Intervista a Lorena Spampinato, autrice di Piccole cose connesse al peccato

In un paese vicino Taormina, Annina ed Enza, cugine, e appena adolescenti, condividono una stanza nella vecchia casa della nonna, dove passeranno un’estate. Un’estate importante, fondamentale come lo sono tutte quelle in cui, a passo malfermo, ci avviciniamo all’età adulta. Un’estate che comincia quando compare, all’orizzonte delle cugine, Bruna: ragazza selvatica come una gatta randagia, piena di vita e di rabbia – con lei fa capolino un gruppetto di ragazzi, maschi abituati alla violenza e che tirano avanti come possono. Un’estate che ci viene raccontata da Annina, la più timida, la meno esperta di vita, che osserva, guarda chi e cosa ha attorno, prendendo parte all’azione del mondo per la prima volta. Piccole cose connesse al peccato, Feltrinelli 2023, è un viaggio verso un tempo che molti di noi si sono lasciati ormai alle spalle, e che però continuano a visitare, nella propria mente, ancora e ancora. È un romanzo sul desiderio e sul senso di colpa, sull’essere figli e sulla scoperta dell’altro.


Il ricordo più vivido, su due piedi, della tua adolescenza?

Il libro è ambientato in un paese vicino Taormina, Letojanni; anche se non lo nomino mai. Lì, a Letojanni, ho trascorso tutte le estati della mia adolescenza, e molti dei ricordi di quel periodo sono legati a questo posto. I mie genitori e i miei nonni hanno casa lì, e ci andavamo tutti gli anni: finita la scuola, facevo lo zaino e mi ci trasferivo per luglio e agosto. Dunque, se mi chiedi un ricordo specifico della mia adolescenza, per forza di cose, torno a Letojanni, all’estate e a quelle spiagge. Su due piedi, poi, mi viene alla mente il ferragosto dei miei tredici anni. Per noi siciliani ferragosto è importante, soprattutto da ragazzini; organizzavamo feste, notti sul litorale: era molto divertente. Ecco, questo qui, di cui ti parlo, era il primo ferragosto che io e le mie amiche avremmo passato da sole, senza i nostri genitori attorno: eravamo emozionatissime. Ogni anno, i ragazzini portavano delle tende da campeggio, le piantavano nella spiaggia con gli amici e mettevano su veri e propri villaggi, agglomerati di tende attorno cui, poi, trascorrevano tutta la notte; ridendo, accendendo falò. I nostri genitori, quelli miei e delle mie amiche, però ci avevano proibito di usarle, le tende, e chissà perché, così, ben decise a non sfigurare agli occhi degli altri, abbiamo preso il toro per le corna e ci siamo costruite noi stesse delle tende. In quelle spiagge i villeggianti avevano l’abitudine di non togliere mai i propri ombrelloni dal punto in cui li avevano piantati a inizio stagione – era come se così facendo avessero scelto, in modo arbitrario e però del tutto legittimo, il proprio fazzoletto di spiaggia: da quel momento nessuno avrebbe più potuto rivendicarlo. Ecco noi, nottetempo, la sera prima di ferragosto, abbiamo saccheggiato, senza alcuno scrupolo, parte di quel litorale e rubato un mucchio di ombrelloni. Poi, la sera di ferragosto, siamo scese in spiaggia, abbiamo incastrato assieme gli ombrelloni e ci siamo costruite la nostra tenda.

Ti ho chiesto un ricordo della tua adolescenza e mi ha raccontato un vero e proprio atto di ribellione.

Credo che la ribellione in adolescenza sia un passaggio fondamentale. Io sono stata una ragazza molto ubbidiente, osservante delle regole, ma penso che sia un momento importante, quello della ribellione.

Hai anche parlato della provincia, rispondendomi – provincia che nel tuo romanzo ha un ruolo importante. Nel romanzo, però, quella che descrivi non è una provincia asfissiante, com’è in gran parte delle narrazioni che siamo abituati a leggere.

È vero. Però io, in effetti, l’ho vissuta così come dici tu. Sono nata e cresciuta in un piccolo paese siciliano e a diciott’anni sono fuggita.

Perché?

Perché, per certi versi, era limitante. Andavo a ballare, alle feste, a casa degli altri miei coetanei e, mentre tutti, poi, rincasavano con i motorini, a me veniva a ripescare mio padre, in pigiama, impastato di sonno, alle tre, quattro di notte. Desideravo avere più libertà.

Non avevi il motorino, da ragazzina?

Eh no. Sarebbe stato inutile. Dal paese dove vivevo a Catania, dove abitavano quasi tutte le mie amiche e dove passavo una gran parte del mio tempo libero, la distanza era troppa e la strada brutta e poco illuminata. E poi, l’unica volta in cui l’ho usato, un motorino – mi era stato prestato da una mia amica – sono andata a schiantarmi contro un muro.

Sul serio?

Sul serio! Per fortuna, non mi sono fatta niente.

Lorena Spampinato

Torniamo a quelle estati, quelle della tua adolescenza. Qualche domanda più su, hai detto di essere stata una ragazza molto ubbidiente e osservante delle regole.

In realtà sono stata una bambina ubbidiente, osservante delle regole. Ho avuto un’infanzia di grande timidezza e solitudine, e arrivata all’adolescenza quindi ho cercato di nasconderli, o mascherarli, questi miei tratti. Non ero poi molto socievole, ma mi sforzavo di farlo: se l’infanzia era stata così solitaria, volevo che in adolescenza le cose cambiassero.

È stato allora che hai cominciato a farti delle amiche?

Bene o male, sì. Direi di sì.

Le amiche la vedevano, questa tua timidezza?

È una domanda interessante ed è qualcosa su cui da adulta mi sono interrogata a più riprese. Io dei ricordi di questa mia timidezza li ho. Era un modo d’essere che mi limitava, che non mi permetteva di fare determinate cose che i coetanei facevano di continuo e che non mi faceva aprire granché con le persone vicine e importanti. Quindi, insomma, credevo fosse qualcosa di evidente, e che non fosse possibile ignorarlo. Solo da adulta, poi, ho scoperto che gli altri avevano di me una percezione assolutamente diversa.

Vale a dire?

Le mie amiche oggi mi dicono che non ero affatto timida, e che, anzi, ero una ragazza molto socievole.

Una contraddizione piuttosto forte.

Sì, certo. È anche per questo che ho cominciato a scrivere.

Non capisco.

Da bambina non trovavo il modo di esprimermi; la ragione, per me, era questa mia timidezza. Così ho iniziato a scrivere, credendo fosse un buon mezzo per dire quel che non riuscivo altrimenti.

Soffermiamoci un attimo sulla percezione che avevi di te stessa e su quella che avevano le tue amiche.

È strano, lo so, ma credo capiti a tante persone: la percezione che abbiamo di noi stessi è spesso falsata, filtrata dall’idea che abbiamo di noi. Un’idea che può essere molto diversa da quella che ne hanno gli altri. Noi portiamo il nostro mondo interiore verso l’esterno, gli altri con noi fanno un’operazione del tutto simile ma in senso opposto.

Oggi come pensi di essere?

Timida.

Be’, io e te ci conosciamo da un po’ ormai e l’impressione che ho non è di una persona timida, in effetti.

Eh, credo d’essere diventata brava a nasconderlo, con il tempo – ride, ndr. Ho fatto tanta fatica, negli anni, lavorando su un senso d’inadeguatezza che sento dentro e che non riesco a comunicare se non con la scrittura.

Il senso d’inadeguatezza nel romanzo, in effetti, c’è. La prima volta in cui l’ho avvertito leggendo è quando Annina scopre l’altro, facendo una sorta di paragone tra il proprio corpo e quello di chi ha attorno. Quanto credi ci modifichi, a quell’età, il paragone con gli altri? Quanto credi ci spinga a cambiare, cercare d’essere diversi da quel che siamo?

Tantissimo. Io non sono mai arrivata a provare invidia per le mie coetanee, o per le mie amiche – e anzi, il corpo femminile mi ha sempre molto affascinata, interessata -, però le differenze tra me e le altre, da ragazzina, non ero capace d’ignorarla. Il confronto, insomma, l’ho sempre fatto, ma non in modo cattivo e sempre senza alcuna invidia. I corpi delle mie amiche, tanto li ammiravo, li ricordo ancora in ogni dettaglio; le mani e i fianchi, e poi le movenze e i gesti.

Parliamo del desiderio, seconda parte del romanzo: che ruolo ha nel libro e quale nella tua vita?

Nella storia il desiderio muove tutto, e così è anche nella mia vita, nella realtà. Mi sono sempre sentita un soggetto desiderante, portata avanti da una forza e in delle direzioni che scaturivano da me stessa, da dentro. Penso che sia stato il motore immobile della mia esistenza, sempre.

Come ti spinge il desiderio?

In modo molto istintivo. Le decisioni più importanti della mia vita, mi rendo conto oggi, in retrospettiva, le ho sempre prese nell’arco di niente.

Perché?

Perché i miei sono desideri parlati: chiari, limpidi. Non devo indagarli così da capire cosa significhino, cosa vogliano dirmi, e in che modo debba perseguirli o metterli in atto.

Quindi pensi che il desiderio si debba seguire sempre.

Sì. Altrimenti finiamo a lottare con il senso di colpa per aver tradito una parte viscerale, importantissima di quel che siamo e sentiamo.

A proposito del senso di colpa. Nel romanzo c’è.

È un altro dei miei motori immobili – proprio come il desiderio.

Che origine ha?

Lo indago da tanto tempo, ma una risposta non credo d’averla ancora trovata. Però, a proposito di desiderio, di decisioni prese rapidamente e istintivamente, e a proposito del senso di colpa, mi sono resa conto, interrogandomi su certe cose che ho fatto, che la domanda non era perché l’ho fatto ma per chi. Ecco, ho capito che spesso agisco per qualcuno, per soddisfare gli altri, e penso che il mio senso di colpa nasca anche da questo, dalla paura di deludere.

Genitori e figli. Tu scrivi: le madri scavano abissi, precipizi, burroni e noi figlie ci cadiamo per tutta la vita. C’è una sorta di predestinazione, quindi.

È un’immagine che mi è venuta in mente dopo aver letto uno scambio tra due scrittrici che amo tanto, Natalia Ginzburg e Alba De Cespedes. Ginzburg dice a De Cespedes che le donne ogni tanto cadono in un pozzo e che non possono raggiungere quel che hanno gli uomini proprio per questo, perché sono dentro questo pozzo, fatto d’inadeguatezze e di malinconie. De Cespedes le risponde che sì, è vero, che li conosce pure lei, quei pozzi, ma che pensa che, in realtà, quei pozzi rendano le donne più forti: vedere, visitare, conoscere le profondità del proprio pozzo, infatti, dà alle donne delle consapevolezze che gli uomini, a conti fatti, non potranno mai avere. De Cespedes, poi, aggiunge che non ha mai visto una donna buttare, spingere un’altra donna nelle profondità di questi pozzi, ma su questo non mi sono trovata granché d’accordo. Nei racconti delle adolescenze che conosco spesso sono proprio le madri a scavare i pozzi.

Perché?

Ognuna ha le proprie ragioni, ma crescendo credo d’aver capito che le madri, quelle delle generazioni precedenti alla nostra, facevano parte di quel sistema patriarcale, in cui erano nate e cresciute – per cui non conoscevano altro -, in cui le donne erano nemiche persino delle altre donne. Michela Murgia, tempo fa, ha detto che se gli uomini per crescere devono uccidere il padre, le donne devono perdonare la madre. Ecco, lo penso anch’io.

Lorena, l’ultima domanda – la faccio sempre, questa: immagina di avere settant’anni. È domenica mattina: dove sei, con chi sei, che fai?

Oggi abito nella casa in cui vivevo da bimba – i miei genitori si sono trasferiti anni fa, così ci sono venuta a stare io, con la mia famiglia -, cosa che ha in sé un che di bello e circolare, e spero di trovarmi ancora qui da anziana. Dunque sono qui, tra queste stanze, e sto facendo colazione, cosa che mi mette sempre di buon umore, ma in piedi, che non la faccio mai da seduta, e sto per iniziare la giornata, una bella giornata.

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