J.J. Cale, reietto del music business

I never paid attention to what was contemporary or what was commercial, it didn’t mean anything to me. -Van Morrison

Questo è il primo di una serie di articoli che L’Indiependente vuole dedicare a quelli che sono i veri reietti del music business, sospesi nel limbo tra l’iconografia patinata e stucchevole di Rolling Stone da un lato e l’ossessione lo-fi della riscoperta hipster dall’altro. Sì, se c’è qualcosa che Mick Jagger e Daniel Johnston, Bon Jovi e Dr. John condividono, quello è il loro status di cult, che sia dovuto ai milioni di dischi venduti o dall’essere stati ripubblicati dalla Third Man Records di Jack White. Noi cercheremo di guardare a quell’esigua minoranza di artisti che è riuscita a sottrarsi ad entrambe le categorie, cercandone il motivo nelle biografie, nei rifiuti, nelle contraddizioni e, perché no, nelle canzoni stesse. Sarà un work in progress e, se vorrete suggerirci dei nomi che a vostro parere non possono mancare dalla lista degli “Outlandos d’Amour”, i fuorilegge dell’amore dimenticati dall’iconografia ufficiale, potrete farlo scrivendo ai nostri contatti.


John Weldon Cale nasce nel dicembre del 1938 a Oklahoma City, nel profondo sud degli Stati Uniti a cui rimarrà sempre, inesorabilmente legato nell’arco della sua carriera. Okie, “nativo dell’Oklahoma”, sarà infatti il titolo di uno dei suoi album che, attraversando indenni gli anni ’70 e i loro cambiamenti stilistici, il passaggio dal funk alla disco music, dal rock’n’roll suonato nei piccoli locali a quello da arena, costituiranno la base di un nuovo approccio alla musica, rilassato ma mai seduto, elegante ma senza rinunciare al groove, che non poteva prendere altro nome se non quello di Tulsa Sound. Definire questo “non-genere” e individuarne gli esponenti è praticamente impossibile, vista la vaghezza dei suoi confini e l’estensione delle sue ispirazioni, che vanno dal rockabilly al cool jazz, ma forse il modo migliore di cogliere l’essenza è ascoltare l’album di esordio di Cale, Naturally. Inciso nel 1972 a Nashville dopo una breve (e rinnegata) parentesi da sideman nei gruppi della scena “acida” di Los Angeles, che l’aveva indirizzato verso il declino economico e umano, il disco è associato ad una di quelle “storie rock” che potreste sentire su Virgin Radio, e che tutti noi amiamo tanto ascoltare e raccontare ai nostri amici nelle calde serate invernali per sentirci colti e interessanti, in una parola, cool.

Proprio mentre il nostro eroe rock stava per appendere la banale chitarra al banale chiodo, ecco arrivare la banale telefonata che avrebbe banalmente cambiato la sua vita per sempre: Eric Clapton, dopo la disastrosa esperienza dei Blind Faith, aveva scelto una demo registrata da Cale, After Midnight, come singolo d’esordio per il suo primo album solista, prodotto da Delaney&Bonnie. Il successo della canzone, e le conseguenti royalties ricavate da Cale, gli permisero di registrare in fretta e furia, a 34 anni suonati, il suo esordio discografico.

Oltre ad After Midnight, Naturally conteneva alcune delle composizioni più celebri di Cale, come Call me the breeze o Magnolia, ma era il vibe del disco ad essere innovativo nella sua pacatezza, nel suo posizionarsi consapevolmente a cavallo tra country, blues e atmosfere jazzy e, soprattutto, nel suo essere totalmente estraneo al suo tempo. L’utilizzo, quanto mai discreto, delle prime batterie elettroniche e la filosofia del “Do It Yourself”, che vede Cale suonare la maggior parte degli strumenti e che ne caratterizzerà l’intera discografia, non nacquero come vezzi stilistici, ma furono semplicemente scelte obbligate dettate dalle ristrettezze economiche. Come spiega lo stesso artista, “ho iniziato a farlo per risparmiare; non avevo abbastanza soldi per ingaggiare una band. Ora che li ho, mi piace ancora; (lavorare da solo ndr.) è una specie di forma d’arte in sé”. È questa la rivoluzione al contrario del cantautore Okie: mentre intorno a lui Clapton ergeva muri di amplificatori con i Cream e James Brown faticava a farsi sentire sui fiati dei suoi Famous Flames, il Tulsa Sound non era altro che un’operazione di revival ante-litteram, prima che questo fosse di tendenza. Lo scopo era quello di riscoprire i suoni vellutati dei dischi Chess e Blue Note degli anni ’50, cancellando gli ammiccamenti e le semplificazioni commerciali effettuate dai beat inglesi in favore di un approccio essenziale, mirato a catturare l’essenza, l’atmosfera laid-back di quegli album. Questa purezza d’intenti, unita alla padronanza delle nuove tecniche di registrazione, a una vocalità ben diversa da quelle del blue-eyed soul imperante all’epoca (Steve Winwood su tutti) e ad uno stile chitarristico innovativo che attingeva a piene mani da artisti diversi come Wes Montgomery, T-Bone Walker e Chuck Berry rendono Naturally il capolavoro dimenticato che è.

Really, opera seconda di Cale, pur essendo un album valido e pieno di buone canzoni (Lies, Soulin’), rappresenta soltanto un primo passo verso la definizione di uno stile unico e riconoscibile, ben rappresentato dal successivo, favoloso Okie, dove per la prima volta le tracce vocali vengono spinte in primo piano e “raddoppiate” in postproduzione e, in particolare, da Troubadour, che rappresenta il picco artistico (e commerciale) della carriera di J.J. Cale.

Ancora una volta, il disco è legato a doppio filo a Clapton, che trasformerà Cocaine in uno dei brani più noti della storia del rock, nonché nell’ennesima macchina da royalties per Cale, nonché nell’ennesima “storia rock” da ascoltare dalla calda voce di Ringo o Paola Maugeri. Al di là di questo, Troubadour contiene di tutto: dal country di Hey Baby, che apre l’album, alla chitarra funky di Travelin’ Light e Let Me Do It To You, a ballate dai sapori quasi africani come You got something e Cherry.

Ai primi, fondamentali, quattro album prodotti da Audie Ashworth ne seguiranno molti altri, accusati dai detrattori di essere intercambiabili variazioni sul tema del Tulsa sound, indistinguibili tra loro. A testimonianza di questo, basta dare un’occhiata ai titoli degli album successivi di Cale, scelti con la fantasia e l’estro artistico del Martufello dei tempi migliori. A Naturally seguiranno opere come 5 (sì, avete indovinato, quinta fatica in studio di Cale), #8 (e sono otto), Number 10 (per ribadire il concetto). Ma se non si può non dar ragione a chi accusa Cale di pigrizia intellettuale, e se è innegabile che le differenze tra i suoi album vadano ricercate nei più piccoli particolari (nemmeno i titoli sono d’aiuto), bisogna però avere ben chiaro che sono proprio questa pigrizia, quest’indifferenza nei confronti dei giudizi e delle recensioni, questa estrema coerenza che arriva a rasentare la follia a rendere riconoscibile (ed unica) l’esperienza di J.J. Cale. È vero: risulta difficile, se non impossibile, trovare un suo disco che suoni come “un grande passo per l’umanità”, ma, allo stesso tempo, fatto ancora più raro per un artista, è altrettanto arduo rintracciare una singola canzone che puzzi di compromesso, che manchi di autenticità, pur essendo l’ennesima variazione dell’abusato I-IV-V di matrice blues.

È proprio qui che risiede la grandezza di Cale, nel suo essere indipendente senza epica e senza pretese, ed è questo il motivo per cui è di fatto escluso dal pantheon della musica rock. La sua sperimentazione volta al passato, senza ambizioni storiografiche, senza la pretesa di seppellire la sua ispirazione, stride con il revisionismo e la nostalgia hipster ma, allo stesso tempo, il suo rifiuto quasi Salingeriano della notorietà e delle responsabilità ad essa associate gli resero impossibile accettare i compromessi necessari (pubblicità, markette, duetti…) all’ingresso nella mitologia ufficiale della Hall Of Fame.

Nonostante questo, J.J. Cale il suo posto nella storia l’ha ottenuto, se non come interprete, quantomeno come songwriter, anche se al diretto interessato la cosa non sembrava interessare molto: “fondamentalmente, sono soltanto un chitarrista resosi conto che non avrebbe potuto comprarsi la cena con il suo mestiere, ed è per questo che ho cominciato a scrivere canzoni, che è un attività un po’ più redditizia”. La vulgata vuole infatti che la fama del suo repertorio preceda quella di Cale stesso come artista, grazie alle reinterpretazioni che molti artisti mainstream hanno inciso delle sue canzoni. Per non parlare poi dell’influenza indiretta su artisti come Clapton, con cui realizzerà un album vincitore del Grammy nel 2006, e, in particolare, Mark Knopfler, il cui stile chitarristico e vocale agli esordi doveva molto alla lezione di Cale (soprattutto in questo album, il migliore dei Dire Straits).

Quando gli chiesero se fosse infastidito dal fatto che i fan potessero amare le sue canzoni senza nemmeno conoscere il suo nome, Cale rispose, con lo stesso tono laconico delle sue incisioni e con quel suo ghigno alla Lee Van Cleef, che no, non gli importava ma che “è veramente carino quando ti ritrovi un assegno in mezzo alla posta”.

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