Si arriva sempre tardi nella vita, e si capisce l’importanza delle cose quando ormai sono passate. È un fatto di raccogliere i detriti, dopo che le bombe sono esplose, e di quello che si è malinconicamente perso. Si tratta di narrare storie della sconfitta e degli inevitabili addii, forse per dargli un valore in più, o soltanto un sottofondo per assaporare quello che ci sta lasciando. È uno dei tanti rimedi, di quelle costanti che ci possono salvare o di quei tentativi per cui una perdita sembra bruciare di meno. Il suono degli Ishaq viene da un profondo nord Europa, o dell’idea che abbiamo di quelle foreste, prende i passi dei Sigur Rós e dei Múm per stravolgerlo con un post rock dolcemente malinconico. Dal Veneto a Bergsdorf la strada non è poi così lunga, e quanto questa dimensione influenza la composizione. Registrato insieme al compositore canadese Tobin James Stewart, e mixato a Toronto, questo Remedies incorpora tante esperienze e parla tante lingue differenti. Rispetto a Inner City, con l’aggiunta di nuovi strumenti, il suono si fa più profondo e complesso, con nuovi livelli e particolarità, seguendo una tensione continua, in cui il climax non si risolve mai in un apice o in una caduta definitiva. La voce è soltanto una suggestione, un suggerimento per indicare la strada a cui la composizione ci vuole portare.
Le transizioni quasi non si avvertono, non ci sono scossoni o panorami che non possano integrarsi insieme. Dal mondo quasi orientale di Five years ago si entra in quello quasi fatato di Coward, in contrasto con quello che potrebbe invece suggerire il titolo. È proprio questa capacità di confondere l’ascoltatore, fra indicazioni più o meno coerenti, a rendere una produzione capace di far muovere tante, e diverse, interpretazioni. Ci si sente lontani, non sembra nemmeno di essere nello stesso paese, sfruttando al massimo le potenzialità di un genere musicale che qui da noi non sembra esistere. Forse perché lo strumentale fa ancora un po’ paura, quell’immersione nel provare ad associare sensazioni e a scovare nessi senza l’aiuto delle parole, quando è forse l’unico modo per riuscirci. Il bilanciamento è completo e coraggioso, The Ballroom ed Elijah sono i contraltari di un disco fortemente dispari, che non sempre riesce a esaurire il carico di cui la musica si vuole fare portatrice ma che, quando ci riesce, raggiunge parti profonde e brividi.
Gli Ishaq riescono a creare sette tracce fatte di densità trasognanti e destini incomprensibili che, a volte, si fanno troppo intellettualistici nel distacco dal reale, in nome delle ricerca di un suono perfetto che rischia di perdere quella sua componente così preziosa di realtà. Ma sono pecche di passionalità e dedizione, che non ci permettiamo di accusare e che solo il tempo può limare, quel tempo scomparso che nel loro disco non è mai stato così dolce.