IRA | L’Odissea nel Suono di IOSONOUNCANE

Hoy every son da el jabal comes ala rivage por mon last retour / Oggi ogni figlio dalla montagna giunge alla riva per il mio ultimo ritorno

Sono passati sei anni. Sei anni da quando DIE comparve nel panorama musicale italiano come un oggetto misterioso in grado di scompigliare le carte di correnti musicali che prestavano già il fianco a decise stanchezze. Reduce, ancora cinque anni prima, del debutto solista con La Macarena su Roma attraverso cui molti avevano provato a inserire Incani nel calderone dell’indie, con DIE,  IOSONOUNCANE spezzava invece ogni possibile legame con quel passato. Se il primo disco era stato anche e soprattutto un alto esercizio di parola, il secondo ampliava completamente le possibilità del linguaggio musicale. Disco di enorme successo, con i suoi poco meno che quaranta minuti, DIE mescolava cantautorato ed elettronica, l’Anima Latina di Lucio Battisti con la techno, una lingua arcaica con versi di animali, il canto a tenore, cori leggeri. Come tutto questo riuscisse a funzionare splendidamente trasformandolo in un istant classic resta il grande mistero di quel disco, ancora oggi.

Sono passati sei anni ma dovevano passarne cinque. L’annuncio del nuovo lavoro era stato fatto più di un anno fa attraverso modalità inedite: un’esecuzione integrale dal vivo per sette date italiane nell’Aprile del 2020. Inutile ricordare com’è andata. Saltati i piani e ogni possibile riformulazione di quei concerti – a oggi spostati alla primavera del 2022 – IRA uscirà finalmente il 14 maggio, sulle diverse piattaforme musicali e sul formato fisico del doppio cd e del triplo vinile per la rinata etichetta Numero 1 (distribuzione Sony) che per quest’uscita affianca La Famosa Etichetta Trovarobato. Opera monumentale composta di diciassette tracce per un’ora e cinquanta di musica, IRA è il frutto di un lavoro estenuante che ha attraversato un arco temporale di circa cinque anni. Un disco che, partendo da circa quindici ore di bozze e provini, IOSONOUNCANE ha «scritto e arrangiato in ogni singola parte, nota, accento

Il disco è stato concepito seguendo alcuni punti fermi: un ensemble preciso per il quale scrivere, una serie di musicisti sui quali modellare strutture, arrangiamenti, timbri, dinamiche, trame vocali. Il risultato è una partitura interamente eseguibile dal vivo dai musicisti che hanno suonato nel disco: Mariagiulia Degli Amori, Serena Locci, Simona Norato, Simone Cavina, Francesco Bolognini e Amedeo Perri.

La prima notte in cui ho ascoltato i centodieci minuti di IRA, ho pensato di colpo a DIE come il monolito di 2001 Odissea nello spazio, a noi ascoltatori come primati improvvisamente messi in frenetica agitazione dalla sua bellezza, dal suo mistero, dalla sua levigata perfezione, dal fascino insondabile di un corpo – musicale – incatalogabile e inafferabile, estraneo al suo tempo e, contemporaneamente, impossibile da ignorare.

Se pensiamo a DIE come il monolito, ecco che IRA appare come il salto quantico del film di Stanley Kubrick, la consapevolezza dei propri mezzi, l’osso lanciato nell’aria, il geniale scarto temporale che da quell’acquisizione apre infinite possibilità di scoperta fino al valzer della navicella spaziale sulle note del Danubio Blu di Strauss.

IRA è, di fatto, il disco più atteso di questo 2021, perché seguito di un lavoro che ha spostato l’asticella della musica italiana, perché per mesi abbiamo accarezzato l’idea del piano originario di Incani, perché incuriositi, nello scorso autunno, dalla pubblicazione di un sette pollici che nulla aveva in realtà a che vedere con il disco in uscita ma che ci ricordava – tramite una splendida e malinconica ballata in tre quarti e una cover in punta di piedi di Vedrai, vedrai di Tenco – quale potesse essere lo spessore artistico del musicista sardo.

La sensazione che se ne coglie attraverso l’ascolto unitario e compatto è quella di un lavoro che ha fatto propri i meccanismi di DIE che tornano qui e lì nell’arco di diciassette composizioni ma che esplodono, deragliano, si moltiplicano, prendendo un posto ampissimo nel tempo e nello spazio.

Musicalmente parlando, il risultato finale di quell’ascolto è un paesaggio sonoro fitto e sconfinato in cui s’intrecciano elettronica, psichedelia, echi del Maghreb e reminiscenze jazz

Ma c’è dell’altro. Nel suo splendido libro “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” (“Un verdor terrible”) pubblicato in Italia da Adelphi, Benjamin Labatout, nel suo allucinato e affascinante racconto della scienza contemporanea, ci racconta della «singolarità di Schwarzschild» matematico a cavallo tra otto e novecento i cui studi anticiparono la scoperta dei buchi neri. Scrive Labatout: «Il problema sorgeva quando una massa troppo grande si concentrava in un’area piccola, come accade quando una stella gigante esaurisce il suo combustibile e comincia a collassare su se stessa. Secondo i calcoli di Schwarzschild, in quel caso lo spazio e il tempo non si alteravano: si laceravano. La stella diventava sempre più compatta e la sua densità aumentava a dismisura. La forza di gravità cresceva a tal punto che lo spazio si curvava infinitamente, chiudendosi su se stesso. Il risultato era una voragine senza fine, separata per sempre dal resto dell’universo.»

La singolarità di Schwarzschild sembra applicarsi in pieno alla forza sonora di IRA. L’impatto clamoroso delle sue quasi due ore di musica, quel suo plasmare senza tregua una materia sonora, mobile, densa, incandescente sembra davvero – come attraverso un sistema ipnotico – modificare la realtà intorno all’ascoltatore, facendolo precipitare in uno stato dove la realtà che lo circonda smette di esistere per ciò che è e, appunto, si deforma, si curva, si chiude su se stessa non lasciando altro pensiero che quello della musica stessa.

IRA è un disco che ha il potere – in questo, lo ribadiamo, resta saldamente erede di DIE – di evocare paesaggi, scenari, orizzonti che non restano mai gli stessi non solo nel vasto arco temporale del disco ma spesso all’interno degli stessi pezzi. Come la burrasca che muoveva i personaggi di DIE, anche qui è forte la sensazione di uno sturm und drang, di un’emotività artistica capace di imprimere una svolta netta all’atmosfera che caratterizza ogni brano con la capacità di far virare un paesaggio tranquillo in uno scenario improvvisamente buio e minaccioso come, altrimenti, di far percepire l’improvviso arrivo di una calma quiete dopo la violenza di un lungo passaggio dominato da ritmi oscuri.

La costruzione di questi paesaggi, la capacità di dare sfumature alle atmosfere in cui si è immersi, è una delle cifre più significative del lavoro di Incani qui, in IRA, portate alle conseguenze se non più estreme certamente parossistiche. E non è un dato aggiuntivo: è uno degli elementi cardine del suo essere artista totale, una capacità di pensare la forma musicale sempre e comunque sotto forma di narrazione, di dialogo, di linguaggio.

Come riporta – giustamente – il comunicato stampa: «Il linguaggio dei testi, come in DIE, è scarnificato e ridotto ai minimi termini. Se in DIE questa operazione riguardava il lessico nella sua essenzialità simbolica, qui IOSONOUNCANE agisce anzitutto sulla necessità che determina il linguaggio, attraverso una lingua ipotetica, espressione gergale del tentativo di comunicare. Una lingua dell’errore, della distanza percorsa e ancora da percorrere, una lingua del fraintendimento, della mancata comunicazione. Quella di IRA non è quindi una neolingua, bensì un lingua momentanea, della necessità, fatta di errori e di un lessico occasionale, sradicato e confuso, che mischia inglese, arabo, francese, spagnolo, tedesco ed italiano».

IRA, come le altre sue opere è, anch’essa dominata da una semantica precisissima, mai frutto del caso ma di una volontà che appare quasi sconvolgente per determinazione e direzione. Ancora una volta Incani dimostra di essere capace di realizzare dischi che rivendicano con forza la loro complessità, capaci di collocarsi dentro a un disegno preciso. In questo colpisce che un disco come IRA, tanto dominato dal suono, che sembra in molti passaggi il frutto di notevoli manipolazioni, è in realtà un disco che può essere – e che sarà – eseguito integralmente dal vivo dallo stesso ensemble di musicisti per cui è stato pensato e scritto e con cui è stato realizzato. Ed è un tema che colpisce per la complessità di scrittura, evidentemente, ma anche per le possibili variazioni che un testo del genere potrà conoscere nella dimensione live.

Lo sa del resto chi ha già avuto modo di ascoltare Incani dal vivo: la solidità della sua scrittura può diventare tanto la base per un’esecuzione fedelissima – quasi zappiana – della partitura, oppure farsi canovaccio dal quale partire per tornare a dialogare in maniera diversa con l’idea originaria. Trasformando in questo senso Incani tanto nella figura classica di un compositore/direttore d’orchestra tanto in quella di un band leader di matrice quasi jazzistica che possa manipolare insieme con gli altri il materiale sonoro ricchissimo che ha tra le mani.

Ma non sarebbe giusto lasciar passare l’idea che IRA sia un disco che avvolge l’ascoltatore con la sua pasta sonora in maniera indefinita. Resta un disco di diciassette brani, ciascuno con le sue diverse peculiarità. Se, dunque, l’ascolto massivo e unico ci precipita dentro a uno spazio fuori dal tempo che sembra avere la forza di modificare la percezione del nostro intorno, lasciandoci tanto inermi quanto mutati, la dissezione dei vari pezzi ci catapulta in un lavoro di cesellatura finissima che restituisce a ogni brano la sua ragion d’essere e la propria peculiare natura.

Copertina e retro del disco

L’incipit è affidato a Hiver con il pianoforte a disegnare le onde del mare. È un brano che mostra fin da subito la sua coralità, e il legame fortissimo con DIE. IOSONOUNCANE ancora una volta dimostra di aver fatto propria la lezione di un capolavoro come Rock Bottom di Robert Wyatt citato fin dai tempi di DIE come un punto di riferimento, con le sue stratificazioni sonore, con le sue geologie strumentali, con la sua capacità di armonizzare layer sonori diversi e complementari tra loro. Soprattutto, fin da questo primo brano, viene fuori un elemento che segnerà l’intero lavoro: l’uso di lingue diverse come a voler cercare un linguaggio più internazionale e trasversale e l’idea di voce come strumento o come elemento sonoro assolutamente non al di sopra delle parti. In IRA, infatti, la voce di Incani si fa spesso incomprensibile, pur nella ricchezza di una varietà notevole di registri utilizzati – alcuni finora inediti come il falsetto più esasperato e la profondità più cupa – ma in generale è il missaggio della stessa che la intreccia agli strumenti, ai synth, ai cori, quasi sempre filtrata, mai un gradino più in alto della musica che la circonda, che non l’accompagna ma le cammina accanto, parallela. Ashes, fin dalle prime note accoglie il peso significativo dell’elettronica in questo lavoro, mentre la voce è un sussurro sul fondale. I tempi rimangono morbidi ancora per poco, dura un attimo fino all’ingresso delle percussioni a dare ritmo, infine, al secondo minuto, quando un urto sonoro quasi industrial ci trascina dentro a un clangore sghembo e pesante, anticamera di un crescendo dei sintetizzatori e di atmosfere sorrette da bordoni laceranti l’aria.

Rispetto al percorso che parte da La Macarena su Roma, passando per DIE, sembra compiersi in IRA il quasi totale abbandono della forma strettamente cantautorale che, scostandosi, sottraendosi, lascia campo aperto al compositore tout court, al musicista sperimentale, all’esploratore elettronico e ritmico.  Eppure dentro questa massa incandescente di suoni lontana dal cantautorato degli esordi – Fleuve è una ballata elettro tribale ipnotica che deve tanto a certa musica maghrebina; la successiva Jabal, partendo dalla stessa matrice, dialoga in maniera profonda con la techno più spinta berlinese dando luogo a un risultato esaltante e tutt’altro che derivativo -, dentro al groviglio sonoro di cui si compone IRA, è impossibile non riconoscere comunque una vena autoriale, qualcosa che – come una filigrana – rivela la presenza di una struttura forte all’interno delle composizioni, di un filo narrativo, di un sistema forte di segni che dà corpo e sostegno al suono, che non si presenta mai come semplice – e per questo mai debole – mera ricerca di sonorità altre ma che rimane fortemente ancorata a una struttura creativa e programmatica che tutto tiene unito senza mai sfaldarsi e che, quasi come uno spartito bachiano, potrebbe un domani trasformarsi in un lavoro acustico per sole voci e chitarre.

Come se la lezione di DIE si fosse col tempo fatta imprescindibile e pure nella sua evoluzione così spinta – in questo debordare nella ricerca di un tribalismo sonoro, di una mediterraneizzazione techno – continuasse a veder germogliare i suoi semi generosi. Sono semi che danno vita a piante rigogliose, certo, ma che sanno di futuro, di acciaio, che hanno un sapore ferroso e uno splendore metallico, la superficie liscia, che stillano liquidi densi e scuri.

Da un lato, dunque, la componente del tribalismo così forte, così potente, così ricercata. Dall’altra la presenza quasi ossessiva di atmosfere rarefatte, malinconiche ed evocative di distanze incolmabili. Ecco allora che se da un lato Ojos si apre su bordoni lontani puntellati da colpi costanti di cassa, da un incedere perfetto per la colonna sonora di un film noir e si chiude su una chitarra free, liquida e jazz, dall’altro la successiva Nuit vive di nostalgiche tenerezze e malinconie di note cristalline al pianoforte che ne puntellano la partitura concedendo un primo, necessario, largo respiro.

E il piano in IRA rappresenta una sorta di leitmotiv wagneriano, ma sarebbe più giusto parlare di leitinstrument perché, pur non portando con sé la medesima melodia, ogni suo ingresso segna l’avvicinarsi di un momento di distensione, di una radura di quiete, di una pausa verso il cammino, di un attimo di pace e di armonia.

Prison è dominato all’inizio dalla cadenza di un battito di mani – di prigionieri, di schiavi – che sa di galee, di campi di cotone, di prigioni in angoli sperduti del mondo, che lo fa apparire come uno spiritual elettronico, un’evocazione collettiva che, in progressiva, conduce verso un ossessivo sfondo minimal spaziale fino a che il canto disperato e sincopato non ci accompagna addirittura con il ritmo storto, violento e incrociato della batteria dentro al suono sporco di certo rock americano negli anni migliori della sua indipendenza.

Canzoni come mondi, dunque, come corpi celesti che seguono loro personali e inevitabili traiettorie a far risuonare una sconfinata sinfonia dentro l’immenso Universo che è questo IRA.

Horizon – coi suoi 4.47 minuti tra i brani più brevi del disco – è il parente più prossimo a certe distese aperture armoniche di DIE, con il suo carillon di campanelli e grappoli di accordi che stemperano l’impasto sonoro e non si può dire estraneo nemmeno a certe morbidezze sonore che impreziosivano il sette pollici Novembre, uscito come ricordato prima lo scorso autunno ma scritto ben undici anni fa a dimostrazione che quello di Incani non è mai un percorso che lascia indietro, non è tentativo di cesura col passato ma, piuttosto, elaborazione continua d’intuizioni che si ritrovano nel tempo, acquisendo di volta in volta una direzione nuova e compiuta.

Piel entra in pista col suo ritmo scanzonato, col suo incipit che rappresenta forse il solo momento dell’album che si avvicina a una vaga idea di pop, anzi di elettropop sui generis. Ma è un piccolo fiore che non esclude dalla sua trama sonora modi minori che ne rannuvolano il cielo. Le poche nuvole di Piel esplodono di cieli neri in Prière, con la sua musica da apocalissi per incorniciare paesaggi vulcanici, pietre laviche fredde e immobili a giudicare il tempo e il vuoto, magmi roventi che erompono lenti e maestosi dalle viscere di un pianeta segreto, abbandonato, consumato dai millenni dove si agitano in preda allo smarrimento simulacri di milioni di spettri senza alcuna destinazione, senza tregua, privati di alcuna possibilità di redenzione o di pace. Nel silenzio assordante di trombe di arcangeli muti, inginocchiati ai lati della scena, ridotti inermi a guardare la propria sconfitta, marciano tamburi marziali e un esercito di bambini senza volto e senza forma, come insetti brulicanti sulla superficie della Terra, tra gas mefitici e bolle dense di fuoco e gas.

Niran con l’armonia dei suoi synth rischiara nuovamente il paesaggio, è un brano quasi di transizione, una preparazione di quiete, un’attesa sospesa che conduce alla tessitura tenue di Soldiers, uno dei pochi brani del disco dagli orizzonti distesi, con pochi accordi di piano e la carezza della chitarra acustica, delicato contrappunto alla forza calma dei sintetizzatori.

Fleuve torna a giocare col ritmo, quello dei piatti di Cavina, su cui s’innesta il battito cadenzato di un suono lontano mentre la cantilena molto à la Thom Yorke di Incani soggiace all’intreccio di tamburi tribali e s’insinua nel pattern ossessivo delle voci femminili. Un istantaneo richiamo del piano apre a una selva synth con il suono nuovamente rarefatto e sospeso, mentre sono ancora le bacchette sui piatti a innervare lo scheletro che sorregge questa musica sottile, questo vento di suoni, questa tormenta di sensazioni sulla riva del fiume, questa calma apparente, questo tentativo di dare suono al vuoto.

Un giro accattivante di chitarra folk blues – accarezzata dalle dita di Bruno Germano, ancora una volta produttore del disco insieme a Incani – subito sporcato dai synth e dall’ingresso della voce che si mescola al ritmo costante sullo sfondo, sono il tratto distintivo di Sangre che ancora si muove sul filo sottile che separa e tiene insieme ritmo e lirismo, inquietudine e mistero, il respiro ampio dei bordoni sintetici e la presenza del qui e ora, di pennellate sonore che ancorano al presente, alla terra, all’istante. Un brano caratterizzato da aperture quasi morriconiane, beninteso dopo essere passate per un sabba cupo di matrice zorniana.

Anche in un pezzo come Pétrole, pur dominato da un’ariosità più serena, vi è una sospensione improvvisa che, mantenendo costante una sola nota, getta un’ombra d’inquietudine.

Coi suoi 11.02 minuti – che ne fanno il pezzo più lungo del disco – Hajar è un trip lisergico qui e lì sporcato – e dunque arricchito – di tinte mediorientali. Una sorta di The End contemporanea, allucinante viaggio dentro se stessi ricco di visioni, miraggi, allucinazioni, deragliamenti della mente, vibrazioni del cosmo, sommovimenti dei nervi, palpitazioni del cuore. Grido in cerca di una bocca nel deserto sotto un sole cocente, tremolio di denti, avvolti nelle coperte alla luce delle stelle in attesa di una possibile alba.

A chiudere il cerchio – e il disco tutto – ci pensano i cinque minuti di Cri, ballata malinconica, ninna nanna dall’incedere infantile del mellotron, commiato in forma di marcetta lenta e delicata che progressivamente acquisisce respiro e potenza per poi lasciarsi andare a bordoni che la fanno allontanare, distante, senza una meta, persa nuovamente nello spazio, in un mancato finale etereo e sospeso. E ha ragione allora Jacopo Incani quando afferma che questo disco per sua natura e per la contingenza della pandemia che ne ha ritardato l’uscita e accresciuto l’attesa «può suonare come il rantolo finale di un mondo che non sarà più lo stesso. O, forse, il primo vagito di un mondo totalmente da definire».

Con IRA, dunque, IOSONOUNCANE fa un passo in avanti nella sua evoluzione di compositore e musicista, una nuova rivendicazione di complessità, dicevamo, che non si arrende alla pochezza semantica e lessicale di questi tempi ma che, anzi, riesce ancora una volta a raggiungere un prezioso equilibrio nel tenere insieme istanze fondamentali del passato con una spinta che ne fa certamente un musicista mai sazio e mai domo, costantemente proiettato sul futuro. E fa tutto questo scommettendo nuovamente, come del resto aveva scommesso con DIE. Se lì la cifra più evidente era stata quella di un eccezionale lavoro di sintesi, qui Incani si muove in una direzione non opposta ma certamente diversa lasciando avvolgere le sue idee da una musica più libera e più complessa che rinuncia all’idea di una forma finita per consegnarsi a una sorta di – bellissima – smarginatura musicale.

Un disco, IRA, che conferma Jacopo Incani non solo come il nome di punta – e per distacco – della scena italiana ma che lo colloca ormai tra i migliori nomi dell’intera scena internazionale.

Tutte le foto sono di Silvia Cesari


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