Il margine tra la forma e il vuoto | Intervista a Ruth Ozeki

La forma nasce dal vuoto e ad essa ritorna. Solo così l’intollerabile privazione del vuoto, con cui si apre Libro della forma e del vuoto (Edizioni E/O), può essere razionalizzata. Sprigionata in tutte le forme in cui il dolore può manifestarsi e infine metabolizzata con la tipica malinconia che suscitano le cose scomparse. In questa dialettica conflittuale tra vuoto e forma, in questa tensione irrisolta sembrano sprigionate le voci provenienti dagli oggetti che Benny Oh, tredicenne che appena un anno prima ha subito la morte del padre, un musicista jazz di origini giapponesi, sente e non riesce ad arginare. Allo stato di solitudine forzata in cui si riduce l’adolescente, protagonista del romanzo di Ruth Ozeki, corrisponde la depressione morbosa della madre che non riesce a reagire alla perdita del marito e alla preoccupante situazione economica che affiora come un’ombra minacciosa nella narrazione. L’opera di Ruth Ozeki racconta la crescita di Benny che, grazie a una serie di incontri con persone capaci di indicargli la giusta direzione, riuscirà a cogliere il significato profondo di quelle voci e a valorizzarle. E sarà proprio il contatto con quegli oggetti a fargli riprendere il dialogo con il padre là dove il lutto, l’ansia e il silenzio lo avevano lasciato interrotto.

Ruth Ozeki, che lo scorso mese è stata ospite al Salone del Libro di Torino, è tra le più apprezzate scrittrici americane. Entrata nella shortlist del Man Booker Prize nel 2013 con Una storia per l’essere tempo (Edizioni E/O), Ozeki insegna Letteratura Inglese allo Smith College di Northampton. I suoi romanzi sono stati tradotti in più di 35 lingue.


Partiamo dal titolo. Libro della forma e del vuoto riassume l’esistenza del protagonista sempre in bilico tra due dimensioni in contrasto tra loro. Com’è nato e perché?

L’espressione “forma e vuoto” deriva da un importante Sutra buddhista. Per la precisione nel Sutra è scritto “la forma non è diversa dal vuoto, il vuoto non è diverso dal forma”. Il modo in cui mi sembra più naturale descrivere la relazione dualistica che si instaura tra forma e vuoto è l’oceano. L’oceano rappresenta un grande e incolmabile vuoto entro cui le condizioni per cambiare, il vento, le maree dipendono dalla forma, è tutto instabile e in equilibrio al contempo. Il confronto tra vuoto e forma è necessario e investe ogni elemento al mondo, anche noi in questo momento, il luogo e il tempo che stiamo vivendo. Tutto. La forma non può esistere senza il vuoto, questo bipolarismo è anche una metafora della parabola della vita. Questo libro si apre con una morte che è un ritorno della forma nel vuoto.

In questo romanzo di formazione l’affermarsi delle voci che Benny comincia a sentire lo pongono di fronte a un bivio che poi rappresenta il divario incolmabile tra Oriente e Occidente. La prima, una società fondata sulla spiritualità, sul cercare di dar ordine al caso, la seconda frenetica e incontenibile che cavalca il caos, lo incentiva. Benny all’inizio appartiene al secondo mondo, anzi è l’unico che conosce. Secondo quanto detto, si può leggere quest’opera, e quindi la crescita di Benny, metaforicamente?

Credo di sì. Una delle prove a cui vorrei che il lettore si sottoponesse è quella di pensare l’opera metaforicamente e letteralmente, credo sia necessario cogliere i diversi piani semantici che il testo può offrire. Mentre scrivevo, mi sono resa conto di star costruendo i personaggi secondo una prospettiva realistica che non era però esente da un certo simbolismo di fondo. La crescita di Benny può essere interpretata metaforicamente, certo, ma tutti i personaggi sono investiti da questa possibilità e si presentano al lettore con tutte le contraddittorie pulsioni che caratterizzano la natura umana oggi come ieri.

La realtà che viviamo e a cui siamo assuefatti impone la rapidità, è impossibile fermarsi per non rimanere indietro, anche solo per non essere giudicati. E questo stato di frenesia imposta, che spinge verso la competitività e si basa solo sui risultati, sulla performance, si proietta su tutte le nostre azioni quotidiane, dalla scuola alla messaggistica, dai rapporti sociali alla dimensione personale. Com’è possibile invertire questo flusso apparentemente inarrestabile?

È molto difficile. Questa è una delle ragioni che mi ha spinto verso il Buddhismo e per cui pratico la meditazione. In una società orientata quasi esclusivamente all’aspirazione di raggiungere obiettivi e nel minor tempo possibile, in cui questa capacità definisce il valore di una persona, la meditazione mi sembra l’unica alternativa. Meditare per me significa da un lato uscire dai soffocanti contorni in cui la società impone di stare a ognuno di noi, dall’altro conciliarsi con l’idea del silenzio, della stasi contro la rapidità esasperata del nostro tempo. Può sembrare folle, ma è altrettanto folle quello che la società ci impone. Credo che fermarsi sia un modo efficace per rimanere ancorati alla realtà, per sottrarci a quel flusso incontenibile che punta solo ai risultati, alle statistiche, senza valutare le reali necessità umane.

«Era la camicia preferita di Kanji, un bel tartan, smorzato e con delle strisce gialle e blu. Sarebbe stata una bella trapunta, ha pensato. La gente lo faceva, cuciva trapunte della memoria dai vestiti dei propri cari defunti. Era una bellissima idea, davvero, avvolgersi nei ricordi e dare nuova vita ai vecchi abiti.»

Che ruolo ha la letteratura in questo processo di comunicazione iper-rapida e istantanea? Che ruolo può avere e dovrebbe avere?

La letteratura non dovrebbe avere alcun ruolo. Dovrebbe sottrarsi, dovrebbe essere anarchica ed essere lo specchio delle diversità del mondo, della realtà che viviamo, senza piegarsi ai meccanismi di produzione ciechi e spasmodici. Ma soprattutto dovrebbe essere aperta all’idea di ascoltare più voci. Voci diverse in grado di comprendere più punti di vista, di non escludere nessuno.

Poi a un tratto ci siamo dovuti fermare. Almeno così è sembrato. Da marzo 2020 il lockdown ha imposto un cambio di passo nelle nostre vite, una parentesi destinata ad avere conseguenze, anche in letteratura. Come ha vissuto lei questo dramma dell’incomunicabilità, se l’ha vissuto, e cos’è stato per lei il lockdown?

Devo essere sincera, non ho sofferto il lockdown come altre persone che hanno perso i propri cari. È stato un momento di solitudine, certo, ma essere scrittori significa anche questo. Convivere con il silenzio, saperlo sfruttare per i propri fini. Molti scrittori infatti credo abbiano sfruttato quel periodo per scrivere e completare le proprie opere, altri hanno sofferto l’impossibilità di uscire, la mancanza improvvisa di socialità. Penso sia stato anche un banco di prova per molti paesi: in America abbiamo avuto un milione di morti e c’era chi negava, chi non capiva la gravità di quello che stava succedendo. La politica si è dimostrata incapace di reagire in quell’occasione, il Covid ha svelato le fragilità del sistema che ci governa, oltre che le nostre stesse.

Il lutto in questo romanzo si trasforma inesorabilmente in una forma di incomunicabilità che affligge sia Benny che sua madre. Come se segnasse una frontiera, una diga che raccoglie tutto dentro di sé. Benny vive sospeso in un indefinito margine che soffre ma che non vuole abbandonare. Molti scrittori, e in particolare scrittrici, hanno posto la loro attenzione negli ultimi anni sull’idea del margine. Elena Ferrante ha parlato di perdita del margine come spersonalizzazione dell’individuo, Zadie Smith ha spiegato cosa significhi abitare il margine in una prospettiva sociale. Per lei cos’è il margine? Cosa significare abitare il margine oggi?

Io sono cresciuta sul margine. Mia madre era giapponese e mio padre un uomo bianco. Per l’America che usciva dalla Seconda guerra mondiale, io ero la figlia di due nemici. Quando ho cominciato a scrivere, ho capito che il margine offre un punto di vista privilegiato, uno sguardo obliquo che permette di vedere le cose in modo più chiaro e trasparente. Offre la possibilità di analizzare la cultura mainstream da una prospettiva non assuefatta, non necessariamente neutrale. Se consideriamo il romanzo, è vero, Benny e sua madre vivono sulla linea del margine da un punto di vista sociale e psicologico. Il fatto di sentire le voci fa piombare Benny su un margine ancora più rischioso alla sua età, lo espone allo sguardo dei coetanei e degli altri personaggi. Una delle domande che mi sono posta scrivendo questo libro è: cos’è normale? Ci dimentichiamo spesso che il concetto di “normalità” è deformato dalla prospettiva sociale che impone un canone arbitrariamente. Benny si trova catapultato sin dall’inizio fuori da questo canone, come altre persone che soffrono di disturbi o che sono reputate diverse e per questo motivo escluse. L’esclusione sociale è la prova del fallimento di questo presunto canone che non è altro che una fallace immagine sociale.

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