Li avevamo lasciati, quasi un anno fa così, con tante aspettative e attese per il primo album. Alla fine è arrivato Many a true word is spoken in Jest, il loro debutto ufficiale nel marasma della musica emergente. I dodici brani del loro esordio si compongono di quell’imprevidibilità che non ti permette di delinearne uno stile unico, sia dal punto musicale, a causa delle differenti influenze che emergono in ogni traccia, che da quello della scrittura. La lancia, però, si spezza in loro favore in un aspetto importante. Alcuni brani sono stati riarrangiati rispetto al passato, questo perché concentrarsi sui concerti piuttosto che lanciarsi immediatamente nella registrazione, permette di limare i difetti e alcuni virtuosisimi da emergenti, concedendo al disco un livello di qualità più elevato rispetto ai tanti che ci provano credendo che la dimensione live sia soltanto una parte successiva.
Rispetto a come li avevamo lasciati tempo fa questa esperienza guadagnata sul campo paga, anche se la dimensione sperimentale della loro musica ha perso terreno, trasformandosi in ruggine di chi, a forza di prendere gli strumenti in mano, ha consolidato la sua realtà. La commistione di generi è una lama a doppio taglio, da una parte ti permette di distinguerli da moltissime e collaudate band emergenti che sanno fare una cosa soltanto, mentre, dall’altra, rischiano di farne perdere le potenzialità e di creare un senso di disorientamento nell’ascoltatore che non sa, effettivamente, che cosa sta sentendo uscire dallo stereo. Questo, però, non significa che sia una scelta sbagliata o poco coraggiosa. Anche non avere uno stile è, alla fine, uno stile e l’attenzione che viene richiesta all’ascoltatore è la stessa di chi vuole che ai concerti le persone si possano divertire e, magari, interessare. È in questa bidimensionalità, live-studio, che la formula si rivela vincente e piena di potenzialità future.
Many a true word is spoken in Jest è un disco maturo per una band emergente che conosce i suoi punti deboli e riesce a mascherarli con il sound trascinante di una Spin in the Rhythm, vero e proprio pezzo forte, capace di condensare dentro di sé le derivazioni più blues di Respect the moon e quelle più ruvide di The Swed, tracciando un filo conduttore di quello che sarà un possibile futuro della band. I suoni groove e ritmici di questo brano sono quelli di chi ti sa coinvolgere e su cui i Jest devono puntare, lasciando da parte le incertezze. La musica è la parte fondamentale di questo giovane album e, comprensibilimente, a rimetterci è la voce, soprattutto nei brani più melodici mentre, a sorpresa, in quelli più rapidi risulta più coinvolgente ed efficace. Non solo nella già citata Spin in the Rhythm. È anche interessante come ogni brano abbia un richiamo sonoro con un altro, il caso di Respect the moon e Ruler of dream, o di Modern sense e The Swed. Questa alternazione permette una lettura uniforme del disco, se non dal punto del genere di quello della storia che i Jest hanno provato a raccontarci. Sono basi, e non debolezze, su cui dover riflettere e ripartire ma il cammino è già pieno di luce. È una questione di aspettative e chi più esordisce bene, comprensibilmente, si carica di maggiori responsabilità.
I Jest hanno confermato gran parte di quello che avevano dimostrato sui palchi, le note positive come quelle negative, ma questo album è una base di partenza solida e collaudata. Gli si può rimproverare molto poco e, se lo si fa, è perché si vuole che questo Jest prenda finalmente il volo, lasciando i pesi che si porta dietro un esordiente creando davvero quella vhs ipnotica che spingeva i personaggi di Foster Wallace a guardarla fino alla fine.