A cento anni dalla nascita di Kerouac ci si potrebbe chiedere se lo scrittore americano abbia ancora qualcosa da dirci o se non sia invecchiato, ma basta dare una vaga ripassata alle sue pagine per sentire la scossa beat che attraversa la scrittura di Jack Kerouac e rispedire la domanda o il sospetto al mittente. Nel moto continuo di quella scrittura da irrequieto stanno le ragioni intime del Kerouac scrittore.
“La città è Galloway. Ampio e placido, il Merrimac vi fluisce dalle colline del New Hampshire, infrangendosi alle cascate e generando spumoso scompiglio tra le rocce, schiumando sulla pietra antica sin quando il fiume svolta all’improvviso in una conca vasta e mansueta, e comincia ora a costeggiare la cittadina, proseguendo attraverso una vallata boscosa fino a località chiamate Lawrence e Haverhill, e poi continuando sino al mare a Plum Island, dove il fiume si tuffa in un’immensità di acque e svanisce.”
La città e la metropoli
Tutto comincia a Lowell, nel Massachusetts, la Galloway operaia de La città e la metropoli, il romanzo che Jack Kerouac stava scrivendo prima di incontrare il fuoco incarnato negli occhi vagabondi e “criminali” di Neal Cassady, mollare tutte le carte sulla scrivania di casa della madre/zia, e mettersi in viaggio attraverso le sterminate strade d’America che avrebbero ispirato On The Road. Così una bella mattina di luglio Kerouac lascia da parte il manoscritto del progetto di romanzo americano classico a casa e parte alla ricerca della perla, preso dall’intuizione che a seguire la strada dell’irrequieto “figlio del West e del sole” che è il Dean Moriarty di On The Road, si possa scavare fino a trovare una nuova prosa, qualcosa di diverso da Thomas Wolfe, qualcosa di solamente intravisto nelle lettere che scriveva di getto Cassady, “uno scoppio selvaggio e vitale di gioia americana”, puro istinto e nervi.
Kerouac vuole la sua nuova prosa, che si tenga alla larga dai discorsi che si ripetono nelle università per diventare più sincera possibile. I suoi diari giovanili sono già pieni di visioni e appunti, della sua ricerca di scrittore. Jack è ossessionato dai sensi di colpa, dal numero di parole da scrivere, da Dostoevskij e il suo sottosuolo, ha le idee chiare e confuse su quello che vuole fare, sa che arriverà un momento in cui saprà, che arriverà un incontro, una sommossa americana che gli apparirà come una rivelazione; le bevute con i vecchi compagni Ginsberg e Burroughs quasi non gli bastano più, deve esserci qualcosa di più puro e assoluto nel cuore nevrotico d’America.
E forse è così che Neal Cassady diventa la naturale ispirazione di quella che sarà la beat generation e la prosa beat, il motore pulsante, il centro della vicenda, puro e luminoso e sporco come la musica di Charlie Parker, come il jazz, sterminato come le lunghe strade, maleducato e felice, il centro narrativo di un’altra America, landa sommersa, sotterranea, parallela, lontana dal potere, un’America che risponde alle bombe con la poesia, l’America dei chiamati e degli arditi e gli scarti che rifiutano i padri e le accademie, perché la verità se ne sta più solitaria e nascosta dentro le strade e là aspetta.
L’illuminazione di Jack Kerouac avviene in viaggio, è durante il viaggio che trova la perla. Jack vuole scendere nella carne d’America, cercare la nuova lingua, la prosodia, ed è per questo che registra le conversazioni con Neal Cassady e le annota alla fine di Visioni di Cody, è là dentro che si nasconde la lingua che sta cercando, e allora Visioni di Cody non è solamente un grande studio del personaggio di Cassady, ma anche uno studio sulla lingua a briglia sciolta, un maleducato flusso di pensieri dove le virgole sono un intralcio e si aprono sterminate parentesi senza chiusa che sono le praterie di una mente alla prese coi suoi pensieri le sue visioni le sue istantanee e le sue confusioni. Una convulsione di esplosivo bop che dal chiuso dei locali se ne va fuori all’aria aperta delle strade, e là albeggia.
(mi ci vuole un registratore, ne comprerò uno quando l’Adams farà scalo a New York marzo che viene, allora sì, potrò tenere il più completo registro del mondo – venti grossi massicci volumi – pile di nastri – interessantissimi – in cui vengono descritte raccontate tutte le cose ovunque da ogni parte e i pensieri e i barlumi di pensiero e le smanie di me-pazzo-di-valore – e avrà una forma ma una forma pazza, una gran forma pazza – ma logica però come un romanzo di Proust – ché io seguito a tornare e ritornare indietro col pensiero – indietro ancora – però può darsi che davanti a un microfono m’innervosisca – e magari direi troppo).
Visioni di Cody
Jack Kerouac dice che la sua opera è un unico vasto libro come la Ricerca di Proust, il grande ciclo delle memorie di Duluoz scritte sul momento e senza un innecessario ordine cronologico; dove sempre la scrittura tenta di catturare il momento di una mente inquieta, un momento che non ha interruzioni, ripensamenti, revisioni, un momento di jam session mentale che funziona come una trance diretta sulla carta che cerca di emanciparsi dalla punteggiatura e soffia come un musicista jazz dentro il suo strumento a fiato. In un’intervista a Ted Berrigan, Kerouac paragona il processo di scrittura a un ragazzo che racconta una storia selvaggia a un gruppo di persone in un bar, e non si ferma, non torna indietro, ma segue il flusso ritmico e incosciente delle parole. L’America del nord stessa in quel momento è una babele che sta cercando dappertutto la sua nuova lingua, visionari come Jackson Pollock dipingono a istinto e caos un dripping che è nuova linfa per la pittura, il bop musicale è libertà, e allora perché anche la scrittura non può essere libera – pensa Kerouac – spontanea e viva, sterminata; chi ci vieta di prendere un haiku giapponese con le sue regole fisse di sillabe, per farne qualcosa di libero e spontaneo; chi vieta alle parole di essere parole, di farle andare dove devono andare anche quando non si sa dove vanno a finire.
È là, sulla strada, che Jack Kerouac trova le parole, e con loro la perla, l’incoscienza, il coraggio, la gioventù, per arrivare alla sua lingua, per dissacrarla e amarla insieme, e prima ancora dell’avvento della generazione di cantautori di strada con i loro album popolati e chiaroveggenti. E allora non è solamente il fascino della beat generation che ancora ci porta a leggere Kerouac a cento anni dalla sua nascita; è la sua furiosa ricerca di scrittore che ci fa leggere Kerouac. La ricerca che lo ha portato da Lowell a sbattersi dalla costa est a quella dell’ovest, dalla frontiera messicana fino alla Parigi dove se ne andava in cerca di radici lontane e satori, è la sensazione di trovarci davanti a uno scrittore vasto nel senso di vasta terra che si estende sul globo sconfinato, la cattolica Lowell e il Buddha e l’Oriente e il nuovo rinascimento dei poeti di San Francisco, la grande terra americana approdo per le navi d’Europa e d’Africa, navi di schiavi e coltivatori, la terra nativa e la terra del beat, l’uomo sbattuto, il grande sconfitto e senza pace che cerca esperienze per cercare pace.
Ho in mente un altro romanzo a cui continuo a pensare: parla di due ragazzi che fanno l’autostop fino in California, in cerca di qualcosa che non riescono a trovare veramente e si perdono lungo il cammino per poi tornare indietro sperando in qualcos’altro. Inoltre, sto scoprendo un nuovo modo di scrivere. Ne parlerò più avanti. – Diari
Kerouac si butta sulla pagina in una maniera carnale e spirituale che batte su corpo e mente: la sua scrittura è visione, pulsione, sesso, stomaco, intelligenza e brutalità, tenerezza e profondità, con improvvisi viscerali guizzi di commozione. E naturalmente c’è la musica, la visione tentacolare di improvvisati assoli di jazz. La leggenda di Duluoz è anche la leggenda di un bardo delle strade. Nei suoi diari di gioventù Kerouac prova a tenere il passo disordinato dei romanzi che sta scrivendo e immaginando di scrivere, Sulla strada e Il dottor Sax (a sua detta, il suo migliore), nelle note dei diari è già manifesta la lotta dello scrittore che sta cercando la sua battuta ritmica, la prosa beat e spontanea. Kerouac era in un certo senso ossessionato dal ritmo, dalla “prosa futura”, dalle visioni di Goethe sulla letteratura mondiale, dai suonatori di jazz, dallo sforzo di innervare non solo sé stesso dentro i suoi romanzi e racconti e appunti, ma un intero mondo popolato dagli hip suburbani che gli stavano intorno, antieroi sommersi e sconfitti come Cassady, schizzi sull’avvenire che a distanza di tempo sono ancora vivi e irrequieti, si alzano dalla carta. Dire cento anni è contare il tempo in modo arbitrario e parziale. Arrivati ai cento anni di Kerouac chiedersi perché ancora lo leggiamo forse non serve a nulla – non sarà mai la testa a rispondere, Kerouac non è ragione ma istinto, irrequietezza e sfiancatezza, una suonata di jazz, un cazzotto, una fuga, amore per la parola scritta e per i randagi e i battuti di tutto il mondo.