Quando nel 2006 una ragazza norvegese di ventisei anni, nascosta dietro al moniker di Rockettothesky dava alle stampe il suo primo album, pochi avrebbero potuto immaginare che dietro quella ricchezza di suoni pop si nascondeva quella che sarebbe diventata una delle autrici più originali dell’intero panorama internazionale. Quando Barrie for Billy MacKenzie iniziava con la sua chitarra di zucchero filante ad accompagnare una vocina esile e meravigliosamente pop, chiunque avrebbe pensato di trovarsi davanti a un fenomeno tanto semplice e accattivante quanto effimero. Era questione di secondi, poi una frase lasciata cadere lì con la più semplice delle innocenze “I imagine all your hairs are fingers / And it makes me cum” sarebbe stato il più grande schiaffo ai luoghi comuni e ai pregiudizi. Stava nascendo una voce, tanto nel suo senso etimologico quanto in quello autoriale.
Fino a diciannove anni Jenny resta in Norvegia e in ambito musicale è la cantante di un gruppo goth, suo solo spazio di espressione, del quale non condivide granché. Si trasferisce, quindi, in Australia dove, accanto alla passione per la musica che la porta in due diverse band, studia scrittura creativa all’Università di Melbourne. E’ l’esperienza fondante, quella che la avvicina agli studi sul linguaggio e la parola, la psicanalisi e il femminismo, che non saranno solo i temi che la accompagneranno da quel momento in poi, ma si faranno struttura portante di un modo di fare musica che sarà un tutt’uno con il suo modo di pensare e di vivere. Testa e corpo, pensiero e sangue.
Il ritorno in Norvegia, alla fine degli studi, segna l’avvio dei primi lavori importanti a nome Rockettothesky, gli album To Sing You Apple Tree e il successivo Medea (2008). Se il primo è il racconto fresco e spontaneo di esperienze e sentimenti senza alcun filtro ma anche di piccoli momenti di fantasia e surrealismo, il secondo inizia a esplorare temi più complessi (l’ispirazione è nelle tragedie greche) a cominciare dalla morte, tema che in maniera implicita o esplicita ricorre sempre nelle liriche della Hval.
[Fear of death is] part of why I make music, to create this reconciliation with theatre and with dying. And I think that’s what a lot of [artists] are doing. It’s the ultimate feeling – to feel like it’s OK to die now. It’s OK. Like a Venn experience, of life and death getting closer, and it’s OK.
(Intervista con Harriet Gibsone, The Guardian, Settembre 2016)
Viscera, pubblicato nel 2011, non è soltanto il disco in cui la cantautrice si presenta finalmente col suo vero nome, ma è soprattutto il disco in cui i tentativi dei primi due album, comunque notevoli, cominciano a trovare la loro forma. Blood Flight riassume in sé tutti i pregi dell’album, una musica lenta e ossessiva fatta di straordinarie aperture liriche e drammatiche che sostengono testi profondi e visionari “And on the edges of the cunt / Grew little teeth! / The clitoris, that great sphinx, opened its eye: / So many blind years, acting Oedipus”.
Jenny Hval non mostra né esitazioni né timori nell’illuminare un dialogo intimo e personale con se stessa, le sue paure e le sue emozioni. Nulla appare superfluo, ogni cosa sembra sorretta da una ragione che torna alla fine del disco, la crudezza, la totale onestà nel racconto di sé, gli arrangiamenti barocchi e i momenti di grande asciuttezza, il lavoro sul linguaggio nei testi e sulla voce, splendida e istrionica ma capace di ripiegare in un sussurro o in un rantolo soffocato.
Sono tanti i nomi che si sono spesi nel gioco dei paragoni: Bjork, Laurie Anderson, Meredith Monk e tutti non a caso. Sperimentazione e vocalità, una grande capacità di essere in qualche misura avanguardia senza rinunciare con caparbietà a un’attitudine pop, nel senso nobile del termine, che riallaccia inevitabilmente la Hval agli anni settanta e al tentativo di allora, probabilmente fallito, di portare il popolo verso la cultura, e non viceversa (ciò che sembra, invece, essere esploso a partire dal decennio immediatamente successivo).
Ma la grandezza della Hval sta nel fatto che, partendo da questa base e da questa peculiare visione del mondo, abbandona ogni traccia di passatismo, riuscendo a portare con incredibile naturalezza certe istanze, soprattutto femministe, dentro il mondo contemporaneo, funzionando non solo come medium ma come formidabile indagatrice capace di raccontare l’oggi e le sue (im)personali inquietudini dentro una forma contemporanea e non fuori da essa.
In questo senso la sua voce, non in senso letterale, ma in quello autoriale sembra essere davvero tra le più innovative e tra le più moderne. Il suo linguaggio artistico si fa sintesi altissima di un modo diverso di stare dentro la contemporaneità. Un modo che porta dietro di sé la tradizione ma che è capace di mescolarla (anche musicalmente) con la visione contemporanea grazie all’esplorazione di sé e con essa della figura femminile nel terzo millennio attraverso il passaggio creativo della visionarietà, del sogno e del suo incubo gemello.
In una produzione artistica che la vede autrice di opere di poesia, di pezzi di giornalismo musicale e soprattutto di due romanzi, Perlebryggeriet, The Pearl Brewery del 2009 e Inn i ansiktet, Sings with her eyes del 2012, (con una forte ispirazione verso il premio Nobel Elfriede Jelinek), fortissima è la centralità del corpo, la sua descrizione, i suoi bisogni, le sue miserie, raccontati in maniera mai banale. Con uno sguardo altro, la Hval sembra (ri)cercare un senso perduto senza alcuna pretesa di risposta ma con l’assoluta consapevolezza dell’importanza di porre la domanda e scardinare, in definitiva, un sistema di segni stantii e obsoleti per cercare di restituire il valore alle cose.
La strada è segnata ormai ma non sarà mai una strada battuta. Cambiare, non ad ogni costo, ma come elemento fondamentale per assecondare l’evoluzione di sé. Innocence is kinky (2013) vede l’ingresso di chitarre rock, di una voce che inizia a spingersi molto più in là di quanto fatto fino a quel momento ma anche di passaggi di puro noise, in uno stile che si fa sempre più personale nel suo costante cambiamento. Iniziano a essere presenti quei segni di desaturazione che si faranno più evidenti negli anni a venire. Su tutto resta comunque un’infinita capacità di sorprendere, musicalmente soprattutto, con cambi di tempo o attraverso melodie improvvise come radure a spezzare la foga o il rumore. Innocence is kinky è un folletto che abbandona i boschi norvegesi e, catapultato in una realtà da metropoli industriale, scopre di provare piacere e senza il bisogno di adeguarsi determina il movimento intorno a sé. Frammentario, è come un helter skelter di emozioni e sensazioni che non saziano, è l’emblema di una libertà creativa che non è esagerato definire assoluta.
A precedere e seguire Innocence is kinky, due dischi di collaborazioni: il primo, Nude on sand, nel 2012, accompagnata dalla chitarrista norvegese Håvard Volden, il secondo, Meshes of Voice, nel 2014, con la cantante Susanna Wallumrød. Nel confronto con entrambe le artiste, la Hval rinuncia in parte a una certa furia creativa. Il primo lavoro è forse più riuscito grazie all’intreccio della sua voce con le soluzioni chitarristiche mai banali della strumentista norvegese. Il secondo è un incontro di voci, bellissime e forse qui la Hval ha modo di dimostrare ancor più che nei suoi dischi la grande ariosità delle sue corde vocali in un progetto sicuramente più classico.
You say I’m free now, that battle is over, and feminism is over & socialism’s over. Yeah, I say I can consume what I want now
A trentatre anni Jenny Hval passa alla Sacred Bones, l’etichetta che pubblica i lavori musicali di David Lynch, approdo naturale per un’artista così visionaria e provocativa che in più di un’occasione non ha nascosto un’attenzione anche al cinema soprattutto, ancora una volta, declinandolo negli aspetti linguistici. Il primo lavoro per la Sacred Bones è Apocalypse, Girl e sorprende ancora una volta quest’avanzata costante in cui ogni nuovo passo si contraddistingue per cambiamento e maturità. Continua l’analisi su se stessa, anzi si fa molto più forte con i sintetizzatori stavolta a farla da padrone che in più di una felice occasione accompagnano testi che sono in realtà monologhi più che canzoni. Clitoridi onnipresenti fanno qui il paio con la società capitalistica e la Hval è ancora una volta brava a reggere un naturale equilibrio tra discorsi sul gender (nella loro accezione meno banale), sul valore erotico e politico del corpo, del desiderio e in maniera assolutamente personale, sulla propria dimensione onirica (Sabbath è, in questo senso, uno dei testi più affascinanti da moltissimi anni a questa parte).
Dopo un immancabile lavoro di esplorazione in collaborazione con altri musicisti, In The End His Voice Will Be The Sound Of Paper è un disco in chiave minimalista che s’interroga sull’evoluzione della voce di Bob Dylan, quest’anno, lo scorso settembre la Hval ha pubblicato il suo ultimo disco ancora per la Sacred Bones.
Don’t be afraid / It’s only blood
Bastano i primi secondi di Blood Bitch, il crepitio lontano, una ambient drone music su cui la voce della Hval disegna i primi sussurri per assaporare la nuova svolta musicale. Al suo sesto disco è evidente come il cerchio non si chiuda, ma anzi apra nuovi orizzonti, nuovi scenari. Il sangue diventa centro di tutto, non solo nella sua accezione generale ma la Hval, che non ha paura di tabù soprattutto nel mondo del pop, parla direttamente del sangue mestruale come elemento distintivo dei generi e lo fa come al solito con assoluta brillantezza giocando con un immaginario visionario da b-movie vampireschi. Ritorna dunque il gioco sottile tra un certo mondo ormai stereotipato (l’erotismo atipico di molte pellicole anni settanta) e la capacità di saperlo sfruttare immergendolo letteralmente nell’oggi.
Colpisce che in questo 2016 arrivi un altro concept sul sangue, sui vampiri e sulla femminilità dopo lo straordinario Neon Demon di Nicolas Winding Refn (uno dei pochissimi titoli cinematografici che resteranno di quest’avaro 2016) ed entrambi guardano al corpo femminile usando un filtro da una parte antiquato (certi ritmi anni ottanta nel lavoro della Hval, una certa visione patinata anni novanta nel film di Refn) dall’altra riuscendo a inquadrare il proprio racconto all’interno sì di un meta-linguaggio ma con quello spostamento di prospettiva salvifico che è ciò che rende un’opera unica rispetto a un mero processo di racconto o di messinscena dei fatti. L’eccesso, il visionario, lo splatter, lo sguardo che si posa sulla carne, sulle viscere, sul sangue va a spezzare la catena di montaggio del prodotto plastificato e riporta in superficie il suo splendore autentico.
Pur rivendicando sempre la natura pop, la Hval si pone definitivamente come un’artista d’avanguardia, Meredith Monk che incontra la coppia Ono/Lennon in un mondo che ancora non è definito perché non si limita al racconto del contemporaneo ma ha l’ambizione di anticipare o di predeterminare il futuro. Un universo che qui è fatto di materia prima e incasellabile eleganza, di suoni distorti, di acqua, grida e momenti di assoluto lirismo. La capacità con cui tutto questo è tenuto sotto controllo in un unicum è così efficace da restare un affascinante mistero. La materia di questi pezzi sembra quasi essere reale, sembra di sentirla sotto le mani come in un patchwork di argilla, sangue, acqua e terreno. L’avanguardia sembra spostarsi addirittura verso lavori di classica contemporanea, prefigurando così sviluppi futuri imprevedibili e sorprendentemente stimolanti.
I’m not trying to be a solution or create a freer, utopian world.
I think my music dreams of it, though.
(Intervista a Pitchfork, Maggio 2013)