Può un luogo essere colpevole? Una città, una frazione, un quartiere. La domanda resta sospesa. Campo dell’oro è contraddizione e verità. Rabbia che scorre nelle vene e prosciuga tutto. Uno stradone di un chilometro la divide dalle vie con i nomi dei fiori di Santa Fermina, dove la vita sembra un posto di migliore.
Anna, la protagonista, appare fin dall’inizio divisa tra l’esigenza di scappare, di sottrarsi al destino dei suoi genitori e la necessità di rimanere per proteggere suo fratello Simone, quasi una proiezione di sé, più ingenuo e influenzabile, di un’innocenza che si piega facilmente alle leggi feroci della periferia. L’unico modo per salvarlo da quell’idea di male ontologico che sembra dominare il quartiere e che è incarnata perfettamente dai Sorci è diventare lei stessa una di loro. Anna proverà a entrare nella testa dei Sorci, nel mondo violento che le loro attività impongono, dove non vige altra regola che la sopraffazione, senza riuscire a ottenere i risultati sperati.
Mai stati innocenti (Salani) è il romanzo d’esordio di Valeria Gargiullo, giovanissima autrice nata a Civitavecchia. Ho avuto il piacere di incontrare Valeria, che ringrazio per la piacevole chiacchierata, al Salone del Libro di Torino.
Sei nata nel 1992 e questo è il tuo primo romanzo. Raccontaci, come sei arrivata alla pubblicazione?
Ho frequentato la scuola Palomar e lì ho capito veramente cosa volessi scrivere, mi hanno aiutato a tirare fuori quell’urgenza narrativa che avevo dentro di me. Poi da lì sono arrivata all’agente Vicki Satlow e alla casa editrice Salani.
Centrale nella tua narrazione è il tema del Male in senso assoluto, quasi metafisico. Non è soltanto un compagno quotidiano e una tentazione, ma è qualcosa che crea assuefazione, asfissia. Il Male qui sembra legato al quartiere di riferimento, Campo dell’oro, ma, in realtà, è come se fosse una voce interna di tutti i personaggi che a volte brilla ed esplode. Il Male sta solo fuori o anche dentro di noi?
Credo che il male stia dentro di noi. E, a tal proposito, Hawthorne è stato un punto di riferimento per me. Quando sostiene che non si può avere una concezione del Bene, senza aver prima conosciuto il Male, non ha tutti i torti. Poi certo il disagio sociale della periferia di oggi, la rabbia che ne deriva e la voglia di riscattarsi sono catalizzatori di questa propensione al Male che a volte è impossibile contenere ed esplode.
I luoghi. Campo dell’oro è la tipica periferia italiana soffocante, dimenticata, che corrode l’anima di chi ci vive. Una serie di forze centrifughe spinge ad abbandonare il quartiere, ma poi qualcosa trattiene. Esiste secondo te la possibilità di un riscatto?
È complicato perché una scelta del genere ti pone di fronte alla realtà dei fatti. Secondo me esiste la possibilità di un riscatto. Un riscatto frutto di fortune, di coincidenze, di vari passaggi; non basta la famiglia né la volontà. Non è facile, ma sono convinta che alla fine si possa uscire indenni.
Questo “uscire indenni” può significare arrivare a un compromesso, dover concedere qualcosa pur di salvarsi?
A volte sì. Altre volte la periferia è un vestito cucito sulla pelle, che ti costringono a indossare, e, se te lo togli, strappi via la pelle. Le ferite, le cicatrici rimangono.
Il tema della periferia oggi investe le narrazioni di molti scrittori tuoi coetanei o quasi. Penso a Caminito, Bazzi, Insolia che sembrano tutti accomunati dall’impellenza di raccontare le difficoltà e gli ostacoli di questa realtà. Da dove nasce questa tua urgenza narrativa?
Credo ci sia bisogno di parlare di periferia, dei luoghi da cui veniamo. In particolare prima chi proveniva dalla periferia si vergogna della sua provenienza, io per prima, quando me lo chiedevano, dicevo di essere di Roma. Oggi invece abbiamo tutti un desiderio incontenibile di raccontare questa realtà. Vogliamo dire la nostra, siamo convinti di non avere niente di meno di chi vive in città. Credo sia anche un modo per smascherarsi, per togliere un velo di menzogna dalle pagine, dalla propria voce. E mi interessa che queste suggestioni giungano soprattutto ai giovani, a chi vive queste realtà complesse quotidianamente, anche per farli sentire un po’ meno soli, per dare una voce alle loro paure e ai loro sogni.
“Quello che avevo dentro, la specie di cavallo imbizzarrito, si erse in tutta la sua magnificenza. Si faceva sentire come un formicolio, che diventò presto un batticuore. “Non c’è altro modo”, mi dissi, specchiandomi sul dorso di un cucchiaio madido. Per salvare mio fratello sarei dovuta entrare nella banda, nuotare insieme agli squali e imparare a ucciderli.”
Negli ultimi due anni la pandemia ha attraversato e quasi contagiato le nostre vite, modificando le nostre abitudini. Oggi siamo qui al Salone di Torino, per la prima volta senza mascherine dopo due anni, ed è strano camminare nella folla senza questo tipo di protezione sul volto. Come sarà influenzata la periferia dalla pandemia e in particolare dall’esperienza del lockdown? E che impatto ha avuto sulla tua attività di scrittrice?
Il lockdown ha avuto un impatto decisivo sulla popolazione, in particolare sui giovani. Le chiusure sono state improvvise e totali. Credo sia difficile oggi parlarne, perché la sento ancora come una ferita sanguinante, brucia ancora sulla pelle e non riesco a parlarne oggettivamente. Non so cosa saremo in grado di trarre né come influenzerà i rapporti sociali andando avanti. Io, durante il lockdown, non sono riuscita a leggere, ho scritto poco. I primi mesi sono stati terribili.
Adesso che progetti per il futuro?
Mi piacerebbe scrivere per qualche rivista, fare articoli, recensioni. Ho tanti progetti nel cassetto che magari prenderanno la forma di un romanzo, in futuro. Chissà.