Madri. Creature misteriose ed eccezionali. Di loro e del loro rapporto con i propri figli e le proprie figlie, la letteratura ha parlato molto. Da Elena Ferrante in L’amore molesto a Louisa May Alcott in Piccole donne, da Lev Tolstoj in Anna Karenina a Bertolt Brecht in Madre coraggio e i suoi figli. A mio modesto parere, ci vuole una buona dose di coraggio per dedicarsi alla narrazione di un legame così sfaccettato e viscerale, di una figura così difficile da racchiudere in linee nette e allo stesso tempo imperitura. Chi lo fa e riesce, sempre a mio modesto parere, ha superato una grossa prova autoriale.
Di recente a farlo e a riuscirci è stato Marco Albino Ferrari, in libreria (anche) con Mia sconosciuta. Un romanzo intenso, intimo, diretto. In una continua conversazione con la madre che non c’è più, l’autore racconta la storia della propria infanzia e adolescenza e traccia i contorni di una donna e di una madre che in sé racchiude un intero universo. C’è lei, “dolce, ambigua, spietata”, e ci sono le vette, le sommità delle montagne che madre e figlio scalano in solitaria. Su questo binomio, raccontato con sincerità emotiva e intellettuale, si muove Marco Albino Ferrari costruendo un romanzo vero e bellissimo.
Per trent’anni hai scritto delle montagne. Ora, con questo romanzo, pur lasciando che le vette avessero un posto da protagoniste, hai tentato una strada più intima. Perché?
Era rimasto in sospeso un grande nodo. Una storia che mi riguardava da vicino. Una storia affascinante e sorprendente. Come affrontarla? Ho lasciato che le cose si sbrogliassero da sole, attendendo il momento giusto che poi è arrivato all’improvviso. Come quando si accende una lampadina in una stanza buia, e tutto diventa chiaro. È accaduto con la morte di un mio amico d’infanzia, Alessandro Pansa (figlio del giornalista Giampaolo), che dà il via alla storia.
In certi passaggi il romanzo è rivolto a tua madre, una sorta di lettera che le scrivi come nella ricerca di un canale di comunicazione con lei. C’è anche un intento del genere?
In alcune parti del romanzo, dove l’intensità emotiva è più viva, ho sentito il bisogno di passare a un registro diverso. Mi rivolgo direttamente a mia madre, oggetto e soggetto del racconto. È lei la protagonista del romanzo, ma è anche la destinataria di questo testo che in fondo è una lettera aperta.
La solitudine, una solitudine totale, profonda, nera, permea molte pagine del romanzo. Alle volte, però, parrebbe uno stato d’essere ricercato, inseguito. Si tratta di un rifiuto per il mondo?
Esistono due categorie ben distinte e che è importante non confondere. La solitudine e l’isolamento. L’isolamento è una condizione non ricercata, allude a una costrizione, a un’emarginazione (la “cella d’isolamento”). La solitudine è uno stato dell’anima, e non è legata a una contingenza oggettiva: si può essere soli ovunque. La solitudine è necessaria, soprattutto nel dialogo con la natura.
“Sembra un paradosso, ma penso che i ricordi abbiano bisogno di molto tempo per diventare realmente nitidi. In quelli recenti si è ancora troppo compromessi.”. La memoria nel romanzo ha un ruolo fondamentale. Mi chiedo: quanta porzione di vita credi che si viva in retrospettiva?
Più si invecchia più ci si affida alla memoria. È come se a un certo punto della vita, le prospettive mutassero. E dalla speranza, dalla progettualità, dalla proiezione di noi nel futuro (condizione del giovane), si passa a osservare di più ciò che è stato. È come un giro di boa. Capita a tutti nella vita. Ed è un bel momento perché si apre tutto un nuovo scenario in cui immergersi, in cui vivere. Diciamo che, in questo senso, ricordare diventa una novità.
La memoria è una sorta di taglia e cuci; eliminiamo le parti che più ci hanno fatto soffrire o ce le teniamo strette, decidiamo di posizionare al centro di tutto una data persona o esperienza o ci limitiamo a relegarla in un angolino. Cosa rimane fuori da questo patchwork, secondo te?
Non ricordiamo l’irrilevante. Ciò che non ci ha segnato. E soprattutto rimane sommerso nell’oblio ciò che non ci serve. In fondo ricordiamo seguendo un percorso dettato dall’inconscio. E non sono mai ricordi del tutto oggettivi, come ci ha spiegato Primo Levi.
Penso ci voglia un certo grado di distacco emotivo per narrare di una persona importante come la propria madre. Quantomeno penso serva uno sforzo di oggettivazione. Per te è stato così?
Non saprei dire. Il coinvolgimento c’è sempre quando si scrive, ma c’è anche il distacco dettato dal mestiere. Si corre su questi due fili, tra l’impulso emotivo e la ponderazione razionale, tra il dionisiaco e l’apollineo.
La montagna, nel rapporto con tua madre, diventa luogo di comunione e personaggio a sé che sembrerebbe quasi avere la capacità di modificare le sorti della storia. L’ambiente, fatto delle montagne e della gente di montagna, quanto ha influenzato il tuo essere? E in che modo?
La montagna ha segnato profondamento mia madre, come luogo di fuga, come lindo idealizzato dove trovare quella luce che altrove si faceva sempre più fioca. In me si è riprodotto lo stesso riflesso, come tutto il resto che ho ricevuto in eredità da mia madre, che era di fatto una vera donna romanzesca.
Ultima domanda, per questa ci scostiamo dalle sfere affettive. Quale destino per la montagna? Scioglimento dei ghiacciai, inquinamento, urbanizzazione selvaggia. Che ne sarà delle vette?
Le vette, la parte apicale delle montagne, sono un elemento secondario. I veri problemi si riscontrano nella mezza montagna, quella abitata. O meglio quella che era abitata. Dopo lo spopolamento degli anni Sessanta-Settanta intere vallate alpine e appenniniche sono rimaste quasi disabitate e si è innescato un processo di rinaturalizzazione che ha portato alla perdita progressiva del paesaggio culturale. In quota, l’arretramento dei ghiacciai è un impoverimento non solo per la montagna ma per l’intero equilibrio naturale. Per esempio: i ghiacciai sono una riserva idrica per l’industria agricola delle pianure, e non solo. Penso che l’industria dello sci non dovrebbe più ricevere finanziamenti pubblici e intere stazioni sciistiche dovrebbero riconvertirsi in aree naturali, come è avvenuto al Monte Dobratsch, un tempo skiresort per eccellenza della zona della Carinzia e oggi, dopo che gli impianti sono stati smantellati, area riconsegnata alla natura alpina. O come sta succedendo all’alpeggio dei Piani d’Erna, sopra Lecco, che viene finalmente ripulito dai suoi vecchi e ischeletriti skilift, simboli di un tempo ormai alle spalle.