Arriva, in un giorno qualunque di un maggio che sembra novembre, The Colour In Anything il terzo lavoro in studio del ragazzo prodigio dell’elettronica, James Blake. Un ritorno gradito, attesissimo e inaspettato, che ci rivela un Blake musicalmente maturo e fermamente conscio dei sui mezzi, a cominciare dalle mille sfaccettature della sua incredibile voce. Un disco che ho già più volte sentito definire autunnale, capace di rendere fin dalle prime note, tutto l’abisso dell’autunno che ci portiamo dentro.
Lasciamoci trasportare da quello che si può definire un “incipit in medias res”, che ci scaraventa nel mondo di Blake nel migliore dei modi possibili: con vocalizzi che ci ricordano la splendida Retrograde. Radio Silence, il pezzo che inizialmente doveva dare il nome al disco, è un silenzio che urla tutta la disperazione di quel “I’m sorry I don’t know how you feel”. Si passa attraverso Points, dove la voce si fa strumento, rivelando una dimensione dell’artista che ben conosciamo, ma che non ci stanca mai, per arrivare a Love me in whatever way, uno dei brani più intensi dell’intero album. Dalla successiva Timeless, con il suo testo scarno, essenziale ed ossessivo, i pezzi acquistano ritmo, con l’eccezione di F.O.R.E.V.E.R., in cui i beat lasciano spazio ad un pianoforte, e ad una voce finalmente non effettata, breve incursione dal sapore cantautoriale. Tra momenti più alti (I hope my life) e altri decisamente più bassi (Put that away and talk to me, Choose me) si approda alla magnifica I need a forest fire, collaborazione con Justin Vernon (Bon Iver), che rispecchia e rispetta l’identità di entrambi, e che celebra un sodalizio nella vita oltre che nell’arte; pare infatti che questo featuring sia stato la scintilla per la nascita di una sincera amicizia. La title track The colour in anything ribalta totalmente un’illusoria percezione: non ci sono edulcorati riferimenti a come ogni cosa sia colorata, piuttosto all’assenza di colore. Cosa fareste se un giorno vi doveste svegliare e non trovare il colore in nulla? Questo è il disarmante senso dell’intero lavoro, quel malinconico fil rouge che ci guida da un pezzo all’altro. La rassegnazione alla fine di una relazione, alla perdita di un amore, quel misterioso interlocutore a cui si rivolge ripetutamente, con cui è tutto inesorabilmente finito nonostante gli sforzi. Always chiude il cerchio con una speranza di redenzione che suona come le menzogne che raccontiamo a noi stessi quando in mezzo alla disperazione ci diciamo che va tutto bene. Una calma apparente dopo la tempesta interiore, dopo la battaglia che si combatte per tutti questi 76 minuti, che si conclude senza vincitori. Sul finale, Meet you in the maze ci lascia con qualche abbellimento di troppo, manierismi sintetici di cui avremmo fatto a meno.
A distanza di tre anni da Overgrown, questo disco è un regalo. Qualche brano non convince del tutto, ma glielo perdoniamo, a fronte di momenti topici come le già citate I need a Forest fire e The colour in Anything. Un lavoro che ci restituisce sì gli ambienti sonori dei due album precedenti, ma ripuliti, più intimi, capaci, questa volta, di parlare direttamente alla nostra anima pur attraverso gli artifici a cui l’artista ci ha costantemente abituati. Ci restituisce un James Blake capace finalmente di abbandonarsi alla struggente, malinconica bellezza di una canzone solo piano e voce. Un Blake che ha già trovato una dimensione ideale, ed un suono e uno stile fortemente riconoscibili. E siamo solo all’inizio.