Now I’m confiding, know I’m in haze / Gone through the motions my whole life
I hope this is the first day / That I connect motion to feeling
We spin slowly, we spin slowly ‘til morning
Pubblicato venerdì scorso su Polydor, il nuovo disco di James Blake, Assume Form, fin dalla copertina sembra voler fare i conti con il passato per annunciare un percorso ricco di novità rispetto ai paesaggi sonori che l’hanno animato finora. Sembra ieri ma sono passati ben dieci anni dalla pubblicazione del primo singolo Air & Lack Thereof nato dall’esperienza di dj – appena ventenne – nei club londinesi. Nel giro di due anni quel ragazzino timido avrebbe dato alle stampe il primo album che portava semplicemente il suo nome: un esordio fulminante caratterizzato da una miscela così originale di elettronica dub step e soul che lo avrebbe imposto fin da subito come una delle voci più autentiche della sua generazione. La copertina di James Blake, nei colori tenui dell’azzurro, coglieva il volto di Blake nell’indefinitezza di un movimento, ritratto dell’artista da giovane e specchio delle sue intuizioni musicali e di quella voce così calda capace di sciogliere per brevi, quanto intensissimi attimi, le partiture elettroniche votate a un cromatismo vespertino gelido e distante.
La copertina di Assume Form ci mostra un Blake ben diverso, lontano dal ragazzo introverso di un tempo: il volto è in primissimo piano, le mani sulla testa hanno tirato su il ciuffo lasciando scoperta la fronte, lo sguardo, più sereno e meno irrequieto, guarda dritto davanti a sé e negli occhi di chi tiene il disco tra le mani. Assumere una forma è un messaggio inequivocabile per un musicista capace di dar vita fin dagli esordi al suono di un’epoca: soul, dub step, hyperdub si sarebbero intrecciati anche nei due bellissimi album successivi – Overgrown del 2013 e The Colour in Anything uscito in una sera di maggio del 2016 – che portavano avanti una proposta mai identica a se stessa eppure assolutamente riconoscibile, figlia di un equilibrio perfetto fatto di suoni crepuscolari, di note ridotte all’essenziale – quasi ad aver imparato la più preziosa delle lezioni di Miles Davis, il rimettere al centro del discorso musicale il concetto stesso di silenzio – e quella passione, trattenuta a stento, che illuminava i chiaroscuri delle sue costruzioni notturne con la forza d’improvvisi fuochi accesi sulla terra.
La vita di James Blake nel frattempo è cambiata: il successo, la fragilità, una depressione alle spalle poi l’amore per Jameela Jamil e – sul piano artistico – il lavoro come producer e collaboratore per Beyoncé, Frank Ocean, Kanye West, Kendrick Lamar; queste le tappe essenziali del percorso che lo hanno portato alla sua quarta prova.
Con i suoi quarantotto minuti, Assume Form, rappresenta in maniera inequivocabile un punto di svolta nella carriera del ragazzo inglese, la fotografia varia e composita di un uomo – prima ancora del musicista – che viene a contatto con se stesso e con i propri demoni, che cerca (e trova) una sintesi e un equilibrio nella propria vita come nelle tante direzioni nelle quali il suo talento in questi anni ha saputo trovare sempre eccellente espressione.
Assume Form è un disco in cui si sentono forti gli echi delle influenze e delle contaminazioni cui Blake si è esposto in questi ultimi anni, è un lavoro in cui i colori della musica nera entrano prepotentemente non solo attraverso un’inedita – per lui – sfumatura che attraversa molti pezzi ma, in maniera ancora più netta, grazie alle tante collaborazioni presenti, a partire da quelle col produttore trap Metro Boomin che firma con Blake due pezzi. Mile High è quasi un pezzo di trap pura, dove Blake rischia di essere messo in ombra – su un terreno in cui non è pienamente a proprio agio – dalle doti indiscusse del bad boy della trap inglese Travis Scott. Tell Them – insieme a Moses Sumney – è invece un pezzo upbeat molto più vicino al suo ambiente naturale e suona molto più armonioso nell’incontro con il musicista americano electro-soul.
Sono i primi segni di un profondo cambiamento che spiazza e affascina a cui l’incipit del disco – pur con le sue note al piano che aprono l’omonima title track – avevano in parte preparato.
Rispetto ai lavori precedenti Blake non solo esplora nuove tonalità nei suoi brani che mostrano qui un’ariosità sconosciuta finora – quasi che i paesaggi crepuscolari avessero lasciato spazi ai colori di un’alba insperata – ma, soprattutto, con Assume Form abbandona una certa omogeneità di suoni e di linguaggio per offrire all’ascoltatore uno scenario sonoro quasi opulento, più ricco, maggiormente variegato e orientato verso un cromatismo notevolmente più caldo. In particolare il duetto di Barefoot in the park con l’astro nascente della musica spagnola Rosalía – suo il bellissimo El Mal Querer dello scorso autunno – che sui beat di Blake libra il suo canto venato dall’originalità del new flamenco in un intreccio di voci, incontro di radici ed esperienze diverse – si fa quasi paradigmatico di un’apertura verso orizzonti di scrittura e di composizionie più ampi e più vasti, come a volersi lasciare alle spalle (se non fosse per la bellissima e conclusiva Lullaby for My Insomniac – sorta di rallentato electro-gospel che sembra quasi citare il minimalismo sacro di Arvo Pärt) le strutture minimali, a tratti plumbee e claustrofobiche – che erano ormai diventate il tratto peculiare della sua particolarissima forma canzone.
Tra le collaborazioni a questo lavoro non si può certo lasciare sullo sfondo quella con André 3000 degli Outkast in Where’s the Catch? con Blake a rendere omaggio non solo dunque alla scena trap contemporanea ma anche a una delle voci storiche di un certo southern hip hop che ricambia il featuring con barre di grande efficacia e innegabile capacità di flow.
The list of things I could live without / Grows longer as I move everything around
Behind all the furniture / Pointed toward her
To keep her in my sights / To keep her in my life
Ma di là dalle collaborazioni che pure rappresentano alcuni dei vertici dell’album, Assume Form è un disco in cui c’è spazio per molto altro. I tanti episodi solisti di Blake sono esempi altissimi della sua capacità compositiva sempre pronta a far deragliare la nostra attenzione e il filo sottile che tiene insieme ogni pezzo con la ricerca di suoni e suggestioni, come gli archi che arricchiscono l’intensa Into the red, o la ballata romantica di Are you in love?
Proprio quest’ultima è un distillato del James Blake più compiuto, un brano in cui la sua splendida voce s’insinua nelle insicurezze che attanagliano l’inizio di una storia d’amore, esplorandone le cavità soul, R&B e perfino gospel.
I’m gonna say what I need / If it’s the last thing I do
I do, I do, I do / I’m in that kind of mood
I’ll come too è, a stretto giro, ancora una dichiarazione d’amore che si libera letteralmente di un certo cupore del passato per lasciarsi sorreggere dagli archi sognanti che ne fanno quasi un pezzo a metà tra Tin Pan Alley e i teatri di Broadway, risultando – insieme a Can’t believe the way we flow – uno dei passaggi più deboli di un disco che mantiene sempre altissimo il livello.
I thought I might be better dead, but I was wrong / I thought everything could fade, but I was wrong
I thought I’d never find my place, but I was wrong / And where I least wanted to look, it came along
Power On è già molto più convincente nel suo incedere essenziale eppure così efficace. Blake sceglie ancora tonalità tanto minimali quanto se non solari certamente con una grana più vivace per raccontare il suo faticoso percorso. E questo suo insistere sul tema, questo bisogno di sottolineare che il momento difficile è alle spalle è forse anche il segno di un’ansia che non lo ha ancora del tutto abbandonato.
The world has shut me out / If I give everything I’ll lose everything
Everything is about me / I am the most important thing
And you really haven’t thought all those cyclical thoughts for a while?
Don’t miss it arriva subito dopo ed è un incanto. Splendida nell’intimità che è capace di creare grazie alle liriche tra le più belle dell’album, alla sincerità devastante che trasuda dalle parole e dal tono con cui sono cantate, alla struttura del brano morbida ed evocativa, grazie a un arrangiamento fatto di piccole cose, come pennellate di colore che appaiono solo per un attimo prima di restare un ricordo sfumato: l’eco di una voce lontana, gli accordi del piano che cambiano improvvisi, un vibrato elettronico che ne altera la voce disgregandola quasi, per lasciarne emergere paure e fragilità in un brano che nella seconda parte cresce ritmicamente con le note cristalline del pianoforte fino a lasciarsi andare a una coda che richiama alla mente la malinconia più avvolgente del migliore Thom Yorke.
Se Power On e Don’t miss it sono lo specchio più autentico dai tormenti che ne hanno attraversata l’anima negli anni appena trascorsi, quello che colpisce – confermando e ampliando una caratteristica che lo ha reso uno dei punti fermi di questa decade – è la capacità che Blake dimostra – in maniera impressionante anche a questo giro – di suggestionare con rapide e incisive incursioni sonore. Un suono sintetico, un arpeggio al piano, una costruzione originale di accordi, un coro sfumato, la sospensione di un silenzio: in Blake il dettaglio si fa atmosfera, colpisce l’ascoltatore trascinandolo nello spazio tra le note, portandolo altrove come dentro un viaggio nella trama del pezzo, come se le sue canzoni – qui più definite rispetto al passato, con la corrente più trattenuta se confrontata alle più frequenti divagazioni formali cui ci aveva abituato – fossero dei meccanismi nei quali trovare indizi, porte segrete, improvvise aperture su altri mondi, altre canzoni, altre sonorità che si celano dentro la fantasia della sua mente.
Trap, hip hop, soul, new flamenco, un universo di glitch, beat elettronici sono i colori con cui Blake dipinge un quadro ricco che colpisce fin dal primo ascolto per la profondità della ricerca, l’assoluta pulizia e nitidezza del suono, la produzione attenta ai minimi dettagli e che cresce ascolto dopo ascolto per quello che in maniera immediata si candida già a essere primo disco importante dell’anno e uno dei possibili migliori da qui e per tutti i mesi che ci condurranno alla fine del 2019.
Assume form è il disco che segna una svolta di libertà nel percorso umano e artistico di Blake e che, allo stesso tempo, potrebbe far storcere la bocca a coloro che l’avrebbero voluto cristallizzato per sempre nella medesima forma. Un disco che riesce a essere complesso nella forma e nella proposta eppure immediato nel piacere dell’ascolto e nella leggerezza con cui si dimostra capace di sintetizzare – con una sensibilità autentica e originale – alcune tra le migliori esperienze musicali di questi anni, aprendo una strada verso possibili nuovi territori di un pop contaminato d’autore.