L’amore e i muri. L’incomunicabilità che divide e ferisce.
Nat è una giovane traduttrice che ha deciso di tagliare i ponti con il passato e si è rifugiata a La Escapa, un piccolo paese rurale della Spagna, dove la protagonista cerca una nuova forma di libertà e asseconda la necessità personale di affermarsi, di trovare sé stessa. La Escapa svelerà ben presto i suoi muri invisibili, fatti di ritrosia e pregiudizi, dove i vicini si mostrano impermeabili a ogni richiesta, il proprietario della casa in affitto manifesta una certa misoginia esibita. E, al centro, le parole diventano un’ossessione, una tensione irrisolta che assume le sembianze di un ronzio fastidioso e insieme di una ragione di vita. Quelle stesse parole che scandiscono i momenti cruciali della vita di Nat, sempre divisa tra desiderio e vulnerabilità, potenza e bisogno di protezione.
Un amore (La Nuova Frontiera), finalista al Premio Strega Europeo 2022, è il secondo romanzo di Sara Mesa pubblicato in Italia, dopo il successo di Cicatrice (Bompiani, 2017), segnalato tra i libri dell’anno da El País ed El Mundo. Ho avuto il piacere di intervistare l’autrice in occasione del Salone del Libro di Torino, al termine della sua presentazione.
Partiamo dal titolo. Un amore è molto più di un amore, invita il lettore a entrare in un abisso da cui ne uscirà diverso, con qualcosa in più e qualcosa in meno, però il titolo sembra quasi rievocare una possibilità, un’apertura positiva. Come nasce il titolo?
Ho utilizzato questo titolo in modo intuitivo, era il nome con cui chiamavo il romanzo anche mentre lo stavo scrivendo. Era un titolo provvisorio, ma volevo che rimanesse qualcosa del suo nome originario anche dopo aver terminato le bozze. Amore è una parola semplice, ma ambigua. È anche una provocazione.
La comunicazione, che resta con la lingua un aspetto fondamentale per la socializzazione, sembra bloccata in questo romanzo, l’impressione che il lettore ha subito è di una claustrofobia stagnante, un immobilismo irreversibile. Quali ostacoli ha trovato di fronte a sé in questo tentativo di comunicare l’incomunicabilità?
Lavoro sempre come una specie di entomologo, studio i personaggi come se fossero degli insetti. È una mia scelta, ma anche una conclusione a cui sento condotta come scrittrice. Questo scenario piccolo, ristretto, ha sempre come esito una forma di claustrofobia.
Quando ho letto quest’opera, ho subito provato a esaminarla dalla prospettiva del desiderio mimetico. Anzi sembra essere proprio la teoria di Girard il motore dell’azione, esibendo fin dall’inizio il capro espiatorio costruito dalla società. Quanto di Nat è dettato dal desiderio mimetico che prova verso persone e oggetti? E quanto è veramente suo?
Penso che in ognuno di noi ci siano due linee d’azione: una individuale e una collettiva, dettata dall’esterno. Ed è veramente difficile distinguere queste due linee. A volte pensiamo di agire in un certo modo perché lo vogliamo noi, ma in realtà ci rendiamo conto che è tutto condizionato dal contesto sociale. Nel romanzo le due linee a volte si sovrappongono.
L’incomunicabilità segna una frontiera, una diga che raccoglie tutto dentro di sé in questo romanzo. Nat vive sospesa in un indefinito margine che soffre ma che non vuole abbandonare. Molti scrittori, e in particolare scrittrici, hanno posto la loro attenzione negli ultimi anni sull’idea del margine. Elena Ferrante ha parlato di perdita del margine come spersonalizzazione dell’individuo, Zadie Smith ha spiegato cosa significhi abitare il margine in una prospettiva sociale. Per lei cos’è il margine? Cosa significare abitare il margine oggi?
Molte storie sono già state raccontate dal centro, ma la prospettiva marginale è funzionale a rinnovare le forme narrative. Credo che un testo letterario subisca il margine anche da un punto di vista linguistico, oltre che del genere, ed è un meccanismo capace di scardinare i canoni, di rendere più affascinante l’intreccio.
Un amore è un libro in cui il lettore si trova nella posizione di dover intervenire e interpretare, ha un ruolo attivo. Come se fosse un contenitore buio in cui ognuno di noi prende qualcosa, ma il resto rimane lì nell’ombra. La sensazione è che ognuno possa ribaltare il significato più profondo, a seconda del proprio vissuto, dei propri valori, delle proprie esperienze. Hai considerato l’affermarsi di questa possibilità e prospettiva mentre lo scrivevi?
Cerco sempre di portare il lettore, mentre sta leggendo, a chiedersi “cosa farei io in questa situazione?”. Io non voglio solo raccontare, ma analizzare i diversi punti di vista, la complessità di tutti gli sguardi possibili. In questo romanzo il lettore deve seguire il punto di vista della protagonista, deve immergersi in esso, anche se è espresso in terza persona, al punto da pensare con la sua testa, da reagire insieme a lei.
Parlare d’incomunicabilità dopo due anni di pandemia è sempre difficile e paradossale, ma necessario. Specialmente durante il lockdown il dramma dell’incomunicabilità si consumava in una condizione di stasi e appiattimento che procurava sofferenza. Come ha vissuto lei questo dramma dell’incomunicabilità, se l’ha vissuto, e cos’è stato per lei il lockdown?
Questo romanzo è stato scritto prima della pandemia, quindi non c’è una relazione diretta, ma il tema dell’incomunicabilità è diventato un’urgenza in quei mesi in cui siamo stati costretti a stare chiusi dentro casa. In realtà credo fosse un modo di vivere, oltre che una paura, che esiste da molto prima del 2020. Non so quale insegnamento dobbiamo trarre da tutto ciò, sarà il tempo a dirlo.
Progetti per il futuro?
In Spagna uscirà un libro tra qualche mese che si chiamerà “La familia” e presto sarà tradotto anche in Italia.