L’edizione 2017 della Festival del Cinema di Cannes si è conclusa ieri. Una delle più discusse, tra conferme, flop, e una Palma che a volte suggella un felice matrimonio tra pubblico e giuria e altre volte (come questa?) lo spacca visceralmente.
L’Italia, d’altro canto, già poco rappresentata in questa kermesse e lontana dagli scossoni della selezione principale, qualche soddisfazione è riuscita a strapparla. E lo ha fatto con il volto di Jasmine Trinca, premiata dalla giuria della selezione Un certain regard come attrice protagonista in Fortunata, sesto lungometraggio di Sergio Castellitto.
Jasmine Trinca è una sgargiante Fortunata, giovane madre che si arrabatta come può in una Roma periferica, calda, e padroneggiata dai cinesi, il cui unico diletto pare essere quello di darsi al fitness mentre lei si ferisce contro il mondo.
Ha un grande sogno nel cassetto Fortunata, un miraggio di emancipazione e di rivalsa: aprire un’attività da parrucchiera con il vicino e amico d’infanzia tossicodipendente (Alessandro Borghi). Deve però scontrarsi con gli imprevisti sempre dietro l’angolo, con un passato lasciato alla deriva di un oblio non sempre fedele e un ex marito che con violenza cerca di riaffermare la propria paternità su Barbara, figlia di otto anni. Ma sarà proprio questo scontro genitoriale a farle incontrare lo psicologo Patrizio, interpretato da un Accorsi ripulito dall’ultima fatica di Veloce come il vento.
Fortunata si regge e prende linfa vitale dalla penna di Margaret Mazzantini. E Fortunata è un film che vuole vita e vuole urlarla. Farla sentire. L’ennesima collaborazione artistica dei due coniugi riprende temi cari: personaggi tormentati, relazioni esplosive, circostanze al limite, cicatrici e speranze, ma anche amore. Tanto amore. Perché è questo di cui è affamata Fortunata, e lo brama, desidera e nutre, come una leonessa pronta a divorare chiunque si avvicini al proprio cucciolo. Fortunata si muove, imperfetta, dal trucco rovinato dall’afa ai tatuaggi non ultimati, respira, urla, sgomita da un luogo all’altro, abbassa la guardia e con nulla la rialza. E sogna, sogna e ricorda. Sempre. Jasmine Trinca, giustamente valorizzata nella sua interpretazione, afferra i panni di questo personaggio perennemente al limite tra la goffaggine e la grazia, e morde la scena. E gli altri attori non sfigurano, da Edoarda Pesce alla giovanissima Nicole Centanni, ma non possono che orbitare intorno a lei e al suo mondo.
Perché il problema di Fortunata – perché c’è un problema – non sono di certo gli attori. Il problema di Fortunata è quello di essere figlio di un cinema italiano che forse sa cosa vuole, ma non trova il tocco originale per dirlo. O forse non ne ha il coraggio. Un cinema italiano che si morde la coda nel suo rincorrere contemporaneamente se stesso e i fantasmi di un passato a cui viene sempre forzatamente ricollegato.
Fortunata è un film che vorrebbe fare della vita pulsante il proprio manifesto (e Vasco Rossi la canta, nella sua Vivere finale), ma che inciampa nella deflagrazione delle proprie sensazioni, scadendo in boati strozzati e qualche risatina di troppo. È un film che vorrebbe essere essenziale e al tempo stesso vivido e potente, ma che termina per incartarsi in una sceneggiatura che tradisce una natura enfatica e ampollosa. Che avrebbe bisogno di spogliarsi di tanti di quegli artifici, delle esasperazioni mai credibili, dei culmini emotivi dai tratti patetici.
Fortunata raggiunge i suoi momenti di bellezza e verità, ma sono anche tanti i momenti di cui si potrebbe fare a meno. Momenti che trovano origine nel tentativo di avvicinare lo spettatore e invece, lo spettatore, lo lasciano sulla propria poltrona ben lontano dalla costruzione retorica animata sullo schermo che ha davanti.
E non ce ne sarebbe davvero bisogno, perché al cinema, e al cinema italiano ora più che mai, non si chiede poi molto: “solo” sincerità.