È rarissimo che rida per un film o per un libro. Magari mi scappa un sorrisetto, posso sbuffare, ma non succede molto altro. Così, quando mi è stato consigliato di leggere Niente di vero di Veronica Raimo, Einaudi 2022, e quando l’amica che me ne ha parlato mi ha detto “fa anche ridere” ho deciso di farlo, di leggerlo, con una certa dose di scetticismo addosso. Com’è ovvio, l’amica aveva ragione: Niente di vero fa anche ridere. Ed è in quell’”anche” che bisogna andare a scavare, perché l’ultimo romanzo di Raimo non solo più volte mi ha strappato una risata ma mi ha anche fatto avvertire tutta una gamma di sensazioni che, a lettura conclusa, mi ha fatto dire “quanto vorrei conoscerla, l’autrice” – un po’ alla maniera di Salinger. Sopraffazione e affetto, rimpianto e desiderio, paura e speranza. No, non fa solo ridere, l’ultimo lavoro di Raimo.
Niente di vero è un romanzo onesto in modo strabiliante. La sua protagonista è autentica. La sua storia è, allo stesso tempo, una vicenda di vita comune e una guerra epica. La sua scrittura è solida ma nient’affatto dura. È l’autobiografia di Raimo, dall’infanzia all’adultità – tra una famiglia troppo presente e amicizie che finiscono, tra relazioni amorose che naufragano e viaggi in giro per l’Europa. La voce di Raimo è originale e vera, e il panorama italiano ne aveva un gran bisogno.
Comincerei dal titolo, Niente di vero: com’è nato?
Il titolo di lavorazione, a cui ero anche affezionata, in realtà era un altro: L’età dell’impostura. In casa Einaudi però erano un po’ scettici, a loro sembrava tradisse il registro del libro. Lo credevano troppo letterario, per certi versi pretenzioso. Per me invece era parodico, avevo l’impressione lavorasse bene in questo senso. Niente di vero è arrivato per caso. Rimpallavo idee di titolo con Marco Rossari, e l’idea è venuta a lui – in realtà, stavamo cazzeggiando ed è venuto fuori quasi per scherzo. A me all’inizio convinceva poco, sia per il gioco di parole con il mio nome – Niente di vero, niente di Veronica – sia perché non lo sentivo adatto. Poi ci ho dormito su, l’ho proposto a Einaudi e a loro è piaciuto.
Quando mi sono trovato davanti al titolo per la prima volta, senza sapere ovviamente nulla di quanto mi hai appena detto, ho pensato alludesse al fatto che ognuno abbia le proprie verità aldilà della realtà comune. Ero lontano?
Non saprei, forse no. Il punto è che dubito possa esistere un’autobiografia oggettiva. Il resoconto di sé è, per forza di cose, un racconto manipolato.
Manipoliamo la nostra storia coscientemente?
Sì e no. Da una parte c’è quel che decidiamo di raccontare, che scegliamo di riportare. Dall’altra c’è l’abilità della memoria di andare a ripescare i ricordi. Siamo soggetti alla nostra stessa interpretazione, e l’idea che esista una realtà di ciò che siamo mi sembra fallace. Non la si può raggiungere anche con gli esperimenti sociologici, in fondo. Quando si cerca di capire il funzionamento di una mente, è pure normale che l’esperimento sia condizionato dal setting, da chi somministra il test e da tanti altri fattori.
C’è, nel raccontare la propria storia, un lavoro di taglia e cuci della memoria. E alla fine viene fuori una sorta di patchwork in cui dentro finiscono alcuni pezzi e fuori ne rimangono altri. Il filo con cui cuciamo tutto assieme, forse, è quello della fantasia. Secondo te cosa teniamo e cosa lasciamo fuori?
Da giovane, fino a una decina di anni fa, ricordavo davvero tutto. Ero ossessionata dal ricordare anche i particolari più stupidi. Avevo una memoria visiva e ricordavo cosa indossasse la gente, com’era la luce, cosa si era mangiato. Poi il mio cervello si sarà stancato di avere dentro tutte queste informazioni inutili e ha deciso di lasciare il posto ad altro. Ho cominciato a perdere alcuni ricordi, ma non so cosa lasci fuori. Non penso ci sia una gerarchia sensata, è qualcosa di arbitrario. Ho notato, tra l’altro, che a cambiare è stata soprattutto la capacità di mettere in ordine cronologico gli eventi; non so se dipenda dalla pandemia, ma succedeva già prima. E questo in qualche modo falsa anche le emozioni: se pensi che un evento sia più lontano della realtà la tua percezione cambia. Non so dire cosa lasciamo fuori e cosa mettiamo dentro, quando ci ricostruiamo, ma un lavoro, in tal senso, c’è di sicuro.
La famiglia nel tuo romanzo ha un ruolo importante, è quasi centrale. E, in una chiacchierata con una sua amica, la tua personaggia si chiede perché tutti i romanzi italiani parlino dei legami famigliari. Nel libro una risposta la dai, te la dai, ma voglio chiedertelo pure adesso: perché tutti i romanzi italiani parlano dei legami famigliari?
Una risposta, netta e definitiva, non ce l’ho – come potrei? Penso dipenda da tanti fattori, comunque. Sicuramente un po’ è dovuto al fatto che in Italia la famiglia è davvero molto presente e predominante nella vita di ciascuno. La figura della madre italiana è talmente forte da essere ormai uno stereotipo. Quella del padre, in un certo qual modo, pure – in letteratura la stanza del padre è una presenza certa. Altre spiegazioni non saprei darle, temo. Pure durante la conversazione a cui ti riferisci, parlavo con una mia amica – anche lei è una scrittrice -, una risposta vera e propria mica l’abbiamo trovata.
È vero che tua madre questo tuo ultimo romanzo non l’ha letto?
No, non ancora. Mi ha detto che sta spigolando le recensioni nel tentativo di capire delle cose. Penso voglia capire quanto le possa far male.
Ancora sulla famiglia. Nel romanzo, la tua protagonista dice che scriviamo per inventare lutti. È davvero così, secondo te? Non lo facciamo per esorcizzarli o, magari, per prepararci?
Sembra una frase a effetto, ma giuro che non lo è. Semplicemente, ci credo. Capita che scrivendo si raccontino delle cose, accadimenti o persone, che in qualche modo ci riguardano da vicino. Ecco, in quei casi sulla pagina bianca mettiamo una crudezza e una suggestività diversa da quelle provate nella realtà. A proposito del lutto, ad esempio. Nel mio primo romanzo ho anche parlato della morte di un padre, ma il mio era ancora vivo – la dipartita di un genitore non l’avevo ancora vissuta. Eppure, nello scrivere quel libro ho sentito qualcosa di strano, come se in quelle pagine ci fosse un ché di profetico. In quest’ultimo romanzo il lutto di un padre lo affronto ma è stato meno doloroso, nonostante intanto abbia perso il mio. È come se lo avessi vissuto in maniera più intensa, vivida e cruda, quando era solo una finzione letteraria.
Non credi possa dipendere dal fatto che scriviamo di ciò di cui abbiamo paura – affrontandole, queste paure – in una dimensione che per noi è reale, mentre quando scriviamo di un male già vissuto non ne abbiamo più paura perché ormai l’abbiamo affrontato?
Sì, probabilmente è così. E poi, quando scriviamo tendiamo ad alzare la temperatura del racconto in modo forse esagerato. Quantomeno, per me funziona così. Mentre nella vita reale tendiamo, spesso e non sempre, a raffreddare la vita attorno a noi – appunto, per paura di soffrire.
Rimanendo su certe frasi del libro: è vero che odi Piccole donne?
Ride – ndr. Non è che lo odio, non l’ho mai amato e continuo a non apprezzarlo come tantissimi altri, tutto qui. Di recente ho tradotto un saggio di Ursula Le Guin in cui c’erano dei pezzi, anche piuttosto lunghi, di Piccole donne. Così ho deciso di rileggerlo e… non saprei.
Non sapresti?
Senti, io lo trovo un libro abbastanza scadente. Che devo dirti? È un romanzo minore, secondo me. E sì, capisco l’importanza ideologica e tutto quello che ne viene, ma non è un bel libro – a mio modesto parere, s’intende, che sennò vengo fulminata! – ride, ndr.
Ci sono due episodi che mi hanno colpito particolarmente. Il primo è quello che ha a che vedere con zio Uccio, quando mostra il pene alla tua protagonista. Il secondo è quello in cui i tuoi zii, trovati dei ragazzi in fin di vita – in fondo a un burrone, dopo un incidente d’auto -, scappano e non li aiutano. Ho provato rabbia, leggendo queste scene, e mi sono trovato a chiedermi perché la tua personaggia non abbia reagito allo stesso modo.
Ero troppo piccola, praticamente una bambina, per reagire con rabbia. Ero troppo piccola anche solo per comprendere sul serio cosa stesse accadendo. La rabbia è arrivata, come no, ma anni dopo, quando ero un’adulta. Il fatto è che ero con la mia famiglia in entrambi i casi, questo deve aver complicato le cose per forza. Voglio dire, se tuo zio ti mostra il pisello in bagno tu, bambina, ti dici che lo può fare non solo perché è un uomo ma anche perché è tuo zio. E bene o male credo valga lo stesso principio per quel che è successo in strada, quando i miei zii sono risaliti in auto e hanno abbandonato i ragazzi lì, nonostante fossero chiaramente feriti: ero una bambina, se gli adulti mi dicevano una cosa pensavo fosse la più giusta. Funziona così per tutti, immagino, no?
La rabbia, però, hai detto che è arrivata dopo, da adulta.
Be’ sì, direi di sì. Che fosse sbagliato quello che stava succedendo lo capivo già, ma nel modo un po’ confuso dei ragazzini. Solo dopo anni, quando ho capito quanto fosse sbagliato e violento e che razza di forma di prevaricazione fosse quella che avevano usato, ho sentito la rabbia.
C’è un po’ di Pirandello nel tuo romanzo? Mi riferisco sia alla famiglia, sia al binomio verità e realtà – sono pezzi che a Pirandello erano cari.
Pirandello era una grande fissa sia di mia madre sia di mio padre, in effetti. Quindi, in qualche modo, forse mi è un po’ rimasto dentro, non è una lettura recente però, risale alla scuola. E poi, chissà, i miei magari amavano Pirandello perché si rendevano conto di essere tanto assurdi loro stessi.
Ultima domanda: cos’è la famiglia?
Ride – ndr. Io, in realtà, sarei molto felice se questa parole venisse proprio abolita dal vocabolario. Se non la si potesse più usare e fossimo liberi, finalmente, di ridefinire i legami e gli affetti e i rapporti in modi più liberi e meno costringenti. Tutto qui.