riguardano anche cose con cui hai paura di fare i conti. Play a sit lays riguardava le madri e le figlie, a un certo livello così come A Book of Common Prayer riguardava una madre e una figlia e la loro separazione. È come se raccontare una storia della quale hai paura ti lasciasse pensare che quel qualcosa non ti accadrà.

A Book of a Common Prayer accende una scintilla in Robert Silver, capo editore della New York Review of Books, che intravede nella scrittura e nella naturale inclinazione alla curiosità della scrittrice californiana qualcosa su cui scommettere. È la svolta politica della Didion. Salvador (1983) è il reportage dall’incubo centramericano. Fino a quel momento la politica era rimasta fuori dalla sua sfera d’interesse semplicemente perché sembrava esistere col solo scopo di mantenere se stessa.

Inaspettatamente, invece, la sua libertà di pensiero diventa uno sguardo straordinario su quel mondo: a Salvador seguiranno Miami (1987) e Political Fictions del 2001 e, ancora, il 5 ottobre del 2006 sulla The New York Review of Books un pezzo intitolato Cheney: The Fatal Touch, crocevia fondamentale per comprendere appieno il vero nocciolo della brutale politica della presidenza Bush.

19 aprile 1989, New York Central Park. Una giovane donna bianca, enfant prodige di Wall Street viene assalita e barbaramente stuprata. A essere accusati sono alcuni ragazzini di colore, minorenni. La stampa soffia sul fuoco in quello che diventerà uno dei casi mediatici più importanti degli anni ottanta e novanta. Donald Trump acquisterà le pagine dei più importanti giornali di New York per invocare il ritorno alla pena di morte (e l’immagine di un Trump furioso ripresa dal documentario avrà il suo contraltare in una delle scene finali quando Obama con dolcezza legherà al collo di Joan Didion la National Medal of Arts and Humanities).

Era una storia per me. Ogni cosa rispetto a quella storia era una menzogna.

 Joan Didion scriverà un lunghissimo saggio, Sentimental Journeys, per The New York Review of Book nel 1991. La ragazza è cresciuta, ne è passata di strada da Slouching Towards Bethlehem: quello che un tempo era stato un momento cruciale nel percorso del New Journalism ma anche, in alcuni tratti, il ritratto non del tutto riuscito di una generazione disperata, qui in Sentimental Journeys si fa incredibile analisi psicologica e sociale del razzismo e del pregiudizio, il grande male che si annida dentro al sogno americano, non un reportage giustizialista ma pamphlet straordinario che riflette sull’ingiustizia sociale.

Soltanto nel 2002 la confessione di un giovane ragazzo ispanico portò alla luce una storia ancora più atroce di manipolazioni, di confessioni estorte con la minaccia e la paura.

 

Il dolore

Ho sempre pensato che esplorare a fondo qualcosa la rendesse meno spaventosa. C’è questa teoria che se riesci a tenere un serpente nel tuo campo visivo allora non potrà mai morderti, è il modo attraverso cui mi confronto con il dolore. Voglio sapere dov’è.

E il dolore si abbatte improvviso nella vita di Joan Didion. Quintana si sposa il 23 luglio 2003. Si sente male la notte della vigilia di Natale seguente: quella che sembra una semplice influenza si rivela essere una fortissima polmonite che nel giro di poche ore la fa entrare in coma. La sera del 30 dicembre, a cena, dopo essere tornati dalla quotidiana visita in ospedale, John Gregory Dunne muore per un infarto fulminante davanti agli occhi della moglie nel loro appartamento di New York, dove sono tornati da qualche anno. Come in una tragedia greca, Joan si rifiuta di seppellire il marito fino a che la figlia non starà bene. Passeranno tre mesi. Con la complicità della madre, appena qualche giorno dopo i funerali, Quintana decide di partire per Malibù per ritrovare la pace. Non la troverà mai più. All’atterraggio in aeroporto batte la testa cadendo, l’ematoma la costringe a una complessa operazione chirurgica, non ha neanche il tempo di riprendersi: una pancreatite la porta via per sempre all’età di appena trentanove anni il 26 agosto 2005.

Quell’ordine che la Didion ha cercato di preservare per tutta la sua vita non esiste più. The center cannot hold. Ogni cosa è perduta, dietro di lei non ha più nessuno. La scrittura diventa un dovere morale, un modo, l’unico, per comprendere il dolore che la attraversa.

Il dolore è un luogo che nessuno di noi conosce fino a che non lo raggiunge

The Year of Magical Thinking (2005) esce alla fine dello stesso anno. Ma in quel libro Quintana non c’è; c’è invece il dolore per la perdita dell’amato John. Sarà Premio Pulitzer e l’inizio di una fase nuova nella scrittura della Didion: non c’è più un mondo esterno da affrontare e scavare ma un mondo interiore, da dover capire e affrontare.

La parte più difficile è stato finirlo. Perché fino a che lo scrivevo ero ancora, in qualche modo, in contatto con lui.

Joan ha ormai più di settant’anni, il colpo è durissimo. Per aiutarla, in un gesto di amicizia e generosità il drammaturgo inglese David Hare le propone di scrivere un’opera teatrale dallo stesso titolo. Il dolore stavolta riguarderà anche la figlia, sarà una terapia, un modo per allontanare quel dolore. Ma anche il tentativo di proteggerla, standole accanto. La pièce debutta nel 2007 con Vanessa Redgrave in una catena di corrispondenze che si riallaccia e si fa sempre più tragica (la figlia di Vanessa, Miranda Richardson, moglie di Liam Neeson morirà per un incidente sugli sci due anni dopo).

Blue Nights (2011), a oggi, l’ultimo libro di Joan Didion è una lunga lettera dedicata in qualche modo a David Hare, l’unico che Joan sente in grado di comprendere il suo dolore, ed è un lucido e struggente addio alla figlia.

This book is called Blue Nights, at the time I began it, I found my mind turning increasingly to illness. To the end of promise, the dwindling of the days, the inevitability of the brightness. Blue Nights are the opposite of the dying of the brightness but they are also its warning.

Il documentario si chiude con Joan Didion di spalle, che si allontana con gli occhiali in una mano alla fine di un’altra giornata.

See enough and write it down, I tell myself. And then some morning, when the world seems drained of wonder, some day when I’m going through the motions of doing what I am supposed to do, which is write…on that bankrupt morning, I will simply open my notebook and there it will all be, a forgotten account with accumulated interest. Paid passage back to the world out there. It all comes back.

Remember what is to be me. That is always the point.

 

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