Messinese di nascita e romana di adozione, Nadia Terranova è una delle narratrici più apprezzate e originali del panorama italiano contemporaneo. Dopo il successo de Gli anni al contrario, edito da Einaudi nel 2015, è recentemente tornata in libreria con un nuovo, delicatissimo romanzo, Addio fantasmi, sempre per Einaudi, con cui è candidata al 73° Premio Strega.
Addio fantasmi è il racconto di un trauma che si fa ossessione, la narrazione di come un tormento possa abbacinare un essere umano fino a renderlo cieco di fronte alla vita stessa. È un romanzo sul dolore fattosi monumento, sui silenzi che strepitano, sulle assenze che pesano quasi come se avessero una loro consistenza. Convivere con i propri fantasmi è una guerra totale. È vederli appollaiati sul davanzale della finestra, è camminare loro accanto per una strada altresì vuota, è fissarci a uno specchio incapaci di scorgere il nostro stesso riflesso. La Terranova, con uno stile limpido e intimo, ci porta con sé in una battaglia a dei fantasmi che sono al tempo stesso personali e universali.
Abbiamo incontrato l’autrice al Salone del libro di Torino, ecco cosa ci ha detto.
Leggendo il tuo ultimo romanzo, Addio fantasmi, mi è tornato in mente un vecchio lavoro di Gianrico Carofiglio, Il passato è una terra straniera. Ida, in effetti, è rimasta incagliata agli scogli di un passato che sembrerebbe esserle più familiare del suo stesso presente. Ho avuto, insomma, l’impressione che viva il quotidiano come una terra straniera. È così?
Sì, è così. Ida non ha i piedi piantati nel presente, ma soprattutto non ha futuro. Il futuro è totalmente assente in questo libro, racconta un paesaggio che ne è privo. Tutto quello che le manca è la capacità di dire “domani”. Ida non dice mai “domani farò”, “domani penserò”, “domani potrebbe accadere questo o quest’altro”. Non si chiede che fine farà il suo matrimonio. Un matrimonio denso, una bella storia d’amore, ma un incagliato. Un altro personaggio si sarebbe interrogato su come disincagliarlo, ma non avendo lei il concetto del “domani” si limita a registrare il presente. E basta.
Le è tanto estraneo il presente quanto il futuro o il futuro è qualcosa che più semplicemente le fa paura?
Ida un futuro non ce l’ha. È come il paganesimo, non c’è un’idea di Dio che non siano gli dei. E non essendoci un Dio, per lei che è pagana, non c’è una proiezione verso alcun aldilà, anche terreno.
Parliamo di Sebastiano, il padre di Ida. In lui ho visto la figura del forestiero di Pirandello. Si tratta forse di una persona che a un certo punto ha deciso di togliersi la maschera e di lasciarsi trasportare dalla vita?
Mi fa piacere che tu me lo chieda perché c’è senz’altro molto Pirandello in questo libro. In giovinezza sono stata una sua grande lettrice, poi l’ho abbandonato e quando l’ho ripreso, dopo tempo, l’ho trovato invecchiato male rispetto al mio percorso di lettrice. Invece il Pirandello che mi aveva attraversato in adolescenza a quanto pare riemerge. Non avevo mai pensato a questo personaggio in questi termini, ma mi convince molto. Noi non abbiamo mai il punto di vista di Sebastiano, ma sempre e solo quello di Ida, perciò non sappiamo nulla delle reali motivazioni per cui è sparito. Io non so, insomma, ciò che c’era dietro quella maschera ed esattamente come in Pirandello ciò che viene rappresentato è unicamente il circolo delle persone intorno alla maschera indossata e intorno alla maschera tolta.
Parlando di Ida, la sua potrebbe essere considerata una catabasi? Se sì, è una catabasi da cui poi riemerge?
Sì. Decisamente. Ma guarda, io non credo nella riemersione dal dolore. Nel superare o elaborare. È come quando attraversi il centro della terra, spunti dall’altra parte e non c’è bisogno di fare lo stesso percorso all’inverso. Sarebbe anche innaturale. Scendi, trovi qualcosa nel buio che magari ti apre gli occhi e ti cambia il mondo, e perché dovresti tornare su dalla stessa strada?
Parlando di dolore. Ida deve scegliere cosa tenere e cosa buttare tra gli oggetti della sua casa d’infanzia. Dunque cosa ricordare e cosa dimenticare. Secondo te il dolore devi assimilarlo o estirparlo?
Estirparlo è inutile. Non serve. Ed è orribile. È dolorosissima la felicità passata, è dolorosissimo il ricordo di qualcosa che non c’è più, ma è più doloroso il ricordo della felicità piuttosto che il ricordo del dolore. Il punto di arrivo, dopo una fase di elaborazione della sofferenza, è dirsi “io sono la mia ferita”, così da poterla affrontare, ma dirsi che quella ferita non c’è sarebbe falso. Voglio dire, pensa a un corpo completamente privo di qualsiasi segno, cicatrice, rossore o traccia: non è auspicabile. Sarebbe privo di esperienza, e senza esperienza non siamo niente.
Quello che mi ha colpito del dolore di Ida è che per tenere in vita il ricordo del padre ha ucciso una parte di sé stessa. Perché siamo pronti a questo sacrificio? Perché siamo pronti a uccidere una parte di noi stessi pur di non lasciar andare qualcosa o qualcuno?
Qual è la parte di sé stessa che Ida, secondo te, ha voluto uccidere?
Il suo futuro, direi.
Ma sai, in realtà dentro di noi non abbiamo necessariamente un “futuro”. La sua fede nel futuro è morta, quella sì. Ma non è stata uccisa. È solo morta, è accaduto e basta.
A Pietro, il marito di Ida, non è concesso di entrare a Messina. A Ida non è concesso di entrare nella sfera emotiva di Nikos, una sua nuova conoscenza. Perché tendiamo ad allontanare chi cerca di aiutarci?
Ida è impegnata in una feroce lotta con il mondo per tenerlo alla larga dal proprio dolore. Un dolore che difende perché vuole viverlo alla sua maniera. In realtà, però, non tiene fuori Pietro, la loro unione si fonda spontaneamente su quel cancello chiuso. Proprio poiché lui non appartiene a quel trauma, è stato scelto. Lui è l’alternativa, l’unico domani possibile, l’unica persona di cui si sia fidata e che non aveva niente a che fare con la sua infanzia. Il fatto di non dovergli rendere conto di questa faccenda le concede una sorta di libertà binaria: da un lato può essere chi vuole all’interno del suo matrimonio, dall’altro può avere un rapporto con il passato che è solo suo. Senza interferenze.
Perché vuole vivere questo dolore da sola?
Io non credo ci sia la volontà di farlo. Credo che accada. Che alcune persone, inconsapevoli e incapaci di aprire le proprie porte, sentano che devono lasciarlo accadere. Non riesco a vedere il vivere il dolore come un fatto di volontà. Siamo attraversati dalle emozioni, sono cose su cui non abbiamo il controllo.
Parliamo adesso della madre di Ida. Cosa la spinge a vivere nell’assenza di una persona? E i silenzi che condivide con la figlia di cosa sono fatti?
Il silenzio è il loro dizionario. È un silenzio parlante. Usano delle parole, ma sono parole vuote: parlano dei coprisedie, della frittata, del motorino. Di cose concrete, sì, ma la cosa più concreta che avevano, il corpo di un’altra persona, si è smaterializzata. Io credo che nelle famiglie ci sia spesso, quando c’è una tragedia, un lutto, una lacerazione, un abbandono, una grammatica che si costruisce attorno a ciò che non si dice. Dentro le famiglie vedo più quello che non si dicono piuttosto che quello che si dicono. Quando viviamo nell’intimità con qualcuno costruiamo il rapporto anche su quello che non ci diciamo, su quello che è meglio non dire.
Secondo te il dolore ci rende egoisti?
Molto. All’inizio il dolore è molto egoista. Non ci rende cattivi, ma ci chiudiamo tutti. L’immagine più rappresentativa del dolore, secondo me, è quella della persona che lo condivide, che sta con le persone che ha attorno, ma che poi si chiude in bagno e piange.
Addio fantasmi mi ha anche ricordato Olive Kitteridge. La trattazione del dolore in un certo senso è paragonabile. Non credi?
Sì, è vero, ma adesso penso più a Mi chiamo Lucy Barton. Effettivamente la Strout è una scrittrice che mi piace molto. In tutti i suoi romanzi c’è sempre una solitudine feroce nelle persone che soffrono.
Hai scritto un romanzo molto intimo e che, per forza di cose, deve averti costretta a fissare negli occhi determinate tue ossessioni, dolori che ti portavi dentro. Scrivere ti ha aiutato ad esorcizzarli? La scrittura ti aiuta, in tal senso?
Purtroppo no. Scrivere è andare in guerra. Chiami dei fantasmi, e quelli chiamano i rinforzi. Capiscono che li stai raccontando e allora fanno l’adunata. È una guerra che non si placa neanche quando il libro finisce, non è per niente terapeutico. Però c’è una luce, un sollievo quando gli altri leggono. Per questo scrivo per gli altri. Perché quando un lettore mi dice anche io , soprattutto per un libro così intimo, si crea una leggerezza. La scrittura di per sé crea un conflitto fortissimo, ma poi arriva il lettore.