Japonisme, o il fascino estremo dell’Oriente

a cura di Manilla Telesca

Il termine japonisme è stato coniato alla fine del XIX secolo dal critico Philppe Burty per indicare l’interesse del mondo occidentale nei confronti della cultura giapponese. A seguito delle Esposizioni Universali e all’apertura di negozi specializzati in oggetti dell’Estremo Oriente, il giapponismo si è fatto largo tra pittori e artisti, basti pensare a Van Gogh che nel dipinto Ponte sotto la pioggia immagina un Giappone ideale o a Lautrec, fortemente influenzato dalle stampe giapponesi delle quali era un grande collezionista. Anche Madama Butterfly di Puccini, definita nello spartito e nel libretto come tragedia giapponese è un’opera che narra le vicende di una geisha sedotta, abbandonata e suicida.

La cultura del Sol Levante continua a farsi sentire e Japonisme, edito da HarperCollins, ne è un chiaro esempio. L’autrice, Erin Niimi Longhurst, lo ha suddiviso in tre macrocategorie: la prima parte è dedicata al kokoro (cuore e mente), la seconda al karada (corpo) e l’ultima è rivolta allo shukanka (lo sviluppo di una routine attraverso le prime due). I giapponesi tendono a dare un significato a qualsiasi cosa — a volte estremamente — soprattutto quando si parla di cuore. Ne esistono di tre tipi: shinzou indica l’organo, Hāto è usato soprattutto a San Valentino e rappresenta il classico simbolo a forma di cuore, infine kokoro, l’argomento che più ci interessa e che racchiude cuore, mente e anima, e al quale il termine “coscienza” è quello che più ci si avvicina. Si parla anche di ikigai e di wabi-sabi, una tendenza che oggi va molto in voga soprattutto nel campo dell’interior design.

«L’ikigai è quella cosa che dona alla nostra esistenza una meravigliosa intensità, è ciò che dà senso alla vita o, come direbbero i francesi, la sua raison d’etre»

Si potrebbe quindi dire che l’ikigai corrisponda alla ricerca della felicità. Non esiste però una regola precisa dal momento che siamo tutti diversi e che ognuno di noi ha ambizioni differenti. Ancor più vero è la difficoltà nel trovarla, questa felicità. Tutti la cercano ma solo in pochi sanno trovarla davvero. La felicità sta nelle piccole cose ed è negli occhi di chi guarda, ci dicono. Ma sarà davvero questo l’ikigai per i giapponesi?

Il wabi-sabi invece esalta la bellezza dell’imperfezione e l’arte del kintsugi ne è un esempio: riparare gli oggetti in ceramica con l’utilizzo di resina d’oro ne esalta la bellezza della fragilità. Nell’era di Amazon e di altre piattaforme di e-commerce, siamo ormai soliti pensare che sia più facile ricomprare qualcosa che si è rotto piuttosto che ripararlo manualmente ma i giapponesi non sono d’accordo con noi. Per loro è molto più soddisfacente ridare vita agli oggetti piuttosto che sostituirli, quasi come fossero esseri umani. Il wabi-sabi infatti è più un modo di vivere e di comprendere il mondo che ci circonda e spesso è associato all’invecchiamento, del quale hanno grande rispetto. In Giappone infatti la generazione più vecchia occupa una posizione maggiore e prendersene cura è un atto sociale riconosciuto: se hai un parente anziano che vive altrove, il fureai kippu può aiutarti. Si tratta di un credito per un’ora di servizio comunitario che può essere accumulato, assegnato o trasferito ad altri, come in questo caso.

Appartamento ispirato al wabi-sabi

Nella seconda macrocategoria si definisce tutto ciò che concerne il corpo, karada. Viviamo in un periodo storico dove prendersi cura di sé stessi è particolarmente in voga: spuntano palestre ovunque, ci sono negozi biologici in ogni dove e lo stile di vita vegano è un percorso che stanno intraprendendo in molti. Per la cultura giapponese è molto importante la cura della persona e la relazione uomo-natura lo è ancora di più. La pratica dello shinrin-yoku si è diffusa nel corso degli anni Ottanta e prevede la completa immersione in natura. Studi scientifici hanno dimostrato che trascorrere del tempo in zone verdi può ridurre lo stress, combattere la depressione e regolarizzare il battito cardiaco.

Parlando di natura è impossibile non citare l’ikebana (l’arte di disporre i fiori) che ha regole ben precise e deve comprendere tre elementi principali: shin, il ramo più lungo della composizione che rappresenta il cielo, soe, l’elemento intermedio che simboleggia l’uomo e infine tai (o hikae), il ramo più corto utilizzato per rappresentare la terra o il mondo naturale.

In Giappone si trovano anche onsen ovunque. Questi bagni termali possono essere al chiuso o all’aperto e ci si immerge completamente nudi e, forse proprio per questo motivo, ci sono vasche separate per uomini e donne. Come ho già detto l’igiene è molto importante e la regola vuole che ci si faccia una doccia e si raccolgano i capelli. Un consiglio? Non andate se avete tatuaggi. La cultura giapponese associa i tatuaggi alla yakuza. Una piccola eccezione è fatta solo in pochi centri — purché i tatuaggi vengano coperti da cerotti, mi raccomando. In generale e non solo per le fonti termali, ci sono delle regole igieniche che vanno rispettate anche quando si va a casa di qualcuno. L’usanza del te-arai (lavaggio) e dell’ugai (gargarismo e risciacquo della bocca) non vanno mai dimenticate.

Onsen

E dopo esserci lavati le mani, si pensa subito al cibo. Oggi ci sono ristoranti di sushi anche nei piccoli centri urbani perché il pesce crudo sembra avere la meglio. Ma sapete come bisognerebbe mangiarlo correttamente? Proprio con le mani, non con le bacchette. E i famosi dorayaki, che tutti noi ricordiamo come il dolce tipico di Doraemon, non sono nati in Giappone. La storia narra che siano stati importati dai portoghesi all’inizio del XVII secolo il cui nome originario era Pao de Castella.

Si conclude perfettamente il cerchio attraverso la creazione di una routine, shukanka. Come per la ricerca della felicità è difficile anche creare delle abitudini che nel tempo possano migliorare la propria vita. L’importante è non perdersi d’animo e capire che tutto è mutabile e in costante movimento e questo vuol dire che bisogna anche accettare il fallimento senza scoraggiarsi. Questo modo di vedere le cose mi ha ricordato uno dei fondamenti del buddhismo, l’impermanenza.

«Se si sa che tutto è impermanente, non ci si attacca e, se non ci si attacca, si smette di pensare in termini di possesso e di mancanza, e si vive con pienezza.» – Khyentse Norbu, Sei sicuro di essere buddhista? 

Credo si possa adattare anche alla felicità. Avere una routine e capire che questa routine possa essere soggetta a mutamenti significa accettare il vero senso della vita ed essere felici. Proprio perché i giapponesi tendono a dare un’etichetta a qualsiasi cosa vorrei ricordare a tutte le persone che acquistano libri compulsivamente che esiste un termine anche per loro: tsundoku. Chi ne è affetto?

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