Jean Dawson è un asterisco musicale che non si risolve mai in se stesso | CHAOS ONE*

jean dawson chaos now

Ci sono milioni su milioni di motivi per cui l’esplosione dell’ascolto in streaming ha cambiato il nostro rapporto con la musica. In un’intervista di qualche anno fa, Simon Reynolds vedeva nella moltiplicazione delle piattaforme il pericolo della cross-attention, una atomizzazione ricorrente anche negli scritti di Fisher, per cui la ricchezza di stimoli comportasse una difficoltà nel concentrarsi al semplice ascolto, alla visione o alla lettura. Un sistema di molecole impazzite, dominate da un algoritmo che decide cosa e come ascolterai (e non solo) oggi ma soprattutto domani.
Se gli ascoltatori puristi si sono ritrovati persi, atomizzati e infragiliti ai bordi dei palchi, nei sopravvissuti negozi di dischi, a bruciare radio underground o ai mercatini, è pure vero che la moltiplicazione delle forme di ascolto ha permesso a generi e artisti di costruirsi una platea mondiale fino a qualche anno fa tendenzialmente irraggiungibile.

In molti casi questo non ha portato in trionfo la qualità, ma in altri si è tramutato in un viaggio che via etere ha raggiunto orecchie, mischiato linguaggi, formato inconsapevoli movimenti che rifuggono da ogni possibile definizione in un modo impensabile fino a pochi anni fa. Per questo, quando capita di trovare dei diamanti grezzi, attraverso Discover Weekly o Release Radar tendenzialmente educate ma pur sempre realizzate con formulazioni e codici robotici, può essere considerata una buona giornata.

Tempo fa in una di queste playlist mi è capitato Bad Sports, il primo album di Jean Dawson. Forse era il periodo, forse la intro sussurrata di Napster, il suo improvviso alzarsi nelle ritmicità, la modulazione vocale o, molto più semplicemente, la chimica con cui certe sonorità si combinano con umore e sentimento nel nostro vissuto e ci rimangono.

 

 

Faceva sorridere allora, e anche adesso, pensare come Jean Dawson, che piaccia o meno, sia in grado di introdurre nel discorso musicale già saturo una variabile personale, confermata nel nuovo CHAOS NOW*, in cui si fondono le origini mexican e afroamerican, hip hop Detroit, tracce britpop, ansie, fragilità, accesso alle droghe e abuso di piscofarmaci, linee più dirette di chitarra o influenze soul/RnB. Un mix culturale, personale che raggiunge una tensione ancora più netta, in cui ha impiegato ‘over 912 days to give you what I have nothing more nothing less’, come scrive su Instagram nell’introduzione all’ultimo della serie di corti che hanno anticipato l’album.

La percezione che Jean Dawson dà della sua musica, e probabilmente di se stesso, va intesa all’interno di una dinamica davidica, una lotta con Golia dentro e fuori la propria esistenza. Mostri che si riproducono a una, due, tre teste (THREE HEADS*), nelle ex-girlfriend, genitori e amici che ripercorrono i primi brani su una dinamica pop punk di inizio duemila (GLORY*) accostandosi – più che senza convinzione, senza curarsene – a una tradizione più uptempo. Questi momenti di stravolgimento si sentono nei tagli a metà di POSITIVE ONE NEGATIVE ONE* e 0-HEROES*, dove componenti più hip hop si riproducono in refrain ampi e strutturati, costantemente segnati da echos che si rincorrono, con chitarre acustiche, elettronica e una certa sorta di lirismo senza meta. Questa parte che la lotta per la vita permette una coesistenza fra barre cupe e di accuse (This little light of mine, / I can make it go boom any second / While I’m still alive, stompin’ in my room like the devil / Wish it was a Sunday, son of sons, sin of sins) e l’autoaccusa, l’autocolpevolezza (Big bust down, you’re the big blood now / I’m a freak, I’m a creep, I’m a shithead clown) che non tramontano nel disagio e la disperazione di JUICE WRLD, o alla rabbia post-hc di XXXTENTATCION ma atterrano su un tappeto sonoro tutt’altro che buio, ricco di grooves in cui vedere una luce non sembra così impossibile, se non per se stessi per gli altri. Ancora più chiaro lo diventa quando entrano nel suo universo Earl Swatshirt (BAD FRUIT*) e George Clanton (BLACK MICHAEL JACKSON*), più che ospiti, alter-egos allineati su uno stesso nucleo che si accorge della realtà, dei suoi demoni, dei propri errori e, anche quando superano i confini, vengono assorbiti come parti, come claps, kicks su cui strutturare una strofa.

È probabilmente qui che allora l’asterisco di ogni canzone si risolve, come una piccola clausola da leggere in fondo, non scritta in piccolo, ma gridata quando:

Dreams a dream that be a dream that lives a nightmare

Come canta in KIDS EAT PILLS* prima della laconica chiusura di PIRATE RADIO*, lirica, oltre ogni incubo e probabilmente da ogni etichetta sul genere, fatto e finito per gli stadi come scrive Clash Magazine o per attraversare momenti cupi, quella di Jean Dawson appare come una lettura speranzosa da cui tirarsi fuori, oltre le briciole degli ascolti, che diventi qualcosa di grande oppure no, JD sa qual è il suo percoso:

Off the shit, over it / Live and die with my motherfuckin’ happiness.

 

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