Quando Hesse scriveva sulla steppa, quel clima della media borghesia insofferente e sempre all’erta, ciò che più li sconvolgeva era il tempo che avevano vissuto, passato ansimanti a cercare di affermarsi per la loro moda sfuggente, fino a ritrovarsi con nulla in mano. In un modo simile, quella sensazione di questo mondo che si perde senza poterlo fermare diventa uno dei fattori principali che collocano James Blake fra gli interpreti maggiori di questa continua mutazione. Forse siamo arrivati anche oltre, al punto in cui è addirittura il gusto a doversi adeguare a tutto quello che viene stravolto e rimesso in causa da The Colour in Anything, che è poi quella dose che si trova in tutti colori, ma soprattutto quello del silenzio, anche quando è un ipotetico canale radio a trasmetterlo, che finisce per consumarsi finché non riesce a trovare un’alternativa, come Harry, che dalla steppa se n’è andato. Dal nulla al ritorno, senza bisogno di far comprendere al mondo quanto è legato a certi fatti di immagine. Perché è proprio così che funziona per chi non ha più il tempo di attendere e anche poche ore di frenetica apprensione diventano un valore in più. D’altronde è così arrivano tutte le cose per cui si è persa la speranza, all’improvviso. E si tratta di colpi ripetutamente diretti contro il petto, per quel senso un po’ romantico di guardare le città che si rimpiccioliscono rapidamente appena presa quota, che ti sembra di scorgere una testa conosciuta, ma poi si tratta solo di un difetto interiore nel provare a sentirsi legati a qualcosa, perché poi è la propria vita l’unica certezza a cui bisogna rimanere fedeli, per quanto i collegamenti possano essere necessari a far propria una canzone. Si amplificano, se possibile, le disparità dei linguaggi che vi sono inseriti, così amichevoli ma del resto incomprensibili, che appartengono a tutti, ma mai così profondamente come al loro autore, capaci di riprodurre incessantemente una varietà di significati e significanti, tecnica che stringe indissolubilmente i due autori di I need a Forest fire. Se la mano di Justin Vernon sembra ricapitare, è proprio per quel continuo flusso di contaminazioni che non trova pace, perché ormai nessuno è più uno, come se riconoscersi fatti di più cose sia la vera e unica identità che ci è rimasta.
L’interesse di James Blake per le contaminazioni di stili e il graduale azzeramento dei confini uomo-macchina è sempre stato centrale nelle opere del passato, perché di questo si tratta, ma mai come in questa occasione si intensifica, in cui il soul si fa davvero predominante, in maniera silenziosa, ancora una volta, arrivando a incancrenire ogni crepa nel cemento freddo che ci circonda come una rivincita, penetrando in ogni fessura in cui può infiltrarsi. Non è mai abbastanza, e le voci metalliche sono richiami della coscienza, di chi dice che fermarsi è positivo, a un certo punto, se non riesci davvero a essere scelto, che i mulini a vento si son fatti mostri in carne e ossa che camminano al tuo fianco ogni giorno. E se la narrazione non è unitaria, se ogni punto temporale viene sconvolto, anche per questo quello che viviamo deve pur significare qualcosa, se è possibile crearlo. Si tratta di isole, perché è questo che siamo, in cui il tempo si modifica rapidamente e nonostante non ci siano allerte per il maltempo, le tempeste sono sempre lì che ci attendono. Ci sono sempre fiori che sbocciano, dopotutto, e se li tagliano potranno pure non fermare la nostra primavera, ma il pregio di tutto questo è proprio rendersi conto che neppure l’inverno più freddo può davvero bloccare il nostro procedere, così tanto sembra disinteressarsi a noi. Non si può che arrendersi a tutto questo, al nulla e al silenzio, lasciarselo colare addosso, sentirlo spingersi oltre, cercare soltanto un appiglio per non sprofondare del tutto, finché non si raggiunge proprio quel punto di equilibrio, in cui nemmeno gli opposti sembrano combaciare e tutto perde il proprio senso unitario. L’unica certezza è proprio quel ritmo che sembra non crollare mai, quella batteria che non si ostina a cedere nonostante tutto.
Il colore in nessuna sfumatura in particolare è proprio come il silenzio di una grande città, così capace di coprire ogni cosa da esserne la discriminante, l’alterità in cui è possibile riconoscere un’anima dall’altra, capace di amare nel suo modo e non solo, di salvare ogni tanto dall’occhio ipercritico quel che ci resta fuori da ogni tempo quantificabile. Proprio il viaggio circolare da cui Harry, lo Steppenwolf, cercava di trovare una ragione che sarebbe riuscito a raggiungere solo tradendo se stesso e i valori con cui era cresciuto. James Blake è arrivato a una tale comprensione di ciò che lo circonda da poterla esprimere, trascendendo definitivamente dal concetto di stile e di genere, diventando una figura dalle così profonde sfaccettature che è impossibile distinguerle. Un’ambiguità che si fa predominante, come questi tempi senza ormai più senso, così tanto calda da farti male. Diciassette brani sono pochi, a questo punto, per poterle davvero comprendere del tutto. Dentro e fuori di sé, non ci resta poi molto, tanto è quello che si è portato via senza chiedere il permesso.