L’arte di tradurre | Intervista a Silvia Pareschi

Quando ci accostiamo a un testo originariamente scritto in lingua straniera, che si tratti di narrativa o saggistica, tendiamo spesso a sottovalutare il peso che ha avuto il traduttore o la traduttrice che si è occupato o occupata della resa dalla lingua originale alla nostra. Eppure il suo ruolo è fondamentale. Ha infatti il compito sia di riportare quanto più fedelmente possibile lo stile dell’autore o dell’autrice in questione, dovendo lavorare su due codici diversi e alle volte pure diversissimi, sia di riportare un ventaglio emotivo per cui diventa necessario lavorare sulla propria e sull’altrui sfera emotiva. Deve forzare i propri limiti del linguaggio, andare oltre i confini, scardinare l’apparato della lingua che gli o le è caro in funzione di un avvicinamento all’autore o autrice da tradurre. Ma anche fare uno sforzo emozionale, calarsi nei panni dei personaggi, entrare nella storia.

Silvia Pareschi è una delle traduttrici italiane più celebrate e – molto giustamente – note. Ha tradotto, solo per citarne alcuni, Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith e Rachel Cusk, occupandosi anche di grandi classici come Ernest Hemingway. Le abbiamo fatto qualche domanda sul suo mestiere, cercando di dare un’occhiata alla sua cassetta degli attrezzi.


Iniziamo con una domanda forse banale, ma che credo sia d’obbligo. Come gestisci il tuo lavoro? Quali sono le tue abitudini lavorative, sia nel quotidiano sia nel lungo periodo?

Le mie abitudini lavorative cambiano insieme a me. Una volta cominciavo a lavorare dopo pranzo e andavo avanti fino alla sera tardi, ora invece vado a letto presto e mi sveglio presto, e quindi comincio a lavorare verso le otto o le nove e dopo le sette di sera non tocco più il computer. Una costante è una gestione del tempo piuttosto libera, cosa che vale per molti freelance e che ha i suoi pro e i suoi contro. Fra i pro, per esempio, c’è quello di poter lavorare dovunque e di poter andare in vacanza quando non ci va nessun altro; fra i contro c’è il fatto di non riuscire mai veramente a staccare. Per me comunque i pro superano i contro, visto che tutto sommato staccare non mi interessa molto. Sul lungo periodo, invece, cerco sempre di avere alcuni libri da tradurre davanti a me, per evitare di cadere nell’ansia.

Com’è cambiato negli anni il tuo modo di approcciarti alla letteratura? Sia per quel che riguarda il tuo lavoro, sia per quel che riguarda la lettura in sé.

Ricordo che tanti anni fa, quando mi iscrissi al master della scuola Holden, Baricco tenne un discorsetto introduttivo ai nuovi studenti, e io ingenuamente gli chiesi se l’approccio professionale alla letteratura che ci avrebbero insegnato potesse in qualche modo “corrompere” la freschezza del nostro sguardo di lettori. Era una domanda stupida, e Baricco la ignorò con aria sprezzante, ma la risposta era semplicemente “no”. Entrare nel mondo della letteratura dalla parte di chi la fa è servito solo ad approfondire la mia comprensione dei suoi meccanismi e a raffinare i miei gusti. Certo, a volte vorrei avere più tempo per leggere cose che non c’entrano nulla con quello che sto traducendo, ma ci sono problemi più gravi di questo.

Qualche tempo fa, Raul Montanari mi disse che il mestiere del traduttore porta a forzare i limiti del linguaggio; che è come essere un direttore d’orchestra che interpreta lo spartito di un altro musicista. Come fai a connetterti stilisticamente con il testo che hai davanti?

La connessione, in un certo senso, arriva da sola. Nel senso che non mi metto davanti al testo pensando “ok, questo è lo stile dell’originale e adesso lo riproduco in italiano”. Non funziona così. Non si può mettere una costruzione intellettuale davanti al testo, bisogna procedere al suo fianco e accompagnarlo. Metterci le mani dentro, danzare (o lottare) con le singole parole, poi con le frasi, con i periodi e infine con la struttura del libro. Che registro usa l’autore? Ok, lo uso anch’io. Quanta punteggiatura usa? Non ripeto la punteggiatura dell’inglese, perché altrimenti farei un calco e non una traduzione, ma se l’autrice ne usa poca ne userò poca anch’io, secondo i criteri e le possibilità che mi impone l’italiano. E così via.

E da un punto di vista empatico che lavoro c’è dietro la traduzione? Voglio dire, cerchi di calarti nei panni dei personaggi, forse dell’autore, o mantieni un certo distacco?

Ciascun traduttore ha il suo approccio sulla questione empatia/distacco, anche se non è certo facile mantenersi distaccati quando si lavora per mesi su un testo. Io appartengo sicuramente alla categoria degli empatici, provo sentimenti intensi nei confronti dei personaggi, cosa che a volte mi ha persino portato a rifiutare traduzioni importanti perché non ero disposta a convivere per mesi, nella mia testa, con qualcuno che detestavo.

Che rapporti hai con gli autori che traduci? Hai sempre modo di parlar loro nel tentativo di entrare in una sorta di bolla emozionale che abbia al centro il romanzo?

Anche qui ci sono due scuole di pensiero, e io appartengo a quella che cerca sempre, o quasi sempre, il dialogo con l’autore. D’altronde, come mi scrisse Franzen all’inizio della nostra corrispondenza, “un traduttore che non ha domande non è un buon traduttore”. Magari detto così è un po’ drastico, ma di rado mi è capitato di non avere dubbi da chiarire, e a volte a partire dalle mie domande si è sviluppato un dialogo interessante con l’autore, penso per esempio a Amy Hempel, a Nathan Englander, e soprattutto a Jonathan Franzen, appunto, con il quale ho intavolato una lunghissima corrispondenza durante la traduzione delle Correzioni. Che poi è sfociata anche in un’amicizia.

Recentemente hai tradotto per Mondadori “I ragazzi della Nickel”, di Colson Whitehead – per cui ha vinto il premio Pulitzer nel 2020. Un libro difficile, duro e incredibilmente, dolorosamente attuale. Credi che la letteratura americana contemporanea abbia la capacità di narrare il proprio tempo? E in questo senso, vedi differenze con l’Italia?

Se ci allontaniamo dallo stile stereotipato delle scuole di scrittura tipo l’Iowa Writers’ Workshop e ci avviciniamo all’abbondantissima letteratura delle minoranze, allora sì, direi proprio che questa capacità esiste, con una miriade di sfumature che riflettono la molteplicità dell’esperienza americana. Più difficile trovare una molteplicità di esperienze in un paese più omogeneo come l’Italia, e per questo trovo che sia interessante esplorare la letteratura della migrazione in lingua italiana, che ci racconta l’Italia vista da un’altra prospettiva. Gli scrittori appartenenti a questa categoria sono tanti, dal “veterano” Pap Khouma, senegalese, al togolese Kossi Komla-Ebri, dagli articoli e romanzi della somala Igiaba Scego a due autrici interessanti come la ruandese Espérance Hakuzwimana Ripanti e l’italo-somala Cristina Ubah Ali Farah, dalla bosniaca Elvira Mujcic all’albanese Elvis Malaj all’algerino Amara Lakhous, per citarne solo alcuni.

Piccola collezione visiva di traduzioni di Silvia Pareschi

Gli sconvolgimenti politici e sociali che hanno caratterizzato gli ultimi anni hanno spesso una matrice culturale o razziale, e a volte si ha l’impressione che molti guardino con una certa diffidenza lo straniero – o almeno chi si percepisce come tale. Quello del traduttore è un lavoro che funge da ponte tra le culture. Pensi che le connessioni tra i popoli si stiano sgretolando, in qualche modo?

Le connessioni tra i popoli e anche quelle tra le persone. Non so però quanto la diffidenza verso lo straniero si sia acuita negli ultimi anni. Lo straniero è solo una delle tante declinazioni del “diverso” che è sempre stato storicamente guardato con diffidenza se non perseguitato. Certo in un paese come gli Stati Uniti sembra che oggi il razzismo sia aumentato, ma non è così: è stato semplicemente legittimato dall’ascesa al potere di un leader razzista e fascista, e quindi quello che prima si diceva a mezza voce oggi viene orgogliosamente detto a voce alta e tradotto in azioni esecrabili. Le connessioni tra i popoli – a parte il contemporaneo isolamento dovuto al virus – sono sempre state conseguenza di interessi ben precisi. E con la fine delle ideologie l’internazionalismo è passato di moda.

So bene che si tratta di una domanda fumosa e parecchio astratta, ma quale futuro vedi per la letteratura? Il numero dei lettori è molto esiguo, di libri se ne leggono sempre meno, e spesso gli scrittori, al centro della narrazione maligna di alcuni politici, vengono demonizzati. In questo mondo, nel mondo che ci troviamo ad abitare, quale significato può assumere l’arte?

Meglio non fare queste domande a una pessimista come me, che oltretutto lavora nell’editoria e quindi si rende perfettamente conto di quanto sia davvero esiguo il numero dei lettori. Ti rispondo con le parole finali di un saggio di Franzen che verrà presto pubblicato da Einaudi: “I problemi insolubili sono alla base della condizione umana. Ed è per questo che prevedo un imminente aumento di popolarità della letteratura.” A me francamente sembra la classica conclusione di un pessimista assoluto che cerca disperatamente di comunicare una qualche speranza. Ma forse mi sbaglio.

È di qualche anno fa il libro “I jeans di Bruce Springsteen – e altri sogni americani”, scritto da te e pubblicato da Giunti. Un testo composto da generi diversi, difficile da inquadrare. Come lo definiresti? E qual è stata la spinta che ti ha portato a scriverlo?

Qualcuno l’ha definito “autofiction”, e in effetti credo che sia la definizione migliore. La copertina che avrei voluto per il libro ritrae una specie di astronauta, vestito con casco e tuta ma curvo e un po’ panciuto, che contempla con aria evidentemente perplessa (nonostante il casco) una bandierina americana piantata nel terreno. È un libro di racconti che mischiano fantasia e autobiografia, reportage e narrativa, sulla scia dei tanti “osservatori” letterari di quel paese affascinante e assurdo che sono gli Stati Uniti. Che io ho conosciuto prima attraverso la letteratura e poi vivendoci. Vivo infatti per metà dell’anno in Italia e per l’altra metà a San Francisco insieme a mio marito, lo scrittore e artista Jonathon Keats.

Hai qualche progetto di cui vorresti parlarci?

Ho appena finito di ritradurre Il vecchio e il mare, che uscirà nel 2022. Ma questo non è proprio un progetto, visto che è finito. L’anno scorso, insieme a un amico regista, ho cominciato a lavorare a un documentario sulle librerie americane, che però adesso è fermo perché io sono bloccata in Italia e le librerie americane sono chiuse. E poi sto progettando di espandere la mia attività di insegnante di italiano per stranieri, perché è un lavoro che mi piace molto e perché visto quello che si diceva sopra sul futuro della letteratura forse è meglio costruirsi un’alternativa.

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