Non so se avete presente chi sia IOSONOUNCANE.
Se avete seguito le pagine di questa webzine, saprete di certo che è l’autore di Die, un disco fenomenale che finirà sicuramente ai primi posti nella classifica di fine anno dei dischi italiani.
Personalmente è il disco che ho preferito in assoluto quest’anno.
Con tutte queste belle premesse potrete immaginare l’enorme frustrazione del sottoscritto nel non essere stato in grado di vederlo dal vivo neanche una volta. Un paio di volte ci sono andato anche vicino, ma niente.
Così non me lo sono fatto dire due volte quando ho saputo che avrebbe suonato a Salerno per la prima data del Festival Precario. Lì per lì non mi ero neanche accorto che sarebbe stato in acustico.
In acustico???
Ma non era lui che diceva di non essere interessato all’immagine di cantautore, chitarre e testi impegnati?
Uno che ha fatto della ricerca e della stratificazione dei suoni la cifra dell’ultimo lavoro, che decide di abbandonare tutto l’universo sonoro riuscito a creare campionando e limando all’inverosimile. E i tenores sardi come avrà deciso di sostituirli?
Insomma a curiosità si sommavano curiosità ed è stato così che mi sono messo in macchina noncurante degli annunci allarmati per il traffico apocalittico a causa di una delle più ingombranti eredità del sindaco De Luca nella città di Salerno (le faraoniche luminarie di Natale inaugurate il giorno precedente) e mi sono diretto al Piccolo Teatro del Giullare.
Per la cronaca non ho mai trovato le strade di Salerno così vuote.
Il parcheggio proprio di fronte al teatro.
Un amico è riuscito a trovarmi gli ultimi due biglietti prima che andasse sold out (Grazie Giuseppe!!!).
Insomma la serata inizia con il piede giusto.
Il posto è un teatro minuscolo, un bel palco con una settantina di poltrone poste in una sala in cui entra poco altro. Il colpo d’occhio iniziale è bellino, anche se ammetto che all’inizio della serata, quando gli organizzatori hanno iniziato a parlare di precarietà, con tanto di intervento di un professore di sociologia, la posizione costretta ha causato qualche disagio, come pure la prima noiosa esibizione.
Le cose cambiano in maniera sostanziale quando sul palco arriva un ragazzone con la camicia a quadri, il berretto con la visiera alzata ed una Epiphone semiacustica al collo. Si tratta di Wrongonyou, che per una mezz’ora circa, solo alle prese con chitarra, ukulele e vocoder, dà un ottimo spettacolo con la sua musica, un folk a metà strada tra Bon Iver tra e l’Eddie Vedder di Into the wild.
Però le poltrone oramai stanno proprio strette e il tempo che ci separa dall’evento principale, lo sfruttiamo per correre al bar all’angolo a prendere delle birre.
Si torna dentro e giusto il tempo per trovare un posto sui cuscini in prima fila (posizione di gran lunga più comoda) ecco che Jacopo Incani con Serena Locci (è lei che ha cantato tutte le voci femminili in Die), compaiono su un palco scarno, dove sono presenti solo sei lampadine.
Sin dalla iniziale Tanca appare chiara (se ce ne fosse stato il bisogno) una cosa: con le parole Incani ci sa fare e come!
Sebbene dopo La Macarena su Roma, il nostro abbia rifuggito quell’etichetta precostituita che gli era stata affibiata di cantautore impegnato, lavorando per quattro anni ad un disco (bellissimo) in cui la sua voce fosse solo uno dei tanti strati sonori utilizzati, non il principale, il fatto di ritrovarsi sul palco con una chitarra acustica, un microfono e la “sola” controvoce della cugina (come fosse poco) ha fatto emergere che i pezzi, tanto del disco nuovo, quanto del disco vecchio, siano anzitutto bellissime canzoni. Canzoni che in studio vengono completate da altri suoni, aggiunti con un sapiente lavoro di ricerca e stratificazione, ma che reggono benissimo anche se cantate da due voci accompagnate da una sola chitarra che si incontrano su un palco buio rischiarato solo da sei lampadine.
E così, tanto le canzoni di Die, quanto quelle de La Macarena su Roma (Il corpo del reato e Giugno con qui ha concluso il concerto, sono stati tra i momenti che mi sono piaciuti di più dell’intero spettacolo), quanto le due cover (l’allergia di Incani per le etichette si nota anche da un mezzo siparietto che si crea quando non vuole utilizzare questo termine, definendole semplicemente “canzoni di altri, insomma che non ho scritto io“) Vedrai, Vedrai, prima, e Il cucciolo Alfredo dopo, offrono al pubblico un’ulteriore sfaccettatura del progetto IOSONOUNCANE (perchè prima erano poche..) semplicemente offrendone un ascolto diverso. Ascolto che ha tenuto il pubblico imbambolato (si è visto anche qualcuno che cantava tra sè e sè) fino alla fine, anche se ciascuno stretto nelle sue poltroncine in una sala strapiena.
Alla fine mi sono ulteriormente convinto del fatto che Iosonouncane abbia scritto il più bel disco italiano di quest’anno!