Foto a cura di Giulia Tomasi
Sono appoggiato al bancone perché ho bisogno di un appoggio nel tentativo di contrastare la marea che defluisce verso le uscite. Davvero una quantità irrespirabile di persone, venute a rendere omaggio a qualcuno di cui i libri parleranno per tanti anni ancora. La leggenda Tony Allen e la sua band di fiati, corde e voci che lasciano, sommessamente, il posto quando l’unico cerimoniere della serata decide che il momento per aumentare i battiti del suo pubblico è arrivato. Ma questo è solo l’atto conclusivo di una giornata iniziata presto e che ancora non ha trovato il suo epilogo. Le ore si confondono, e quando sembra tardi l’orologio ha ancora il sapore salato del pomeriggio.
Le giornate migliori capitano quasi per caso, basta impostare un pranzo che comincia alle 14 e non passa mentre le bottiglie si moltiplicano alla stessa velocità della degradazione degli argomenti di conversazione. Un sabato da pranzo di famiglia che si trasforma improvvisamente in un passaggio di imprevedibili e non soppesate a dovere complicazioni che qui chiameremo normalmente jazz. Il pranzo diventa pomeriggio e velocemente cena, fino alla lunga migrazione al Cap10100. Di sottofondo canzoni non meditate, di generi lontani che si mescolano nella piccola cassa vicino al divano.
L’ambiente al Cap è mutato completamente rispetto alla dolorosa esperienza del giovedì, quando la rinuncia dei GoGo Penguin ci ha lasciati col cuore spezzato solo poche ore prima del concerto, costringendoci a rifugiarci in un ristorante cinese per dimenticare questo clima da dopoguerra. Anche se la famiglia non ha preso come un rifiuto del loro lavoro il nostro prenderci solo due bicchieri che ci tenessero al riparo dal freddo. Racimoliamo tre biglietti all’ingresso, che sottovalutandoci pensavamo non potesse non averne più, poi lo capiamo. La sala è completamente piena, si fatica a respirare e passare diventa impossibile. Ci ritagliamo un piccolo spazio sul fondo, giusto in tempo per assistere all’ascensione di Tony Allen alla batteria, al centro del palco.
Parte ora quella fase con più enigmi che conclusioni, l’afro beat di Allen cattura ogni parte fondamentale alla reazione, perdi parti di pelle e di te mentre qualcuno passa con più arroganza del necessario e interrompe il movimento. Passano in secondo piano le solite dolorose concentrazioni su sia meglio un bel concerto in pochi, per godertelo di più, o in mezzo ad altre persone che condividono il tuo stesso entusiasmo ma non ti fanno respirare. Dalla tensione si passa all’omaggio. Tony Allen prende il microfono e parla, senza alzare mai il tono, come se quei piatti e quelle grancasse fossero il pulpito da cui ha deciso di trasmettere la sua parola agli altri. Una condensa beat, che sfonda il limite fra concerto e jam, fra l’improvvisazione di ogni finale che si cuce con l’accoglienza del nuovo arrivato. E noi, lì, fermi a prendere quanto di più ci fosse possibile, per necessità, e forse un po’ di amore.
Perdiamo rapidamente componenti, ne acquistiamo di nuovi, di tutte le età, di ogni tipo. Sbagliamo persone e ci ricongiungiamo con una risata, il suono si raccoglie tutto intorno, più che sonorizzare l’ambiente lo descrive, come un grande mobile che definisce la stanza e tutto si raccoglie attorno. Non molto diverso da quello che è accaduto fra di noi prima che arrivassimo. Black Voices, dopotutto, e anche quella che ci sembra Every Season, ma riconoscere le canzoni è l’ultimo dei nostri pensieri. Una goccia dopo l’altra ci scava la fronte e non riusciamo a staccarci. Nell’anticamera incontriamo il sottobosco, qualche volto conosciuto, o solo la necessità per tutti di ritrovare il punto della situazione in mezzo a tutte quelle emozioni differenti.
Al bancone, qui si ricongiunge la nostra storia, arriviamo sul finale, alla prima chiusura. Già qualcuno crede ai primi saluti e se ne va, forse anche per la calura desertificante della sala, o forse peccando di fiducia. Ma Tony Allen non ha ancora finito, e chiude con altre due canzoni, fra gli applausi e alcune – dovute- celebrazioni. In fondo nemmeno noi possiamo capire quello che sia successo, in questo tempo che smette di scorrere per un’ora e mezza e che avverti solo alla fine, quando riprendi coscienza della realtà. Non luogo musicale, forse quello che vuol dire una serata jazz. Attitudine, prima che stile.