Raccontare il contemporaneo | Intervista a Raul Montanari

Milo Molteni è uno dei più grandi pubblicitari italiani. Nel suo lavoro è un asso, è specializzato in campagne sociali e dai più considerato un vero e proprio genio. Vive una vita tranquilla, come quella di tanti altri uomini della sua età, ma quando gli anziani vicini di casa muoiono e lui decide di comprare l’appartamento rimasto vacante, tutto cambia. È una notte di quiete apparente quando, da una porticina misteriosa nella casa dei defunti dove adesso vive, fa il suo ingresso un ragazzino in fuga. Si chiama Adam, è confuso, è preoccupato ed è un migrante. Per scoprire quale sia l’enigma che si cela dietro la comparsa del giovane, Milo chiede aiuto a uno strano detective, una vecchia conoscenza, e con lui cerca di far dipanare il banco di nebbia alzatosi con l’arrivo di Adam, costretto tra l’altro a fare i conti con i demoni del proprio passato.

È mio parere che la grande letteratura si distingua dal resto dei libri stampati e pubblicati per la capacità, intrinseca e bellissima, di coniugare l’intrattenimento puro e semplice all’analisi lucida e spietata del mondo che si appresta a narrare. Riuscire nella complessa operazione di amalgama tra questi due elementi è tanto difficile quanto fondamentale. Raccontare il contemporaneo non basta se all’indagine, che sia introspettiva o materiale, individuale o sociale, non si è in grado di unire una storia del racconto che alleggerisca il libro in sé. Ecco, Raul Montanari, con questo suo ultimo romanzo – La seconda porta, Baldini + Castoldi – 2019 – e con molti dei suoi precedenti, è riuscito in questo difficile compito. Lo abbiamo intervistato a Milano, in occasione del BookCity. Ecco cosa ci ha detto.

Lavori in questo ambito da trent’anni e hai le mani in pasta un po’ ovunque. Noti un cambiamento nella società contemporanea? Da narratore, senti che la società che racconti sta cambiando?

Naturalmente sì, è cambiato tutto. Quando ho cominciato io, fine anni ’80, non c’erano nemmeno i cellulari! La tecnologia è diversissima rispetto ad allora e questo è uno dei mutamenti più grossi, anche nel mio lavoro. Ti faccio un esempio: uno dei miei dispiaceri è aver perso molte delle traduzioni che ho fatto all’inizio della carriera, perché le avevo scritte con programmi pionieristici che producevano file non esportabili in ambito Windows o Mac. Ho i libri, certo, ma non ho i file sul computer. Allargando lo sguardo, le nuove tecnologie hanno dettato evoluzioni sociali che sono divenute poi vere e proprie mutazioni antropologiche. Il narratore si trova di fronte a un problema imbarazzante: è diventato quasi impossibile raccontare il presente. Si trasforma con una tale velocità che è molto difficile – in particolare per una narrativa che voglia cogliere l’adolescenza, come ho fatto col mio penultimo libro, La vita finora – appoggiarsi a un quadro di riferimenti che, quando il libro uscirà, non siano già cambiati rispetto a quando l’hai scritto. Questa cosa me la disse pure uno dei miei compagni storici, Niccolò Ammaniti, durante una telefonata davvero angosciosa in cui si chiedeva cosa potesse raccontare oggi. “Io sono famoso perché sono quello dei videogiochi, delle cose giovanili…” mi disse, “ma se adesso scrivo parlando di un ragazzo e ci metto dentro un videogioco, anche se venissi pubblicato entro un anno quel videogioco fra sei mesi non ci sarà più”. Questa difficoltà a catturare l’oggi e i giovani si riflette nella moltiplicazione di narrazioni che non sono nell’oggi, ma vengono ambientate nel passato o nel futuro. Vedi il proliferare delle distopie, e una l’ha scritta lo stesso Ammaniti con Anna. Sono tutti modi per evitare di confrontarsi con un presente che non è che ti metta in difficoltà sui contenuti… questo sarebbe un problema che un narratore deve saper affrontare… ma che si smaterializza tra le tue mani quasi giorno dopo giorno.

È chiaro che dipende dai temi. Se racconti il bullismo, come ne La vita finora, si tratta di un’evoluzione di violenza e aggressività di gruppo che c’è sempre stata. A tal proposito, mi viene in mente una curiosità. Nessuno sa che Mussolini per un po’ ha insegnato nell’equivalente di quelle che all’epoca erano le scuole medie e i ragazzini lo tiravano scemo! C’è una lettera di Mussolini in cui dice: non mi ascoltano, mi ridono in faccia… immagina, con Mussolini un secolo fa. Ecco, un tema come questo è attuale, nella versione cyber, ma anche molto radicato.
Di recente mi sono occupato del tema della migrazione, tema che si è proprio installato, però, ormai. Cioè non è un presente che cambia, ma una roba che c’è da decenni e chissà quanto andrà avanti, e chissà che il mondo non esploda per questo. Temi come questi non sono dei punti nel tempo, sono linee.

Naturalmente questo problema dell’inafferrabilità del presente è meno drammatico se racconti generazioni più vecchie, più resistenti alle trasformazioni. Il loro sguardo sul mondo ormai è quello che è, difficilmente cambierà e se lo farà accadrà lentamente. Quel che è certo è che il narratore non è fortunato, le mutazioni sono così radicali e rapide che diventa onestamente difficile raccontarle.


La questione della migrazione e dei migranti, che sta tenendo banco nel discorso politico, è centrale anche nel tuo romanzo. Ognuno di noi è lo straniero di qualcun altro e il dramma sta, poi, nell’incomunicabilità che ne deriva. Adam, il ragazzino egiziano che entra nella vita di Milo, il tuo protagonista, mente, dice bugie fin dal principio della storia. Dunque si ritorna, per certi versi, a questa incomunicabilità. Perché? La sua è una sorta di autodifesa, come un istinto di conservazione, o possiamo intenderla come l’impossibilità di comprenderci di cui abbiamo appena accennato?

Nel romanzo la mia idea era di fare la cosa che in realtà si cerca sempre di fare con le storie, per quanto possibile, cioè raccontare il generale nell’individuale. Per cui questa irruzione, questa invasione che c’è in casa di Milo – casa che naturalmente ha un valore simbolico e rappresenta il suo corpo – sarebbe potuta avvenire a opera di un’altra figura, un ladro, una donna che scappa da un marito violento, insomma da chiunque. Mettendogli in casa un migrante, la piccola invasione che subisce Milo diventa un emblema della grande invasione che avviene a livello territoriale e collettivo – volendo usare questa parola, invasione, che però, naturalmente, è mistificatoria. A quel punto ciò che a me interessava, e mi ha sempre interessato come narratore, non era una divisione manichea tra bene e male. Tutte le storie, anche se in fondo può sembrare fuori moda dirlo, parlano di un conflitto etico. Ma le storie che raccontiamo, per valere qualcosa, devono testimoniare il fatto che nella realtà bene e male sono sempre intrecciati.

Milo non è semplicemente un benefattore, anzi è uno che ha un sacco di contraddizioni di cui la prima è la contraddizione tra il predicare il bene in grande, con le sue campagne umanitarie, e faticare a praticarlo nelle piccole cose, negli affetti. Adam da parte sua è un cucciolo che fa quello che fanno tutti i cuccioli in pericolo: piange, seduce, mente, ringhia, graffia e così via. Proprio il fatto che queste due persone non siano un filantropo e un diseredato, ma un nevrotico e un bugiardo, a voler semplificare un po’, rende il sentimento di tenerezza e attrazione che nasce fra loro più interessante. È anche un sentimento asimmetrico: per Milo attrazione paterna, per Adam, che è omosessuale, il sospetto di un vero e proprio amore. Col procedere della storia il loro rapporto diventa molto commovente, secondo me. Un sentimento contraddittorio che prima del finale conoscerà molti ribaltamenti.
La grande poetessa Marianne Moore ha detto una cosa per me molto vera: “noi dobbiamo mettere rospi veri dentro giardini immaginari”. Il giardino, cioè la storia, è sempre immaginario, è “fiction”. Ma i personaggi devono essere veri, come i loro sentimenti ed emozioni. Questo per me è il compito numero uno del narratore.

Milo è lo stereotipo del bravo borghese, per certi versi. Credi che lui, così come anche la classe sociale che parrebbe rappresentare – cioè la buona borghesia, per così definirla –, sia egoista? O credi forse che questa sorta di egoismo sia un tratto caratterizzante questo personaggio dovuto al dolore che è stato costretto ad attraversare in passato?

Esiodo diceva che persino lo sciocco impara dal dolore, cioè il dolore è il primo maestro, in senso anche biologico ed evolutivo. Questo vale anche per i dolori psichici, dell’anima. Per cui persone che hanno avuto un normale percorso nel loro rapporto con il mondo attraverso esperienze dolorose sono persone mature, capaci di provare quella che adesso è chiamate empatia e che ai miei tempi si chiamava simpatia. Cioè: riconosco in te il mio dolore. Ti vedo soffrire, provo compassione perché so cosa vuol dire soffrire.

Secondo me, Milo è sì egoista, ma per un altro motivo. Le nostre generazioni, persone che sono state giovani tra gli anni Ottanta e i Novanta, si sono allontanate da quel sentimento di solidarietà dominante nel dopoguerra e sono state letteralmente addestrate all’egoismo. Il grande messaggio che ci è stato dato era: “Guardati intorno: sei un privilegiato. Goditi i tuoi privilegi e non rompere le scatole”. E se per caso, per motivi idealistici, tu vuoi andare oltre al godimento del privilegio che ti è assegnato e occuparti degli altri, ecco che vieni rimproverato, odiato. Guarda Greta Thunberg. Cosa le dicono, in fondo? “Ragazzina, ma tu che vuoi? Vai a studiare con i tuoi amici e non rompere a noi”. Siamo stati ben addestrati a stare ciascuno dentro una sua casella, che bada bene non è stretta, è comoda: abbiamo belle case, belle auto, un livello di benessere spaventoso. Abitiamo un mondo talmente pieno di benessere materiale che, appunto, chi guarda al di là di questa celletta comodissima in cui sta ciascuno di noi è considerato un traditore del destino suo e di tutti, perché è come se in lui vedessimo riflesso il senso di colpa che proviamo per la nostra inerzia.

Da qui la critica ossessiva della figura del cosiddetto radical chic, una cosa che di più imbecilli non se ne possono immaginare. I ricchi che invece di arroccarsi nel loro status votano a sinistra, la società dovrebbe ringraziarli. Un elettore con i soldi dovrebbe votare compulsivamente a destra, non a sinistra! Io per esempio, che qualcosa nella vita ho messo da parte e che non sono un lavoratore dipendente, dovrei essere un elettore salviniano. Voto a sinistra perché per il mondo penso sia meglio una politica progressista, ma questo è considerato un tradimento, un’incoerenza. È tutto alla rovescia!

Milo e Vera hanno un rapporto assai particolare, leggendo di loro ho come avuto l’impressione che la passione tra i due sia nata dal dolore. C’è amore senza conflitto? E se quest’ultimo, cioè il conflitto, supera il primo? È possibile? E cosa accade?

Credo valgano entrambe le cose. Io sono d’accordo con Milo là dove dice di avere amato solo nel dolore. Lui per Vera prova un’attrazione fortissima, anzitutto sessuale, ovviamente, ma soprattutto di personalità. L’ex moglie di Milo, Elisa, era una donna che aveva posto la sua scommessa esistenziale sulla maternità, e non essere stato capace di aiutarla fino in fondo a essere madre è la grande colpa che Milo si rimprovera, aiutato da Elisa stessa che glielo butta spesso in faccia. Ma Milo in quella situazione ha fatto una scelta razionale. In sostanza lui si è detto: “Siamo nella fase declinante del rapporto. Cercare una strada per ritrovarci è una cosa che adesso non mi sento più di fare. Sia per me, sia per il bambino che potremmo avere, sulle cui spalle metteremmo il compito di raddrizzare un rapporto ormai entrato nel crepuscolo”. Questa risposta è profondamente giusta e razionale, ma la vita non è fatta solo di risposte razionali. Quando poi Milo incontra Vera, con questa sua femminilità moderna e diversa da Elisa, prima scatta la passione sessuale. Ma è quando lei ha una crisi di epilessia che si compie un passaggio decisivo tra loro, perché lui la vede per la prima volta abbandonata e indifesa. A quel punto scatta in Milo un senso di riconoscimento di questo smarrimento, un fortissimo impulso di protezione verso di lei. È a quel punto che si innamora davvero di lei.

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