La letteratura può salvare il mondo | Intervista a Sandro Veronesi

Sono passati quasi quindici anni dalla prima edizione di Caos calmo, romanzo folgorante che si fregia di una bella trasposizione cinematografica firmata da Nanni Moretti. Da allora l’eccezionalità del suo autore si è disvelata senza posa, con la pubblicazione di romanzi, saggi e articoli che lo hanno reso uno degli scrittori e intellettuali più apprezzati del panorama contemporaneo italiano.

Sandro Veronesi è tornato in libreria con Il colibrì, di nuovo per La nave di Teseo, e fortuna che l’ha fatto! Il suo è un romanzo stupendo. Potente e delicato, originale e verissimo, dolce e struggente. Quello descritto da Veronesi è un personaggio qualunque, il suo Marco Carrera non ha niente di speciale, è un uomo come tanti, tantissimi altri, ma è costretto ad affrontare sofferenze atroci. Di quelle che la vita ti piazza davanti quasi come se nel farlo provasse un gusto perverso, quasi come se si divertisse ad accanirsi su certi tipi umani piuttosto che su altri. Il colibrì è sicuramente uno dei migliori romanzi dell’anno, e Carrera è sicuramente uno di quei protagonisti destinati a rimanere. Veronesi però negli ultimi tempi non si è limitato alla narrativa, e nel dibattito politico che ha visto le grandi migrazioni, i populismi e l’avanzata dell’estrema destra è entrato con grande fervore. Ha le idee chiare, lui, e di certo non le manda a dire. Letteratura, società e politica. Ecco di cosa ci ha parlato lo scrittore pistoiese.


Di recente, in un’intervista, hai detto che il tuo ultimo romanzo, Il colibrì, si astrae dalla situazione sociopolitica che ha caratterizzato gli ultimi tempi. È stata una scelta letteraria o ha altre ragioni?

L’anno scorso ho sospeso la scrittura de Il colibrì per otto mesi. Il risultato di questa sospensione è un libro, Cani d’estate, che dà conto della mia febbre civile di risposta all’atteggiamento verso le migrazioni e i naufraghi. A un certo punto ho proprio sentito che questa passione, qualcosa per cui davvero non riuscivo a dormire la notte, era una roba per cui dovevo fare qualcosa. Sono uno che queste faccende non le subordina a nulla però allo stesso tempo non le metto dentro un romanzo. Voglio dire, i romanzi sono quei luoghi nei quali il personaggio più interessante può pure essere quello malvagio. Vedi Lord Jim, lui è uno che non soccorre i naufraghi. Li lascia in mare convinto che quelli moriranno. Ma poi vengono salvati, quei naufraghi. E quando sono al porto dicono che lui è stato così scorretto da lasciarli in acqua. A quel punto Lord Jim perde tutto, ma soprattutto perde se stesso. Ora, politicamente lui è la figura da combattere: quello che per il proprio interesse lascia morire gli altri. Letterariamente è irresistibile. Ecco, se uno scrive un romanzo deve dimenticare le tesi politiche, deve dimenticare dove sta il giusto e dove no. Poi, insomma, come la pensi, il lettore lo capisce, ma non è quella la cosa importante. Si può raccontare la migrazione e si può raccontare la vita di chi queste migrazioni le stronca. Di certo, però, non si può scrivere un romanzo a tema perché chi l’ha fatto è rimasto lì. Penso ad esempio ad Orwell. Lui era un grande visionario, ma i romanzi non sono belli! Céline, che stava dalla parte del torto poiché antisemita e via discorrendo, invece ha scritto libri grandiosi. Ecco, se voglio combattere la politica di Salvini o di Minniti, scrivo un pamphlet, ma il romanzo deve star fuori da questa faccenda.

Soffermiamoci un attimo su questa relazione, quella tra letteratura e società. Credi che le due siano ancora in contatto o che piuttosto ci sia uno scollamento?

Lo scollamento c’è sempre stato. Nel mondo siamo sette miliardi e io credo che quelli che hanno a che fare con la letteratura, anche in maniera blanda, siano meno di mezzo miliardo. Che poi coincide con una parte privilegiata del mondo – non solo di quello occidentale, ovvio, perché c’è l’alta borghesia anche in Nigeria o in Birmania, per dire – persone che hanno studiato e che hanno potuto organizzare la propria giornata ricavandosi del tempo per leggere. Ecco, la rilevanza della letteratura si arrabatta in queste proporzioni. E stiamo parlando della grande letteratura, in questo caso, se poi arriviamo ai contemporanei troviamo un mondo ostile, che ti ignora, che non ha nessun bisogno del tuo sforzo. Tuttavia quella parte di mondo che invece ti rivolge la propria attenzione è quella che si trascina dietro il resto, per cui io sono dell’idea – che viene esplicitamente dichiarata da Edoardo Nesi nel suo ultimo romanzo, La mia ombra è tua –, che la letteratura possa salvare il mondo. Salva anche quelli che non leggono, perché illumina quelli che leggono e che poi seguendo con fiducia ciò che il loro percorso di lettori e di appassionati gli ha insegnato può permettere loro veramente di salvare il mondo.

Se gli scrittori continuano a indagare nel contemporaneo e i lettori a cercare una sorta di ordine nella narrativa, pensi che i grandi temi che stanno tenendo impegnata la politica trovino posto in letteratura? Mi riferisco alle grandi migrazioni, ai sovranisti in ascesa e alla crisi dei valori contemporanea.

Giulio Cavalli ad esempio ha scritto Carnaio, un romanzo molto bello e contemporaneo. Ecco, si possono fare romanzi così. Cioè libri che si basano su questa verità, su questo grande scandalo umano o politico che ci vede storicamente dalla parte sbagliata. Noi siamo quelli che li lasciano morire, non che li salvano. Siamo stati quelli che li salvavano fino a qualche anno fa, ma adesso siamo passati dall’altra parte. Quindi, ecco, con romanzi del genere il tema lo affronti direttamente e non attraverso saggi o reportage, cose che vengono fatte dai migliori giornalisti, ma attraverso la narrativa di finzione dove non è necessario che tu dica la verità. Saviano ad esempio questa libertà non ce l’ha, lui può parlare di una verità nella misura in cui questa verità la appura. I giornalisti ciò che dicono possono dirlo solo se hanno le prove, il narratore invece può dire quello che vuole.

Sei stato preso di mira dall’ex ministro dell’interno che sembrerebbe alla continua ricerca di un nemico da dare in pasto al suo elettorato. Perché questo continuo attacco al mondo della cultura? Penso a te, ma anche a Roberto Saviano, a Michela Murgia, Fabio Fazio e molti, moltissimi altri.

Nei confronti degli intellettuali è anche, chiaramente, com’è sempre stato, un complesso di inferiorità. La destra non è mai riuscita a esprimere degli intellettuali che siano rimasti amici fino alla fine; li mettono in galera, poi. Il fatto è che l’intellettuale per la destra, che in Italia è sempre filofascista, è quella persona che se fosse per te non le direbbe quelle cose, ma siccome viviamo in un mondo rammollito, non solo può dirle ma ha anche successo. È come se la destra, che concettualmente è sempre stata quella che ha difeso gli interessi dei ricchi, diventata populista e pauperista dovesse additare beni essenziali come nemici. Secondo me però questo atteggiamento è controproducente, perché se non fossimo in questa situazione tanta gente non si impegnerebbe su temi del genere. Tant’è che da luglio 2018, da quando è cominciato tutto questo, sono usciti una dozzina di libri sull’argomento. Potranno non essere tutti belli e importanti, ma sono stati tradotti all’estero. E così, tu che fomenti questo clima, hai presto dodici schiaffoni solo perché non hai saputo rispettare il ruolo degli intellettuali. Li hai voluti sfidare e loro hanno risposto con le loro armi. Come dice il mio amico Albinati, tu parli alla pancia della gente, ma la pancia non ce l’hanno mica solo i tuoi sostenitori. E soprattutto nella pancia c’è una sostanza e se quella sostanza viene fuori finisce che ti ricopre.

L’ex ministro sta cavalcando paura e rabbia, sentimenti cristallizzati nel cuore di molti. Ma quale credi che sia la ragione per cui tanti si sono abbandonati ciecamente a questa politica? E soprattutto, sta succedendo a livello mondiale? E quale sarà la fine?

Il fine è il fascismo. Si finisce lì, quello è il buco del lavandino dove casca la roba se non la fermi prima. Io non credo che si possa tornare a un fascismo europeo come cent’anni fa. Credo nei meccanismi delle democrazie occidentali, quelli istituzionali e costituzionali adottati proprio per evitare che la roba di cent’anni fa si ripeta. Però certo, il ripresentarsi del rigurgito di questa destra è una cosa di per sé impressionante e spaventosa, ma non credo sia quello il problema. Il fatto è che questa gente non sa tenere il potere in maniera legale, non ha cultura della legalità, neanche se ne accorge che infrange la legge. Non è una classe dirigente vera. Si fanno forti di essere del popolo, ma devono rispettare le leggi! E secondo me non sono proprio capaci; basta pensare al pasticcio combinato da Salvini quest’estate.

Passiamo adesso al tuo ultimo romanzo, di cui abbiamo accennato prima, Il colibrì. Un vecchio detto recita: “mari calmi non fanno buoni marinai”. Ecco, la visione dei tuoi personaggi, in questo caso di Carrera, è spesso eroica. Credi che solo attraverso il dolore si possa crescere? E Carrera, in maniera inconscia, è in cerca di conflitto?

Ci sono alcuni stereotipi nei quali molti di noi vanno a riconoscersi. Ci sono persone, ad esempio, che vivono con l’immaginario della vittima: hai subito delle ingiustizie, il destino è stato duro con te e tu non hai potuto fare quello che ti eri impegnato a fare. Poi c’è l’eroe: hai subito delle ingiustizie, la vita è stata dura con te, ma tu hai resistito lo stesso. Ecco, Marco Carrera si considera lui stesso un eroe. Questo, secondo me, accade perché neutri e asettici non si può essere. Devi essere attrezzato per affrontare la vita, devi crederti qualcosa o qualcuno per affrontarla. C’è un altro detto: “la maggior parte delle persone crede in Dio, poi c’è una piccola parte che si crede Dio”. È un modo anche quello di affrontare la vita! È un modo di posizionarsi. In questa storia ho preso un protagonista che vive in maniera eroica, e forse se non avesse vissuto così non ce l’avrebbe proprio fatta. È una maniera per fare quello che tutti devono fare: sopportare, gestire il dolore; dolore che puoi vivere o aiutandoti o inventandoti un ruolo. Alla fine il problema è sempre lo stesso: accettare quello che ti tocca.

A proposito del dolore. Nel romanzo la sofferenza, sotto forma di lutto ma anche di solitudine, è un nodo tematico centrale. Credi ci sia la tendenza a evitarlo, il dolore? A cercare di non guardarlo in faccia?

Marco non è del tutto consapevole di ciò che fa. Sia dal punto di vista culturale sia da quello personale è interessato al tema dello sguardo: è un tipo più immediato, lui. La sopportazione del dolore è nel suo caso un fatto quasi naturale, cioè lui soffre tutto ciò deve soffrire e non cerca mai l’anestesia. Questo perché è molto attaccato e innamorato della vita. È una persona vitale e il dolore è una forza vitale, c’è poco da fare. È l’anestesia che ti inebetisce. Ti anestetizzi e non soffri, ma allo stesso tempo non capisci un cazzo. Mentre nel sopportare il dolore, non programmaticamente ma perché ti tocca, c’è questa forza vitale che ti suggerisce, ti richiama a un senso della vita positivo. Perché una volta superato sarai un uomo felice. Tutti siamo stati male e tutti sappiamo che il momento migliore è quando quel dolore è passato. Nel caso del dolore fisico certe volte bisogna pur fare o prendere qualcosa per evitare di soffrire, sennò si finisce con il battere la testa contro il muro. Ma nel caso del dolore emotivo, morale, rinunciarci, a quel dolore, vuol dire rinunciare a questa forza vitale.

Marco Carrera, il tuo protagonista. Con lui più che di resistenza si può parlare di resilienza. Qual è la differenza fondamentale tra le due e perché alcuni, o meglio Carrera, si limitano a stare in una sorta di posizione di autodifesa?

Mi sono accorto solo dopo che stavo parlando di resilienza. Questo termine l’ho studiato all’università, assieme alla resistenza è una delle caratteristiche dei materiali. La differenza è semplice e molto bella. La resistenza è la capacità di resistere alle sollecitazioni anche a costo di perdere la propria funzione. Se una trave non fa crollare il soffitto ha fatto il suo, ha resistito, poi però quando si va a ricostruire la casa la trave non serve più. Non è più una trave. Ha resistito, non ha fatto crollare il tetto, ma dev’essere sostituita con una nuova. La resilienza è resistere più che si può senza perdere le proprie caratteristiche, per cui finita la sollecitazione si è ancora una trave. Questo è ciò che fa Carrera e come lui tante altre persone: sopportano ciò che devono ma senza rinunciare alla propria identità e senza abusare di quelle sostanze che leniscono il dolore. Resisti ma non sei resiliente, lo sei se riesci a tornare dove eri prima, ecco.

Ultima domanda. Domanda sociopolitica e letteraria. Qual è il confine della libertà di ognuno?

Oggi c’è una contrapposizione tra libertà e verità, questo perché la libertà è stata declinata al plurale. Adesso non è più la libertà, ma le libertà. Di leggere ciò che si vuole, ad esempio. Così se uno dice eh, io voglio leggere il Mein Kampf e gli si dice che no, non va bene, la sua diventa di colpo una società illiberale. La gente vuole la libertà di non vaccinare i propri figli perché senno gli viene l’autismo, ma è falso! Non è vero. E subito loro rispondono ah, allora mi vuoi imporre qualcosa! I vaccini non fanno venire l’autismo, anzi salvano le vite dei più deboli, degli immunodeficienti. Questa è una verità. E contro queste verità una parte della popolazione occidentale scende con rabbia a rivendicare la libertà di sbagliare. Cioè se sono libero, allora lo devo essere anche di prendere un abbaglio. Da una parte tutto questo, dall’altra c’è chi sostiene il vero. Cioè, ad esempio, il Mein Kampf è uno schifo. Punto. Può non essere così dopo quello che è successo? Se vuoi leggerlo e io ti dico che non dovresti non è che non sei libero, è che è proprio sbagliato. Ed ecco per la prima volta mi trovo dalla parte opposta: non combatto per la libertà, ma contro. Perché se la libertà ormai è questa cosa qui, una roba che colori come vuoi, allora io sto dall’atra parte. Ed è strano, certo, ma io ero per la libertà, non per le libertà! Il medico che ti vaccina, però, non è un oppressore, questo vorrei che si capisse. Il vaccino va fatto, punto. E chi si oppone è una minoranza che sarebbe irrilevante se non tirasse in ballo il tema della libertà. Uno che combatte per la libertà e un mezzo che te la distorce, ecco, così si fa scempio della libertà e scempio della verità.


Ascolta la playlist della musica contenuta nel Colibrì a cura di Sandro Veronesi

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