Ma è perché abbiamo perduto le persone che amavamo o perché le persone che abbiamo trovato erano dannate?
63: Stanza del sogno
Sono forse tanti, e troppo evidenti, i motivi per cui l’opera di James Purdy ha vissuto in uno stato di semioscurità per quasi tutta la sua carriera. Alla fine degli anni ’50 Purdy parlava del Midwest a un’America che ancora si stava riprendendo dalla sbronza beat, narrando le storie di campagnoli di mezz’età ai ragazzi della controcultura e di personaggi intrisi di desideri e istinti alle casalinghe conservatrici. Un caso di mancato tempismo, nei fatti della vita, che Purdy condividerà sempre con i suoi personaggi. Purdy pubblica la sua prima raccolta di racconti Non chiamarmi col mio nome (Racconti edizioni) a quarantatré anni, flirtando sempre con un successo che non gli si concederà mai veramente del tutto. Nonostante questo Purdy fu un autore molto prolifico, in grado di andare oltre la critica che lo lasciava ai margini della ‘grande’ letteratura americana per dedicarsi alla propria idea di narrazione senza compromessi. Descrisse, con un linguaggio violento, l’America frenetica della Chicago di giovani Holden grondanti di umori e miseria, e di individui algidi e immutabili, su cui ricamare il ritratto di una nostalgia dolorosa e dai tratti alienati. Fu questa sua determinata volontà di scavare nel profondo la natura degli sconfitti, non per dare voce all’emarginazione ma per rivelare i feroci e inconfessabili desideri, a rendere la sua opera la rappresentazione di una middle class schizofrenica e annoiata. Sporca, viziosa e irrequieta, fatta di piccoli mostri che si nutrono dell’ingenuità o che vengono fagocitati dai ricordi.
Alla difficoltà di essere compreso dai propri contemporanei fanno da contraltare i motivi per cui, nonostante tutto, l’opera di Purdy non sia finita nella grande categoria degli autori incompiuti americani. Parlo dei piccoli cultori sotterranei che, col tempo, si sono raccolti a distanza, lottando colpo su colpo, e hanno contribuito alla trasmissione delle sue pagine. Un movimento fatto di ondate e di generazioni diverse, folgorate dai racconti di Purdy. «Ho un’audience sotterranea. Lettori molto giovani o molto vecchi… Non sono in molti a ricordarsi di me. A volte mi fa piacere» confesserà James Purdy, nell’unica intervista in italiano realizzata nel ‘91 da Daniele Brolli, mostrando la fragilità e il senso del paradosso vissuto da un autore cult senza saperlo. Questo tipo di lucidità, nelle parole, negli ambienti, nelle sensazioni, è un tratto distintivo della scrittura di Purdy, un filo nascosto che rende la sua narrazione quella di un fantasma che si aggira per le sale della borghesia bene come negli scantinati dei ristoranti dopo chiusura senza lasciare traccia di sé o della propria bussola morale. È anche questa ragione, il racconto per il racconto, il sistema in cui è la storia e solo la storia a ‘raccontarsi’, a riempire di fascino – e scandalo – le opere di Purdy. I fantasmi, del resto, sono anche i personaggi stessi, che siano il giovane e ingenuo Malcolm, seduto su una panchina e poi portato a scoprire la società annoiata che lo divorerà fino a farlo scomparire, o la ricostruzione del nipote disperso nella guerra di Corea che riempie la vecchiaia di Alma e la narrazione de Il nipote.
Una doppia velocità, una estremamente lenta (nel già citato Il nipote, Geremia e La figlia perduta), l’altra con un ritmo forsennato (Un ignobile individuo, Malcolm, 63: Stanza del sogno), che rappresentano le campagne e le metropoli, la senilità e la gioventù, in un sistema di riferimenti costanti e tangibili, che fanno dell’accuratezza in cui vengono narrate le storie e le diverse ‘lotte’ dei personaggi la matrice dello stile di Purdy. In poche parole Purdy fu in grado di sporcare l’immagine di Holden («Prendiamo un romanzo come Il giovane Holden, è ampiamente sopravvalutato. Tanto che molti ritengono di potersi fermare lì, senza leggere altro. I critici pensano che è un libro stupendo perché è talmente vuoto che ci trovano tutto quello che gli pare, per me è semplicemente uno dei romanzi più banali e insulsi che siano mai stati pubblicati» racconta ancora nella conversazione con Brolli), trasformandolo nella ricerca assetata e alienata del broker milionario Cabot Wright, e di distaccarsi dal clima bucolico del primo Capote ne L’arpa d’erba con un tocco sempre personale, mai banale, in cui il Midwest si fonde con i suoi personaggi, le loro paure e una lotta per la sopravvivenza inedita, basata sulla memoria e l’autodeterminazione.
L’entusiasmo è un’emozione pericolosa, da americani primitivi, ed è la prima cosa da sorvegliare se uno vuole evitare la decadenza.
Un ignobile individuo
Questa continua alterità emerge nei racconti brevi, dove troviamo la narrazione serrata di Purdy muoversi fra questi due poli di attrazione e che in 63: Stanza del sogno (in Italia incluso nella raccolta Non chiamarmi col mio nome) troviamo una delle storie più malinconiche e angoscianti della sua intera carriera e forse della letteratura americana in generale, ma si esplicita soprattutto nei due romanzi, probabilmente, più rappresentativi dello stile di Purdy, entrambi con background e reazioni diverse. È con Rose e cenere che Purdy guadagna il ruolo di outsider a tutti gli effetti ritraendo una gioventù sotterranea che si rinchiude in case di miseria e pontifica attorno nuovi Gatsby decadenti. In questo romanzo, considerato da tanti un antesignano della letteratura queer, si intravede ancora il realismo magico e sporco del primo Purdy, in cui la superstizione si mescola alla realtà, la vena più tetra della sopravvivenza di Eustache Chilsom, lo scrittore fallito, mezzo matto, mezzo mago, attorno al cui appartamento sembrano ruotare i più grandi antieroi dell’intera Chicago. Fra loro Amos, un giovane, celestiale, amante della poesia greca segretamente innamorato di Daniel, il padrone della casa in cui vive, troppo maschio – però- per dichiararsi ad Amos, visitandolo in stati di insonnia ogni notte. Fra loro si intromette Ruben, un miliardario che cercherà di fare suo l’efebo Amos, fino a svuotarlo di ogni passione. L’universo della città, dalla fuga di Daniel che si riarruola per poi subire la violenza psicologica del capo addestratore (di cui Purdy ricostruisce senza paura la violenza psicologica, le angherie, le umiliazioni subite da Daniel) alla resa di Amos all’amore di ‘convenienza’, tratteggiano proprio l’idea di società che Purdy vuole smascherare, pur lasciando al lettore il giudizio finale. Una lotta fra animali che si condividono un tozzo di pane, schiavi degli istinti e della disillusione.
Se nella città, sembra dirci Purdy, si intraprende un cammino destinato alla perdita, dell’ingenuità infantile di Malcolm e Amos, dei sogni di Eustache e della percezione della realtà di Cabot Wright, preda della febbre istintuale che lo porta a violentare le donne, il percorso nelle campagne del Midwest è più indirizzato verso il recupero e la costruzione di un’identità. La stessa che cerca di raccogliere fra le pieghe delle proprie cicatrici Garnet Monrose, protagonista di Come in una tomba, da poco in libreria per gli Scarafaggi di Racconti Edizioni. La storia di Garnet reduce della guerra del Vietnam, il cui volto sfregiato non gli permette di essere guardato dalle persone («In seguito alle ferite riportate in guerra nel mare della Cina Meridionale il mio aspetto è tale che chiunque ha il voltastomaco al vedermi e si mette a vomitare, se pure non sviene»), è fatta della creazione di un universo privato in cui i suoi due aiutanti, Quintus e, soprattutto, Daventry costituiscono il nuovo centro. Si tratta di un romanzo allucinato e allucinante («La mia casa era tutta libri e vuoto» racconta Garnet), in cui gli scambi e le riflessioni dei personaggi si mescolano alle loro stesse sensazioni. Il decadentismo di Garnet si fonde presto in una favola di miseria e ricostruzione, di perdita e recupero, che supera il concetto di lieto fine per restituire l’immagine di un amore che non segue – come mai accade nei libri di Purdy – una direzione scontata o si fa rapire dalla tentazione dell’ordinarietà. I sentimenti sono contrasti, la sofferenza un legame ancora più forte. Come in una tomba è uno dei romanzi che restituisce il senso di violenza letteraria espressa Giordano Tedoldi, probabilmente il più grande conoscitore dell’autore dell’Ohio nel nostro paese, nei termini del linguaggio e nella sua capacità di scandagliare il fondo tetro della perdita dei ricordi e, inevitabilmente, dell’identità. Garnet si fonde in Quintus e Daventry, e questo accade vicendevolmente. Il romanzo respira autonomamente e si trasforma lungo la sua lettura, proprio per rappresentare quel concetto dei fantasmi che si aggirano per un Midwest allucinato, alla ricerca di sé. Fantasmi che si tengono stretti, l’uno all’altro, per mantenere vivo il proprio respiro.
È strano, ma quando ottieni ciò che desideri da tanto scopri che desiderare era meglio, desiderare fa più male, ma si avvicina di più a quello che vuoi.
Come in una tomba