Anja Franziska Plaschg, un nome una fatica, è all’anagrafe chi si cela dietro lo pseudonimo di Soap&Skin, giovane cantautrice austriaca che abbiamo imparato ad apprezzare, a tempi impari, nel corso degli ultimi dieci anni. Appena diciottenne, ha debuttato nel 2009 con Lovetune For Vacuum, album fortemente caratterizzante che l’ha portata subito ad inserirsi tra i nomi più interessanti della fazione del chamber/darkwave/art pop. Qualche anno dopo, nel 2012, si è riconfermata artista di buon calibro e di scrittura peculiare con Narrow, in cui l’insostituibile presenza del pianoforte viene accompagnata da incisioni semi-industrial ed elettroniche, portando alla luce canzoni ricche di contenuto (anche emotivo) in linea con la produzione precedente.
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Sei anni dopo, Soap&Skin torna con un nuovo album: From Gas to Solid/You Are My Friend (Play It Again Sam, 2018). Basta poco per rendersi conto di come, nonostante il mood sia sempre riconoscibile, le fibre e la trama di quest’ultimo lavoro siano molto diverse dai dischi che lo precedono. Se in Lovetune For Vacuum e Narrow era lampante, in musica e in parole, la disperazione incontenibile di un animo sensibile tormentato dalle perplessità della vita, in questo nuovo lavoro la Plaschg sembra aver risolto le tempeste interiori e, soprattutto, individuali per raccontare il viaggio dal “dentro” al “fuori”, dall’io alla collettività, dal gas al solido.
Qualche giorno fa l’ho chiamata su Skype per parlare di quest’ultimo progetto. Lei ha scelto di non farsi vedere, così ho dovuto fare i conti con le mie espressioni sgranate e imbarazzate mentre cercavo di indagare sullo sfondo nero le ragioni di un disco così delicato e, in parte, forse, contenuto.
D: La prima domanda che vorrei farti riguarda il vero e proprio inizio: il titolo. From Gas to Solid: da quale gas a quale solido?
Mi sembrava una buona descrizione del processo di portare qualcosa dallo stato di inconsapevolezza a quello di consapevolezza, un po’ come far nascere qualcosa che viveva solo nella tua testa, credo. È davvero tanto tempo che non parlo di questo argomento… Tu che idea ti sei fatta del titolo?
Io? Ecco, non me l’aspettavo… Ho pensato che potesse trattarsi dell’essere in qualche luogo astratto, senza sapere esattamente dove – come in una “situazione gassosa”, appunto – dove fluttui e, ad un certo punto, diventi qualcosa.
Esatto, è una descrizione molto precisa di questo processo.
Quindi hai trovato qualcosa di solido?
Beh, all’inizio, quando ho cominciato a scrivere questo album, stavo vivendo un momento particolarmente buio e caotico, ma le cose che sono arrivate subito dopo mi hanno aiutata a rimettere i pezzi insieme e ad andare avanti. Quindi direi di sì.
Riguardo la seconda metà del titolo, You Are My Friend: chi è tuo amico? Solo chi ascolta o anche qualcun altro?
Sicuramente è la persona che ascolta. E poi From Gas to Solid non era abbastanza per me per descrivere il processo di cui ti parlavo. Volevo mostrare una vera e propria riconoscenza nei suoi confronti [del processo] e chiamarlo “mio amico”.
Nei video dei singoli estratti dall’album, Italy/(This is) Water e Heal, sembra avere un ruolo centrale l’immagine di rocce appuntite, spezzate che hanno acqua al loro interno: che significato ha questa immagine? Se ne ha…
C’è sempre un significato. Personalmente, adoro lavorare attraverso simboli e simbolismi e tutto, per me, dal momento in cui mi sveglio in poi, ha un significato preciso. In particolare, era importante per me la presenza dell’acqua, anche sulla copertina del disco, perché è fonte di vita e perché ha un carattere assolutamente femminile.
E le rocce?
Sono l’opposto dell’acqua.
Credo che tu usi un linguaggio molto concreto per parlare sia del tuo mondo sia del mondo esterno: come descriveresti la relazione tra le tue parole, la tua musica e il mondo materiale o naturale che ci circonda?
Non ci penso mai, davvero. Il fatto è che… Beh, cerco sempre di completare quello che non riesco a dire a parole con la musica e gli strumenti. Penso di avere molto di più da dire lì che non con le parole.
Quindi come costruisci la tua musica? Dove risiede il punto d’incontro tra la solennità della musica classica, che hai studiato a lungo, e l’irregolarità e l’eccentricità della musica elettronica?
Il linguaggio della musica classica non mi soddisfa, credo sia piuttosto limitato. E io stessa mi sento limitata quando lavoro con quel tipo di musica. Per questo quello che cerco di fare nel processo creativo è spezzare quei limiti con altri linguaggi, come quello della musica elettronica.
Se non avessi la possibilità di esprimerti attraverso la musica, come faresti?
Come ti dicevo, sicuramente parole e discorsi non sono la mia cosa, non mi sento molto dotata nella narrazione. Ragiono molto di più per immagini e questo è anche il motivo per cui, in generale, la copertina del disco e le immagini che accompagnano le canzoni sono così importanti per me.
Dopo l’uscita di Narrow, avevi dichiarato di sapere già che la tua musica sarebbe stata diversa da quel momento in poi e che alcune “porte” si sarebbero aperte con i lavori che sarebbero venuti: è andata così? Quali porte si sono aperte?
È vero, è proprio quello che ho detto. In realtà, non ero ancora sicura se avrei fatto un altro album o meno, ad un certo punto era come se ne avessi perso il senso. Avevo solo voglia di vivere altri spazi della vita: sono diventata madre, ho sperimentato il lavoro con il teatro, con il cinema, con le colonne sonore. E poi, ad un certo punto, è successo qualcosa di esistenziale che mi ha cambiato la vita. Ho lasciato perdere alcuni rapporti e mi sono dovuta rimettere in sesto, ridefinendomi da capo. E a quel punto mi è stato chiaro: era arrivata l’ora di fare un nuovo album.
Volevo farti delle domande su alcuni pezzi del disco, a partire dal primo, This Day: all’interno del testo, dici che vorresti vedere qualcosa «that it’s not in the play» [nda, ho scelto di tradurre il termine play, così pieno di significati diversi e simili tra loro, con la parola “spettacolo”]: hai la sensazione di vivere in qualche sorta di spettacolo?
Sì, credo che tutti noi, con la nostra società e la nostra politica, viviamo in un grande spettacolo.
Parli anche di assoluzione: credi di averne bisogno?
Ne ho avuta una: me la sono concessa da sola. È già successo.
Ridacchia.
Riguardo la terza traccia, Italy: l’hai scritta specificamente per il film Sicilian Ghost Story o era già pronta?
L’ho scritta per il film.
Senti di avere un qualche tipo di connessione con questo paese?
Oh, certo! È difficile dire esattamente che tipo di connessione sia. Sono stata lì per due mesi dopo la morte di mio padre ed è stato un periodo molto bello e molto intenso. Ogni volta che suono in Italia è speciale, credo che il pubblico lì sia unico, mi sento davvero vicina alle persone. Sì. E poi l’Italia è un paese interessante per la sua posizione all’interno della politica europea.
Evito di entrare nel merito.
La canzone intitolata Surrounded sembra essere un pezzo molto meditato, il cui cuore vive chiaramente all’interno della parola desire. Di quale desiderio si tratta?
Volevo dare un nome a qualcosa di grande che riguarda tutti, come il dolore collettivo. Direi che si tratta del desiderio in senso ampio.
Parlando invece della sesta canzone, Creep: senti di essere una “strana”?
Dopo averla scritta, non ero poi così convinta di voler cantare ancora che sono una “strana” – ridacchia di nuovo. Alla fine, però, ho pensato andasse bene lasciarla così, perché effettivamente ci sono stati molti momenti in cui le persone mi hanno vista così, fin da quando andavo a scuola…
E di cosa parla realmente questa canzone?
Volevo lasciare nel non-detto di chi si tratta, se di me, di te, di lui o di lei. Alla fine penso sia una specie di canzone d’amore.
È stato detto da molti e l’hai detto tu stessa: sei cambiata rispetto alle tue produzioni precedenti e, come dici nella canzone Heal, adesso non hai paura; eppure, nello stesso brano, ti chiedi se esista un modo per guarire dal passato. Dimmi: riusciamo a guarire alla fine?
In effetti non penso di aver dato nessuna risposta alla domanda in questa canzone. Ah, a dire «I have no fear» è mia figlia. Quello che canto io è la paura di esser stata vicina a qualcuno e di non poterlo più essere ed è molto importante per me, perché rivela la fatica di credere che qualcosa possa cambiare… Forse se te lo ripeti continuamente cominci a crederci… La canzone mostra cosa significa sperare di guarire da qualcosa che ti affligge e di poter dire quello che senti… Non so…
Sembra che abbia un grande significato per te. Pensi di essere guarita alla fine?
Sì, penso di sì. Soprattutto dalle relazioni tossiche.
Perché hai scelto di fare una cover di What A Wonderful World?
Non saprei, oltretutto nel momento in cui ho deciso di farla non ero per niente dell’umore. Volevo sentire la verità di quelle parole, quando le pronunciavo o le cantavo… E alla fine è l’unica canzone di cui ho scelto di tenere solo la prima take di voce, già.
Credi che l’esperienza di questo “mondo meraviglioso” sia più solitaria o collettiva?
Bella domanda. Cosa sono le esperienze collettive? Andare ad un concerto con le persone che sono intorno a te? E le esperienze solitarie sono solo solitarie o sono anche collettive?
Rimaniamo entrambe perplesse, chiaramente non abbiamo una risposta.
Hai già dei prossimi passi in programma?
Sì, ma non posso rivelare niente. Quello che posso dire sicuramente è che spero di iniziare a lavorare al prossimo album prima di altri sei anni!
Ci salutiamo e sento che l’intervista mi lascia una sensazione molto netta. Soap&Skin è certamente un’altra persona rispetto alla giovane donna che cantava una disperazione profonda nelle sue prime canzoni, ma l’irrequietezza non sembra averla abbandonata davvero. Più grande e più esperta, è come se volesse tenersi ancora stretta quella parte di irrisolvibile perplessità che la porta, ogni volta, ad indagare il suo io, seppur sotto forme diverse.