«Il mio nuovo disco esce il 30 marzo.»
Così aveva deciso di annunciare il suo ritorno Iosonouncane, dopo cinque anni di quasi completo silenzio.
Un post su facebook piuttosto in sordina rispetto al tono di molti altri suoi colleghi italiani che non è però passato inosservato a chi rimase folgorato dal suo debutto. Ed è proprio questo suo mood scarno e diretto anche nelle comunicazioni con i fan che caratterizza questo cantautore sardo. Se ne frega completamente dell’hype, della social media cosa, o degli schemi in genere.
In questi cinque anni che intercorrono tra La macarena su Roma (Trovarobato; 2010) e Die (Trovarobato; 2010) la situazione della musica non si è stravolta, forse neanche evoluta, ma sicuramente qualcosa di cambiato c’è. Mettici la rivoluzione digitale, mettici l’avanzata dello streaming pari a quella dell’Isis, ma mettici anche che la maggior parte di tutti gli artisti usciti tra il 2009 e il 2011 che appartengono a quella bestemmia culturale che è il termine “panorama indie italiano” ad oggi non ci regalano più lo stesso entusiasmo del tempo.
Alcuni si annoiano, alcuni vanno in giro per l’Europa e altri fanno dischi dove ormai si autocitano.
Di chi però in questi cinque anni non ci si può assolutamente dimenticare è proprio Iosonouncane.
Iosonouncane che con la sua Il corpo del reato ruggita al microfono davanti alla giuria del premio Tenco devasta tutti, si aggiudica la finale, non vince (vince Cristiano Angelini, e difatti oggi non ci ricordiamo neanche chi sia) ma si incorona senza spocchia come artista italiano tra i più originali e autentici.
In questi giorni Jacopo Incani torna pubblicando il secondo album, DIE, che ci ricorda non solo che è rimasto bravo ma che in cinque anni si è impegnato a crescere ancora, «corpo vivo tra gli alberi» (cit. dalla straordinaria Stormi).
DIE ci riporta alla tradizione della canzone italiana, quella di Dalla e Battiato, quella del vento tra i capelli, il profumo del mare e dei sentimenti nuevi. Ci parla di mare sì, ma ci parla di un mare dove due persone stanno affogando: uno è lì lì per non farcela mentre dalla costa una donna affoga nelle lacrime vedendo la burrasca attingersi a devastare lo scenario. Ma questo in fondo non è importante, ognuno può vederci ciò che vuole in questo groviglio di suoni che ci trascinano a forza sopra i nuraghi sardi, attraverso filicorni amalgamati con la techno e ritmi concitati segnati da percussioni aggressive e beat elettronici.
«Ancora vive negli occhi le correnti del mattino che riprendono il mare.»
L’atmosfera apocalittica presentata dal primo singolo estratto Tanca, svanisce giusto per i quattro minuti della seconda ma riprende subito con Buio, che ci fa subito reimmergere nel mare di campionamenti, chitarre e chissà cos’altro.
Vi svelo l’inizio, di questo disco, ma non la fine. Perché DIE è un racconto che va letto tutto d’un fiato, lasciandosi trasportare climax dopo climax. Die è uno di quei libri che durano 200 pagine ma che non puoi fare a meno di continuare a leggere, di quelli per cui ci rimetti la nottata e le occhiaie la mattina dopo.
Non è un Fratelli Karamazov, ma un racconto di Carver.
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