a cura di Paola Zoppi
Levi Henriksen è lo scrittore norvegese autore di Il lungo inverno di Dan Kaspersen – da poco uscito per la casa editrice Iperborea – e Norwegian Blues. Abbiamo parlato con lui di romanzi, letteratura e musica (Henriksen è anche cantautore).
Quando Dan Kaspersen esce di galera, il senso di colpa sembra assalirlo, non ha voluto incontrare subito suo fratello Jakob e poco dopo si toglie la vita, è convinto che avrebbe potuto impedirgli di commettere quel gesto irreparabile. Che cosa accade nell’animo di Dan quando rimette piede nella casa di famiglia?
Bene, puoi immaginare come ci si possa sentire dopo aver perso il proprio fratellino per un apparente suicidio, e rendersi conto che avresti potuto evitarlo se fossi andato diritto a casa. Dan è un’anima perduta che sente molto il senso di colpa e soprattutto sente di aver tradito la sua famiglia e suo fratello. Quando scopre che il fratello è morto, vuole ancora di più lasciare Skogli il prima possibile. Si incolpa, e in un certo senso sente che suo fratello è morto a causa dei suoi peccati. Entrambi sono cresciuti come pentecostali, e sono stati educati a leggere la Bibbia, quindi per farla breve: Dan sente che perdere suo fratello è perdere sé stesso, quella parte di lui che era pura e pulita.
In un’intervista hai detto che “tornare in un luogo lontano dalla città, più silenzioso, può aiutare a riguadagnare la propria anima“. Che rapporto hai con Kongsvinger, il paese che hai scelto come base per i tuoi romanzi e dove sei nato?
Ho 55 anni e ho viaggiato molto, ma non ho mai avuto una casa fuori dalla zona di Kongsvinger. Mi piace dire che io e Kongsvinger siamo come una vecchia coppia sposata, a volte bisticciamo, a volte riusciamo a sopportarci a malapena, ma abbiamo un legame profondo. Vengo da qui, il fiume Glomma (il più lungo della Norvegia) che divide la città in due, la vecchia fortezza per tenere fuori gli svedesi, la natura è nel mio sangue. E in un modo strano, mi piace (o forse amo) Kongsvinger più nei miei libri che nella vita reale. Ma poi Kongsvinger o anche più Skogli (una versione inventata del luogo rurale in cui sono cresciuto) è diventato lo sfondo perfetto per le mie storie.
C’è un momento del passato che Dan Kaspersen ricorda e che ha a che fare con una bottiglia appesa ad un albero di betulla, una bottiglia che custodisce sogni, desideri e ricordi: “per ricordarsi di parlare sempre di condividere tutto, che non c’è niente di male ad andarsene per un po’, basta non dimenticare che casa tua è questa“. Tu hai un oggetto a cui ti senti legato e che rappresenta tutto questo?
È una domanda trabocchetto. Sono figlio di un insegnante di catechismo, mi hanno insegnato a non affezionarmi troppo alle cose. Ma ho due dipinti realizzati da mio nonno paterno (che nel 2017 è stato importante per un romanzo) che significano molto per me. E poi c’è un coltellino tascabile che mio fratello ha regalato a nostro padre per la festa del papà prima che io nascessi. Quel tipo di coltello che rappresenta tutto ciò che mio padre era.
Il protagonista del tuo libro ad un certo punto dice “Appena un mese fa ero su una branda in galera a fissare il soffitto. Pensavo a quale sarebbe stata la prima cosa che avrei fatto appena uscito. Non mi veniva in mente niente a parte andare. La possibilità di andare ovunque volessi“. Qual è il desiderio più forte che sente Dan Kaspersen?
Immagino si auguri di non avere più muri attorno a lui. Pareti che sono costrette su di lui. Non ha davvero la minima idea di come guadagnarsi da vivere, e perdere suo fratello gli ha fatto perdere qualsiasi obiettivo che aveva nella vita. Deve imparare tutto da capo, pezzo per pezzo, a poco a poco, per trovare quelle piccole cose nella vita di tutti i giorni che possono essergli utili per dare un senso alla vita, l’inizio di una nuova esistenza.
Nei tuoi racconti la musica è una costante, e come potrebbe essere diversamente per un musicista come te. La scrittura ha un suo ritmo, incalzante, sentimentale, ma anche rurale. Hai detto che il blues cui fa riferimento il tuo precedente romanzo tradotto in italiano, Norwegian Blues, non ha colore come ti ha ricordato una donna afroamericana. Nel lungo inverno di Dan Kaspersen, la musica norvegese contiene una dose di sentimenti che parlano a Dan e spesso sono rappresentati dallo zio Rein, un personaggio buffo e pieno di vitalità. Qual è il brano norvegese che più ti appartiene, che hai inserito in questo romanzo – e sei ancora convinto che il rock stia morendo?
Sono davvero tentato di nominare una delle mie canzoni, ma mi sentirei uno sbruffone, quindi devo dire una canzone di una band che si chiama Onkel Tuka. Hanno una canzone, “Henta av Gud” (difficile da tradurre, ma “Pikcked up by God”) che riassume in qualche modo com’era essere un ragazzo pentecostale negli anni Settanta, capire Kevin Keegan, ascoltare Elvis ma sapere che il tuo il tempo potrebbe scadere presto. Ho detto che il rock sta morendo? Se è così, non lo è! Il rock non morirà mai. È come il fiume Glomma. Guarda quanto può essere piccolo durante le estati più secche, ma vieni in primavera, vieni quando il ghiaccio si rompe…
Il tuo protagonista quando torna a Kongsvinger, continua a ripetere di essere “tornato solo per ripartire”, è inevitabile che senta gli occhi di tutta la comunità addosso, è uscito di galera da poco, ma l’incontro con Mona, una donna che sembra andare oltre il passato, potrebbe incrinare le sue certezze. Senti di avere delle radici comuni con i tuoi personaggi?
Mentirei se dicessi di no. In un certo senso si potrebbe dire che molte delle persone di cui scrivo sono versioni incasinate di me stesso. Immagino che come molti scrittori o musicisti del resto, non mi sono mai sentito completamente a casa quando ero a casa, se capisci cosa intendo, ma da questa tensione viene tutta la mia arte. Ho sempre avuto un forte desiderio di lasciare Kongsvinger, ma non l’ho mai fatto e non credo che lo farò mai. Kongsvinger è entrambe le mie parti buona e cattiva.
Le tue sono storie che hai definito “molto serie”, tuttavia non manchi mai di inserire una vena di ironia, l’hai fatto con Norwegian Blues, che ti ha divertito scrivere e lo fai anche con il personaggio dello zio Rein, che da a Dan delle chance per ricominciare a vivere. Che definizione potresti dare alla parola umorismo?
Molto serie ho detto?! Avrei potuto dire che il libro di Dan è più scuro di Norwegian blues, il che è vero, ma in tutti i miei scritti l’umorismo è molto importante. E ricorda, è molto più difficile far ridere la gente che farla piangere, almeno se cerchi di evitare un umorismo grossolano. Sono stato cresciuto da un popolo di narratori e raccontare storie è sempre stato molto importante, e penso che sia molto importante proiettare luce nell’oscurità. Le mie storie parlano sempre di una sorta di lotta, e penso che noi come esseri umani stiamo meglio quando usiamo l’umorismo e le risate per cercare di superare l’oscurità.
La casa in cui Dan rimette piede, all’inizio del romanzo, è una casa fredda e umida, da cui vorrebbe fuggire, ma man mano che la sua storia prosegue, c’è sempre più calore intorno a lui, la casa stessa sembra trasformarsi in un luogo adatto alla vita. Quanto il futuro di Dan dovrà passare per parole come fiducia e riscatto?
Penso che fiducia sia una parola chiave per l’intero romanzo. L’unica persona di cui Dan si fida e ammira è suo zio. Quindi deve imparare a fidarsi di nuovo di sé stesso, di ciò che è buono in lui, e deve imparare a fidarsi di altre persone intorno a lui. Mona ovviamente è la più importante. E se può convincersi a fidarsi di lei, se davvero può decidere di fidarsi di lei con tutto il suo cuore, allora potrebbe iniziare il viaggio che riscatterà la sua anima.