C’è una grande differenza tra ciò che la gente pensa e ciò che io so essere vero
Hyannis Port, Massachusetts, 1963. Bordoni di archi accompagnano il volto, bellissimo e triste di una giovane donna mentre cammina tra i riflessi dell’alba sulla Lewis Bay. Quella donna è Jacqueline Lee Bouvier, da una settimana la vedova del presidente John Fitzgerald Kennedy.
Come vuole che sia ricordato, signora Kennedy?
Alla porta della residenza estiva della famiglia Kennedy bussa un giornalista, il premio Pulitzer Theodore H. White di LIFE Magazine (interpretato da Billy Crudup di nuovo in corsa dopo i fasti di Almost Famous e Big Fish). Deve scrivere un articolo di commiato dopo la tragica morte del 35° Presidente degli Stati Uniti d’America. Quello che non sa è che a scrivere davvero quell’articolo, parola per parola, sarà proprio la donna che si trova davanti a lui.
Il primo film in lingua inglese di Pablo Larraín, regista cileno con alle spalle titoli importanti e partecipazioni a diversi festival, presentato a Venezia lo scorso settembre, è un biopic fortemente voluto da Darren Aranofsky (π– Il teorema del delirio, Requiem for a dream, Il cigno nero) che aveva conosciuto e premiato Larraín nel 2015 a Berlino con l’Orso d’argento, gran premio della giuria per El Club.
In un solo anno Larraín ha realizzato due biopic, Neruda, di cui vi avevamo parlato qualche mese fa e adesso Jackie sulla First Lady per antonomasia della storia americana. Ma Jackie è un biopic sui generis. Il regista cileno, alla prima esperienza hollywoodiana non si fa certo intimorire da una forma ormai canonizzata né tantomeno si lascia mettere in soggezione da un tema così delicato soprattutto per il pubblico d’oltreoceano, realizzando così, ancora una volta, un film d’autore, in cui si sente fortissima la sua mano (la sceneggiatura, premiata a Venezia, è però di Noah Oppeneheim) e la sua idea di cinema, innovando ancora una volta, con la sua personalità, il linguaggio cinematografico.
Sometimes the most interesting perspective comes from the outside
[Darren Aranofsky]
Larraín è stato finora un regista ossessionato da un tema: il rapporto tra la politica del suo paese (intrecciata inevitabilmente al terribile golpe del settembre del 1973) e la società e gli individui che la compongono. Tenendosi distante dal grande affresco storico ha sempre offerto film intimi capaci di raccontare e mettere in scena storie piccole e laterali, lontano dalla ricerca di una verità dogmatica con la consapevolezza che è soltanto attraverso l’alterità dello sguardo che si può cogliere la verità più profonda, l’essenza che si nasconde dietro le cose.
A un figlio della nomenclatura politica di destra cilena che ha saputo seguire un percorso di revisione della storia del suo paese collocandosi in diretta antitesi alle idee dei suoi genitori, certamente non fa difetto il coraggio. Oggi, Jackie, dimostra, ancora una volta, non solo la mancanza di timore di questo quarantenne cileno ma soprattutto quanto sia necessario uno sguardo inedito ed esterno per raccontare una verità diversa che sia lontana dalla retorica che, consapevolmente o meno, ogni paese costruisce intorno ai propri eroi.
Perché al nucleo di Jackie, ancora più che nei film precedenti, c’è proprio il rapporto, strettissimo, tra i fatti e la narrazione di chi li racconta. Se già in Neruda, Larraín sceglieva la strada del pastiche di generi offrendo un meta-racconto tra il regista e il suo personaggio, qui il cortocircuito è ancora più forte: da una parte l’autore che racconta una storia, dall’altra la protagonista che di quella storia vuole scrivere la Storia. Così Jackie si trasfigura in uno straordinario affresco, minimale, privato e pubblico, sul tema dell’eredità, della memoria e della costruzione del Mito.
E non è un caso, e soprattutto è un bene, che a farlo sia un autore sudamericano che porta nella propria memoria e nella propria vita il fallimento di ogni idea panamericana, che sa di essere figlio di una cinematografia minore nella distribuzione e nelle opportunità ma non certo nei meriti, che è nato e vissuto in un paese che conosce bene gli effetti della politica americana fuori dai propri confini e nelle sfortunate terre dell’America del Sud.
Sia chiaro però che non emerge alcuna volontà revanscista di Larraín verso la politica americana, quella che in Neruda di sfuggita era rappresentata come il puparo che muoveva i fili della marionetta Videla (Alfredo Castro, l’attore feticcio, qui per la prima volta malinconicamente assente). C’è, invece, uno sguardo inevitabilmente differente che, come anche sulle tragedie del proprio paese, non giudica e non assolve e si mantiene volontariamente ambiguo come ambigua è la stessa natura umana, dietro alle grandi pagine storiche o a quelle piccole di vita quotidiana. Ma è impossibile non notare che mai come in Jackie il potere appare (come dovrebbe essere forse ogni potere) terribilmente lugubre e funereo, come se ogni parata, ogni divisa, ogni picchetto stesse lì a ricordarci che tra i riti di un potere che sovverte l’ordine (quello che dieci anni più tardi la tragedia di Dallas sconvolgerà il Cile) e quelli di un potere che quell’ordine lo mantiene c’è solo una sottile linea rossa a dividerli.
It wasn’t for Jack or his legacy, it was for me
A dare sostanza cinematografica a tutto questo sono il corpo, la fronte, gli occhi, le labbra, le guance, la voce di Natalie Portman, conditio sine qua non imposta da Larraín alla produzione per la realizzazione del progetto. E la giovane attrice israeliana ha ripagato in pieno la fiducia del regista offrendo un’interpretazione semplicemente straordinaria. La Jackie della Portman è una donna lontana dalla figurina bidimensionale costruita dalla stampa internazionale in quegli anni, è invece una donna ricca di contraddizioni: l’amore per il marito che la tradisce e per i figli improvvisamente orfani, la capacità di tenersi un passo dietro l’ombra di JFK e, nello stesso tempo, la brama di potere, l’intellettuale che amava la Francia ma che nello stesso tempo era riuscita a diventare la regina di un popolo culturalmente distante da lei, la donna che con piglio deciso sfida l’amministrazione Johnson e quella che, minuta come una ragazzina, sembra non riuscire a reggere così tanta sofferenza sulle sue deboli spalle.
Due anni, dieci mesi, due giorni.
La presidenza di John Fitzgerald Kennedy, è bene ricordarlo, non arrivò nemmeno ai tre anni. Il colpo di fucile che lo colpì alla testa mandando in frantumi la calotta cranica e i sogni di una generazione che aveva riposto in lui la speranza di un’America diversa, interruppe in maniera improvvisa e prematura il primo mandato del presidente. JFK era il quarto presidente americano a essere ucciso, prima di lui era toccata ad Abraham Lincoln, James Garfield e William McKinley. Ma solo il primo era ricordato come un padre della patria e Jacqueline sa bene che non è solo per i meriti del suo mandato ma per la capacità con cui la sua memoria è stata tramandata. Mentre l’establishment, insieme a un Bob Kennedy che si mostra spaesato, vorrebbe far di tutto per escluderla dai funerali, Jacqueline ricorda quelli pomposi di Lincoln e su quel modello costruisce l’addio a JFK per non abbandonarlo all’oblio, per mettere il marito, e se stessa, al centro della scena, rischiando la sua stessa vita ma costruendo il mito dei Kennedy.
Quello che Jackie racconta allora è il tentativo di una donna forte e fragile nello stesso tempo, capace nel momento più terribile della sua vita di ricordare che la storia è una questione di narrazione e, con quell’idea, costruisce in un’intervista brevissima di appena due pagine su LIFE il mito da consegnare ai posteri.
Il racconto di Larrain si fa allora, come sempre, arbitrario. La forma cinematografica del biopic ci ha abituato così male da farci dimenticare che il cinema è, o dovrebbe essere, prima di tutto la visione di un autore, che l’obiettivo della macchina da presa è il proseguimento dell’occhio del regista, che è autore e che costruisce la sua opera, il suo racconto attraverso non solo i tagli del montaggio ma, ancor prima, attraverso il taglio che a quella storia vuole dare. Già in Neruda, Larraín aveva mostrato di aver ben compreso che il racconto è sempre racconto parziale e che se è lecito il tradimento, se così vogliamo chiamarlo, alla verità tramandata, imperdonabile sarebbe quello nei confronti della propria visione, verso la convinzione che è solo dentro a una sfumatura che è possibile andare a ricercare il vero. Larraín, e ne abbiamo bisogno, ci ricorda che il cinema, e in definitiva l’arte, non può e non deve essere didascalico, che il cinema non può ridursi a due ore di fiction televisiva. Non deve spiegare, ma deve farsi altro: deve, per citare Bolaño “affrontare il buio a occhi aperti”.
Di notte guardo nel buio e mi domando, è davvero tutto qui?
È il buio a occhi aperti è quello che deve affrontare Jacqueline. Nella costruzione non lineare delle ore successive alla morte di Kennedy (soprattutto nella seconda metà del film) prende rilevanza l’incontro, girato e montato con un’atmosfera che ricorda molto gli ultimi lavori poetici di Terrence Malick, con un prete molto anziano con cui Jacqueline cerca un dialogo, dilaniata com’è nella sua fede. Quel prete, irlandese immaginiamo, vecchio e stanco, è interpretato dal grandissimo John Hurt, l’attore britannico scomparso a settantasette anni lo scorso 27 gennaio. È a lui che Jacqueline non ha paura di confessare i dubbi che la tormentano, il dolore della perdita ma anche l’egoismo di voler lasciare una traccia di sé e non solo del marito.
Nancy I’m not the first lady anymore, you can call me Jackie
Perché Jacqueline sa improvvisamente di non essere più nulla, e con violenza sente precipitare addosso a lei tutto il dolore, i due figli nati morti (e vedremo le piccole bare essere riesumate per essere seppellite accanto a quella del padre, i tradimenti continui del marito, il sacrificio per essere la First Lady perfetta che ormai sembra non avere più senso, il conforto che cerca nei sorrisi e nella comprensione di Nancy Tuckerman, segretaria della casa Bianca sotto i Kennedy, la sempre eccellente Greta Gerwig vista in Frances Ha e Mistress America).
God isn’t interested in story, is interested in Truth
“Le icone sono sempre state coinvolte nella costruzione della loro leggenda, ma spesso finiscono altrove, dove non hanno più il controllo. C’è un vuoto e proprio questo divario è il momento incontrollabile a cui si deve guardare” ha dichiarato Larrain in un’intervista al New York Times.
Ed è proprio in quel divario che ha l’abilità di costruire un film che non è mai lineare, che ricostruisce filmati originali dell’epoca (A Tour of the White House with Mrs. John F. Kennedy del febbraio del 1962 che ci mostra una first lady come una predestinata alla comunicazione) e immagina il dolore di chi torna a casa con il sangue di Jack ancora addosso, che sprofonda nei tacchi nel cimitero di Arlingtone per trovare il luogo esatto dove seppellirlo, tra la fotografia severa del francese Stéphane Fontaine e la colonna sonora dell’americana Mica Levi, capace qui di mescolare la propensione alle dissonanze elettroclassiche (sua una delle colonne sonore più interessanti del decennio, quella per Under the Skin) e gli echi à la Aaron Copland della tradizione classica americana. Larraín sceglie un racconto frammentario che procede per flashback, per una narrazione che va e viene, riparte e ritorna negli stessi punti, allargando lo sguardo, ampliando l’orizzonte, fornendo, come in un’operazione da detective (o da storico), nuovi spunti, nuovi particolari volti a ricostruire una verità personale che si fa storica nel momento in cui decide di essere tramandata.
I personaggi di cui leggiamo finiscono per diventare più reali dell’uomo che ci sta accanto
C’è una scena, al centro del film, di cui capiremo il senso solo nel finale. Jackie Kennedy che, dopo aver messo un disco nello studio adiacente la camera da letto, si aggira come perduta tra le stanze e i corridoi della Casa Bianca. Prima in una vestaglia rosa, poi truccandosi, cambiando gioielli e vestiti, fumando e bevendo alcol, poi vino rosso alla lunga tavola del salone da pranzo, iniziando a portar via fotografie, ricordi di una vita che non è più sua, da una casa che non è più, sua sotto lo sguardo che non lascia trapelare nulla della servitù, di chi in quella casa ci lavora. Vestiti, gioielli, ansiolitici, campioni di tessuti per arredare una casa che dovrà lasciare fino a lasciarsi andare, esausta e in lacrime, sulla sedia presidenziale nello studio ovale, devastata dall’assenza, dalla perdita, dai ricordi.
Non saprei più distinguere la verità dalla finzione
Quel disco è la canzone preferita di JFK, dal musical Camelot. Uno dei suoi versi: “Don’t let it be forgot, that once there was a spot, for one brief shining moment that was known as Camelot” sarà il ricordo intimo da affidare all’articolo su LIFE. Da quel preciso momento, e ancora oggi, negli Stati Uniti d’America il nome dei Kennedy sarà per sempre legato ai Cavalieri della Tavola Rotonda. Con determinazione, Jackie, non più la signora Kennedy, racconta la sua storia al reporter, racconta e corregge.
Allo stesso modo, Larraín ci offre diversi e numerosi piani di lettura tutti capaci di porci interrogativi rifuggendo dalle risposte. Davanti alla Storia con la S maiuscola Larraín racconta storie, frammenti, scampoli di verità purissimi capaci di illuminare sul senso di una vita ma anche di una stagione politica, di un tempo perduto, e perché no del tempo che deve ancora venire.
Perché in fondo Jackie, suo malgrado, racconta una storia che oggi è ancora di grandissima attualità, in un passaggio tra i più delicati nella storia della presidenza americana, e ci ricorda proprio in questo momento, il valore non contrattabile della verità storica.
E mentre sulle note di Camelot il film volge al termine, Jacqueline dai finestrini di una macchina che la conduce verso il ritiro, osserverà dei manichini con i suoi abiti addosso nei grandi magazzini, e con essi il sogno, realizzato, della Storia che si fa immediatamente segno tangibile e popolare.
Once, the more I read of history the more bitter I got. For a while I thought history was something that bitter old men wrote. But then I realized history made Jack what he was. You must think of him as this little boy, sick so much of the time, reading in bed, reading history, reading the Knights of the Round Table […] For Jack, history was full of heroes. And if it made him this way – maybe other little boys will see. Men are such a combination of good and bad. Jack had this hero idea of history, the idealistic view.
[For President Kennedy: An Epilogue,” by Theodore H. White, Life, 6 December 1963]