È passato un anno dall’uscita di DIE, secondo lavoro di studio del trentatreenne sardo Jacopo Incani. Osannata dalla critica e ben accolta dal pubblico, la suite divisa in sei movimenti è ancora oggi per molti aspetti un oggetto misterioso nel panorama della musica contemporanea italiana. Complice una serata a Napoli, tappa del Mandria Tour, il primo dall’uscita del disco che vede Incani accompagnato da una band di quattro elementi, abbiamo provato a raccontare l’onda lunga di un lavoro la cui portata e il cui impatto sono talmente forti da non essere ancora stati del tutto assimilati.
Raccontare Incani, e raccontare DIE significa partire da lontano, e narrare una storia che occupa ben cinque anni, quelli che passano tra La macarena su Roma del 2010 e appunto il suo disco successivo. Schivo, riservato, fin dagli esordi autore di un progetto musicale che subito si era fatto notare per una precisa personalità, con il primo disco Incani aveva realizzato a un lavoro ancora non del tutto definito, non nei temi, precisi e pungenti, ma nelle scelte musicali e soprattutto di canto che facevano de La macarena su Roma un disco fortemente aggrappato alle liriche, a un mondo molto verboso al limite del logorroico, con brani che prendevano spunto da episodi di attualità, anticipando poi un filone piuttosto redditizio, una specie di musica sociale diversissima però nello stile e nelle intenzioni da quelle del suo progenitore. La voce, elemento chiave, in un disco messo in piedi come una specie di cinico rotocalco giornalistico appariva tagliente, aspra, assolutamente poco naturale. Si fecero, e non a caso, i nomi di Lucio Dalla, nella sua versione lontana da una certa pesantezza degli ultimi anni, più vicina a quella degli inizi quando il giovane cantautore bolognese cercava una sua personalissima strada che partendo da una particolare radice soul all’italiana pian piano si apriva allo scat, a quella commistione tra ironia e disincanto e un attaccamento ugualmente significativo sia alle radici jazzistiche sia alla melodia italiana.
Cinque anni sono tanti, lo erano in passato e lo sono ancora di più oggi, epoca di continua condivisione e di costante presenza, dove l’assenza, in mancanza di originalità e di un pubblico più attento e consapevole delle proprie scelte, rischia di consegnare facilmente all’oblio.
Quando un anno fa uscì DIE bastava già avere tra le mani l’artwork del disco, un essere umano, un uomo, una donna, disteso in lontananza sotto il sole, tra una sabbia giallognola e un cielo verde mare, e quel titolo così ambiguo, scritto in rosso in caratteri imponenti, DIE, morire in inglese ma anche giorno in sardo. Il retro, con un rosso cupo su cui, cubitali scorrevano come in una vecchia costruzione di pietra i titoli dei sei movimenti: Tanca, Stormi, Buio, Carne, Paesaggio, Mandria. In un attimo, con un semplice sguardo era possibile abbracciare il disegno (in realtà una fotografia della bravissima Silvia Cesari autrice anche dello scatto della nostra copertina) e con esso la suggestione di un mondo arcaico fatto di natura, uomini e animali che vagano tra terra e cielo. Prendere il cd, metterlo in un lettore e sentirlo partire ha significato per chiunque ne è venuto a contatto ritrovarsi in un mondo lontano: un canto a tenore sardo, voci di animali, percussioni profonde, l’elettronica che si fa spazio in mezzo a qualcosa che assomiglia a una folla, a un rito pagano, è giorno, è notte, sono persone o animali, cos’è il rumore di ferraglia che ci attanaglia, cos’è questo senso di sete, di scuro, di angoscia che ci prende? Dov’è il suono rassicurante di un certo pop, di un certo modo di fare musica, di scrivere la musica che quasi ti sfiora solo e passa via? Cos’è questa traccia lenta e scura che sembra lasciare questa musica che sale, cresce, si fa techno, questo batter di mani? Ci vogliono tre minuti perché la voce di Incani si presenti all’ascolto, ma è voce lontana che si fa strumento, che ha dignità di strumento dove gli strumenti per riflesso hanno dignità di voce. Cos’è questo lavoro, cosa sta dicendo tra decine e decine di tracce che si sovrappongono? C’è una chitarra da qualche parte, com’è costruito lo strano oggetto che gira dentro il nostro lettore? Non riusciamo a cogliere tutto di questo testo: rive, sole, scogli, c’è il mare allora? Fame, pietra, morte, falce, dolore. Il cielo è svuotato, le cime bruciate.
Ora lo sappiamo, sappiamo cosa raccontava quel disco. Perché ci siamo messi lì ad ascoltarlo con più attenzione dopo lo stordimento iniziale, dopo questa specie di rivelazione, una sensazione quasi fisica di essere davanti a qualcosa di unico, di diverso. DIE alla fine è il racconto per due voci di una distanza, l’incubo a occhi aperti di un uomo e una donna. L’uno forse è in mare, l’altra sulla terra ferma. L’uno forse sta annegando, l’altra vede le nuvole addensarsi all’orizzonte e un freddo la invade. L’uno forse sta solo temendo di fare la fine di tanti altri, l’altra non riesce a staccare la mente dall’idea di perderlo, lontano.
Se DIE è parente di quel disco spigoloso e asciutto che era La macarena, lo è come di un parente che è cresciuto, che ha viaggiato, è tornato ed è ormai elemento quasi esterno alla famiglia. È un disco che recupera semmai gli esordi di Incani negli Adharma. È soprattutto il frutto di un lavoro maniacale e ossessivo che ha inizio con il ritorno a casa, una Sardegna come Itaca (Incani ha vissuto alcuni anni a Bologna) e, come in un personale lessico familiare, si fa recupero, cesto di vimini, mani giunte a raccogliere e ad accogliere i frutti di un’esperienza di ascolti multiformi e variegati, di accumulo prima, e poi di una selezione che assomiglia a una trebbiatura in mezzo alle campagne.
DIE è la morte di un musicista strimpellatore che cambia pelle e si mostra in maniera splendente, abbacinante come lo è il sole che brucia la pelle ai pescatori al largo, rinascendo come compositore e arrangiatore sopraffino di là da qualsiasi etichetta.
Che DIE sia prima di tutto una composizione che un disco in senso classico lo dimostra il tour successivo che ha visto Incani portare in giro DIE sulle sue sole spalle e mostrando, al di sotto di un lavoro che in alcuni passaggi e prima dell’ingresso salvifico di Bruno Germano, era arrivato a contare anche centinaia di tracce, una struttura incredibilmente solida e funzionante anche con l’ausilio di una sola chitarra.
Libertà e ortodossia, questi appaiono i due tratti fondanti del nuovo corso di Incani. Un processo naturale nei fatti che nasce da un’idea precisissima di disco ma che passa prima per un lavoro quasi di archivio, di raccolta del materiale, di diversi tessuti sonori, attraverso il lavoro di conoscenti e amici (val la pena di segnalare almeno Mariano Congia, Alek Hidell e Paolo Angeli) quindi per un’elaborata nei tempi quanto immediata nel risultato, sintesi. Perché quello che colpisce fin da subito e, dato molto più importante, colpisce oggi ancora, a distanza di un anno e d’innumerevoli ascolti, è questa perfezione formale e sostanziale che coniuga una ricerca d’avanguardia sul linguaggio (musicale prima ancora che lessicale) e contemporaneamente è capace di tenere una serie di elementi sonori sotto controllo ma sempre a un passo dall’esplosione, con una resa che pur nella sua complessità e modernità assume su di sé le qualità tipiche del classico. Tra sampler, chitarre acustiche, canti femminili, fiati, tocchi percussivi che si fanno ora leggeri ora profondamente sinistri, emerge una voce che abbandona quel tono un po’ monocorde che l’aveva ascritto a una schiatta di cantautori a rischio di anonimato e che qui invece si fa ora carezza, ora grido disperato, sfruttando un’estensione naturale notevole mai fine a se stessa ma che nelle diverse modulazioni veste di diverse sfumature ogni parola che pronuncia e che si ripete nell’arco dei quaranta minuti.
DIE è il frutto di una mente apertissima. Di ascolti di un ragazzo che ha attraversato per sua stessa ammissione quella stretta cerchia di dischi pop di trasfigurazione da Pet Sounds dei Beach Boys, passando per i Beatles fino a Rock Bottom di Robert Wyatt (ascoltare l’influenza di pezzi come Little Red Riding Hood Hit the Road e Alife) capaci di grandi e innovative soluzioni musicali ma restando sempre nei territori della musica popolare. Un disco che inevitabilmente, e forse suo malgrado, è facile accostare in Italia a pietre miliari quali Anima Latina di Lucio Battisti (con quella chitarra e quell’idea di lavoro è un paragone inevitabile) ma anche al De André di Crêuza de mä cui lo accumuna non solo il recupero di una certa idea di musica coniugata in chiave postmoderna ma soprattutto il lavoro sul linguaggio, questa spaventosa quanto necessaria scelta politica precisissima di abbandonare il linguaggio di attualità per una lingua antica che lì sfociava nel dialetto genovese e qui si fa lingua semplice e potente, quasi sciamanica, una lingua impastata di terra, di fatica, di un orizzonte che non è quello opprimente della città ma di un paesaggio capace di raccogliere il mare e la terra (e superfluo sarebbe addentrarsi nel rapporto profondissimo tra De André e la Sardegna).
Se aggiungiamo che il suo stesso nome d’arte è un omaggio a una canzone di Tenco si ha tutto per la costruzione di un pantheon di ascendenze quanto mai nobili ma è solo un di più, un tributo per un musicista, compositore e arrangiatore che è un autore proprio perché capace di prendere da diverse fonti ma costruendo una voce stilistica assolutamente personale e unica in un panorama che non si ferma solo ai confini italiani.
Ecco che Incani sembra nella sua unicità entrare a buon diritto nel discreto novero di quegli artisti italiani, tutti nella decade dei trenta che stanno (senza legami tra loro) cercando e battendo nuove strade attraverso un ritorno non solo all’essenzialità quanto proprio alla materialità delle cose: il cineasta casertano Pietro Marcello e il suo bellissimo Bella e Perduta, gli scrittori pugliesi Lagioia e Funetta con La Ferocia e Dalle Rovine, tutti autori capaci di guardare al paese non attraverso l’ormai logoro e abusato canovaccio di una certa scrittura d’impegno da sinistra borghese, ma con una fortissima carica sovversiva capace di mescolare il nuovo con la tradizione, l’arcaico con il futuro, e che non a caso danno voce a bestie, bufalotti, grossi sorci notturni, serpenti, buoi e che sono in grado di aprire squarci spaventosi sull’Italia certamente ma soprattutto sulla condizione umana in generale slegandola dall’analisi sociale per portarla, finalmente libera, in territori splendidi di bellezza riflessa come da un rigagnolo marcio ma che si solleva e ci solleva nell’incanto che una parola, un suono, una voce sono in grado di dare a chi produce tutto questo e a chi dall’altra parte può berne dissetandosi sotto il sole di mezzogiorno come in una notte che sembra non avere fine.
La data del Mandria Tour che ha visto Incani e la sua band esibirsi al Lanificio 25 di Napoli non solo ha confermato quanto di buono sentito e visto fin qua, ma ha offerto se possibile ancora ulteriori spunti.
Se non ha convinto del tutto la scelta di spezzare DIE alternando anche brani de La Macarena su Roma è innegabile il lavoro altissimo fatto proprio per portare in un locale gremito fino all’orlo (e va segnalato, purtroppo in quest’occasione, da un pubblico non sempre capace di assistere come si dovrebbe a opere di questo livello) una versione fedele e diversa allo stesso tempo dei vari brani. Con una sezione ritmica potentissima affidata a un eccellente Simone Cavina, è venuto fuori un ulteriore lato di Incani, quello del performer di razza. Al lato del palco, a dimostrazione ancora una volta di una concezione musicale che passa per il dialogo e non per una voce solitaria, Incani ha infiammato la folla dando sfogo alla molteplicità della sua proposta musicale, sfidando in un certo qual modo il pubblico a seguirlo e a essere dalla sua parte. Dal tribalismo quasi esoterico alla techno più pura ma suonata, appunto, da un ensemble (per quanto ovviamente ricchissimo di elettronica ed effetti) fino alle note più intime cantautorali di Giugno e la violenza quasi industrial di alcuni passaggi.
Dicevamo libertà e ortodossia di un autore che si è appoggiato all’elettronica più per comodità che per una precisa scelta ma che partendo poi da una scelta l’ha seguita in maniera fedelissima, fregandosene dell’apparire, di non lasciar sfocare la sua immagine, che ha la coerenza e il coraggio di annunciare un disco nuovo non prima di tre anni, perché prima di tutto conta la fedeltà all’opera e a se stessi. Ma che nello stesso tempo, attraverso un meccanismo di coerenza interna, è in grado di lavorare intorno e dentro le sue stesse composizioni, come un progetto da sezionare, un’architettura pensata fino ai minimi particolari e proprio per questo talmente solida da poter essere raccontata attraverso narrazioni diverse che ne mettano in luce tutte le potenzialità, i segreti, come un alchimista con la sua materia e i suoi testi esoterici.
Potremmo sbagliarci ma davvero IOSONOUNCANE è, dopo tanti anni, il primo punto fermo su cui costruire il futuro di una nuova radiosa musica italiana.