Quando Ray Liotta, l’Henry Hill di The GoodFellas (Quei Bravi Ragazzi, 1990), fa il suo ingresso trionfale al Copacabana, la camera di Scorsese lo segue alle spalle, sottomessa, in segno di rispetto. Davanti a lui, i camerieri e i commis chefs si aprono in una coreografia, come se Hill fosse tanto potente da creare lo spazio di fronte a lui, una rete di corridoi immaginari che danno vita a uno dei piani sequenza divenuto esempio stilistico dell’approccio alla regia di Scorsese al gangster movie.
In The Age of Innocence (L’Età dell’Innocenza, 1993), Newland Archer (Daniel Day Lewis) entra nei salotti dei Beaufort, simbolo di una borghesia newyorkese che non esiste più. È convinto di trovarsi in una posizione di superiorità intellettuale, etica e morale. Tuttavia, c’è un sottotesto per lo spettatore più attento: i movimenti di camera ci spiegano quanto effettivamente poco influente (e tantomeno trionfale) sia l’ingresso di Archer agli occhi dei conviviali. La camera dapprima lo segue in piano sequenza – proprio come aveva seguito l’Hill di Liotta tre anni prima – e poi si distrae, posandosi talora sulle opere d’arte, talora sugli altri invitati, ma allontanandosi distrattamente da Archer, quasi a suggerirne la “mediocrità.”
Martin Scorsese è un maestro della narrazione. Ogni inquadratura è tesa a divenire exploitation della personalità dei suoi protagonisti e dell’effettiva influenza che essi hanno sugli altri. Ogni scelta stilistica vuole essere fine alla narrazione e mai a un puro virtuosismo tecnico.
E così, anche The Irishman descrive il suo protagonista con un piano sequenza che fornisce una serie di informazioni chiave già all’apertura del film. “I don’t believe in America”, dice in voice-over Robert De Niro. La camera da presa si muove per i corridoi, stavolta svuotati degli (anti)eroi dei film sopracitati. Siamo in un luogo ben più modesto dei salotti newyorkesi o del Copacabana: è un ospizio e ormai non c’è più nessuno da seguire. È solo al termine del piano sequenza che appare Frank Sheeran, ormai anziano e sulla sedia a rotelle. La sua voce stanca inizia a raccontarci la storia della sua ascesa nella malavita, ma soprattutto del declino della mafia dei Goodfellas, della fine di un’America e dello stesso epilogo di un genere cinematografico.
The Irishman è l’ultima opera cinematografica di Mr. Scorsese, presentata al RFF14. Frank Sheeran sembra essere un semplice uomo di famiglia, un veterano della Seconda Guerra Mondiale che per mantenere moglie e figlie fa l’autista di camion. Un giorno si imbatte Russ Bufalino (Joe Pesci), boss mafioso di Filadelfia, ne rimane affascinato e (senza tanti scrupoli) fa di tutto per farsi assoldare. Bufalino lo introduce alla malavita e rimane colpito dalla disponibilità, dedizione e affidabilità dimostrate da Frank. Tra i due (e le rispettive famiglie) nasce presto un’amicizia profonda che li legherà saldamente nei decenni a venire. Russell si fida così tanto di Frank che decide di presentarlo a Jimmy Hoffa (Al Pacino), presidente del sindacato dei Teamsters. Hoffa è un brillante stratega e un grande comunicatore, con uno charme tale da riuscire ad affascinare chiunque: la malavita, le masse di camionisti e addirittura la piccola Peggy, figlia di Sheeran. Frank riesce in breve tempo a conquistare la piena fiducia di Hoffa e ne diviene braccio destro, consigliere e amico più caro.
Sheeran è antieroe d’eccellenza, sicario spietato e amorale col quale lo spettatore fa (volutamente) difficoltà a entrare in simbiosi. L’interpretazione di De Niro è superba e a tratti sottotono, come il suo Irishman che si muove silenzioso dietro le quinte. Frank ottiene sempre quel che vuole, quando lo vuole, senza tuttavia trovarsi mai in una vera posizione di rilievo che imponga responsabilità o dovere decisionale. Non è la star, non è l’Henry Hill interpretato da Liotta, ma un mero esecutore doppiogiochista che non pesta i piedi al potere. Personaggio compreso a pieno da un De Niro che, dopo molti anni di ruoli discutibili, raggiunge con questo film l’apice di una lunga carriera attoriale.
Accanto a lui, Al Pacino – presentato da F.F. Coppola a Scorsese tanti anni fa ma per la prima volta in un suo film – e un meraviglioso Joe Pesci. Difficile decidere chi dei tre abbia dato una performance migliore. È un film corale che appartiene a tutti e quattro i giganti della New Hollywood e che ripristina nostalgicamente un genere, senza dimenticarsi dell’innovazione, imbracciandola col (criticatissimo) ringiovanimento in CGI e la libertà creativa concessa da Netflix, il primo finanziatore di un film da 160 milioni di dollari su cui nessuno voleva investire. Scorsese, da amante e conoscitore del mezzo cinema, in cima all’Olimpo dei registi Hollywoodiani, non ha paura di scoprire il nuovo e si lascia contaminare dalla contemporaneità.
In conferenza stampa al RFF14, all’accusa di non aver mai optato per protagoniste femminili, fatta eccezione per il film Alice Doesn’t Live Here Anymore (1974) che fece guadagnare l’Oscar come Migliore Attrice Protagonista alla Ellen Burstyn di Requiem For A Dream (Aronofsky), Scorsese risponde ironico: “But journalists don’t count that, Alice doesn’t count.” In realtà, si potrebbe constatare che il personaggio più forte di The Irishman è proprio una donna. Se lo Sheeran di De Niro è ingannevole e riesce a cavarsela senza mai inimicarsi nessuno dei poteri forti, l’unica a non farsi trarre in inganno è sua figlia Peggy (Anna Paquin). Peggy non è una cornice, non copre la sola funzione narrativa di inserire Frank in un contesto familiare, ma ha un ruolo assolutamente centrale: è l’unica vera forza punitiva in campo, forte e coerente, mai incline a lasciarsi persuadere dal padre violento e distante. Per Frank, non esiste redenzione agli occhi di Peggy. Non c’è perdono. Questo è l’unico insuccesso in grado di scalfirlo, laddove nulla, (neanche il più efferato omicidio o tradimento), è mai riuscito a portarlo a un leggero sentimento di rimpianto o senso di colpa.
The Irishman è duecentodieci minuti di un Martin Scorsese al suo stato più puro, è una lezione di cinema e di narrazione complessa e completa, che adatta il libro omonimo di Charles Brandt, ripercorrendo criticamente decenni di storia Americana, un’opera nostalgica, perfettamente conscia del mezzo cinema e della sua evoluzione. Infine, è un film di gruppo, che appartiene al regista tanto quando ai tre attori protagonisti, a loro perfetto agio sia nelle vesti dei gangsters ringiovaniti con la tecnologia moderna, che di gangsters anziani, giunti ormai al loro capolinea.