Quando l’amicizia si fa musica | Intervista Fast Animals and Slow Kids

Prima che musicisti, i Fast Animals and Slow Kids sono amici. Amici che, come lascia intuire il nome della band, non ci credevano più di tanto. Finché, partiti da Perugia, nel 2010 vincono l’Italia Wave Love Festival e qualcuno li nota. È Andrea Appino, frontman dei toscani Zen Circus che propone: “Perché non fate un cd?”. Il resto è venuto da sé. Quasi 10 anni di attività, 4 album all’attivo, fino a 105 date solo in un anno e live su palchi come l’Alcatraz a Milano o l’Hiroshima a Torino, dove torneranno il 23 febbraio per il tour finale di Forse non è la felicità, disco pubblicato il 3 febbraio 2017.

Niente mossa di marketing ma solo l’irrefrenabile voglia di suonare che non li fa stare fermi. E che li trascina dal palco alla sala prove “rosa, perché quando dipingevamo la vernice rossa era finita”, sorride Aimone Romizi, voce e componente dei Fask insieme ad Alessandro Guercini, Alessio Mingoli e Jacopo Gigliotti.

Il vostro è un percorso che parte da lontano, dalla prima prova nel 2007 a Perugia. Nel 2011 il primo album Cavalli e nei sei anni successivi altri tre, Hybris, Alaska e l’ultimo Forse non è la felicità, che suonate senza sosta sui palchi di tutta Italia. E basta una ricerca su Spotify per ascoltare brani che superano il milione di ascolti. Sono numeri che vi spaventano?

In realtà è il contrario, ci inorgogliscono. Sono numeri positivi che aumentano il nostro ego (ride, nda). Anche se non ci concentriamo sui grandi risultati che stiamo ottenendo ma su quanto ancora in là possiamo andare. La musica è l’unica cosa che vogliamo fare nella nostra vita. Siamo e resteremo focalizzati a migliorare, suonare bene i nostri pezzi e imparare a essere musicisti. È la passione ciò che ci fa tornare in sala prove, che ci permette di non essere mangiati dalla routine della musica.

E di non montarvi la testa, vista la spontaneità con cui vivete la vostra arte e la vostra amicizia, quasi una bussola. È questo il vostro cavallo di battaglia?

Siamo gli stessi da sempre e sempre saremo così. L’amicizia è il collante, ci permette di superare i momenti difficili ma anche di vivere con più intensità quelli belli. Come le 105 date in un anno, i 210 giorni fuori casa. Esperienze che ti svuotano, eravamo spettri di noi stessi. Come è possibile vivere questo con qualcuno se non sei certo di poter contare completamente su di lui? Non ho mai capito le band che stanno insieme per interessi.

Essere amici per voi, come avete rivelato più volte, significa anche condividere il processo creativo. Dai testi alla musica, i brani nascono con la partecipazione di tutti e quattro. Come ci riuscite?

È così per ogni scelta, anche non musicale, ed è un inferno. Sembra di essere in Game of Thrones ma non vogliamo leader. Io scrivo i testi e discutiamo su ogni singola parola per democrazia. Ci vuole tantissimo per strutturare un testo ma poi usciamo dalla sala prove che siamo ultraconvinti delle scelte. Questo ci permette di non avere mai rimpianti, di non odiarci.

Verrebbe da pensare che un iter così rischia di stravolgere le emozioni oltre che le parole. È successo?

Succede raramente che si discuta del contenuto. Prima di proporre un testo, racconto quello che c’è dietro come con un amico davanti a un caffè. Li trasporto dentro le parole, si crea empatia. I temi nascono dalla nostra quotidianità. Ci sono band che parlano di Roma Nord o Sud, di Milano o altri posti, che riescono ad analizzare piccoli scorci. Nelle nostre canzoni c’è la nostra vita: dall’amore al piacere di un caffè in centro storico.

La musica, quindi, come funzione terapeutica con un sottofondo romantico. Una funzione che si intravede anche nei temi. E nei testi spesso introspettivi, nei quali si riconosce una maturità crescente. Fino alla presa di coscienza che, “riflessi gli anni più fieri”, come scrivete in Tenera età, “forse non è la felicità ciò che voglio ma un percorso per raggiungerla” cantate nella title track.

Sì, per questo non ci interessa nulla dei numeri. A prescindere da tutto, eravamo la band che ci credeva meno nella storia: basta il nome per capire che non c’erano velleità. Finché abbiamo vinto l’Italia Wave come miglior gruppo emergente italiano. Pensa, ero sul palco con una chitarra prestata, io ero batterista. E il batterista era il cantante. Poi abbiamo vinto. Appino, frontman degli Zen Circus ci ha detto “siete fichi, fate un cd”. E così è andata, è stata la loro etichetta, Iceforeveryone a pubblicare Cavalli. Ci siamo resi conto che eravamo noi a non credere in noi stessi e abbiamo iniziato ad applicarci di più. Già nelle prove. Provavamo anche 24 ore al giorno e suonavamo nei posti più assurdi. Nei cessi pubblici, nei ristoranti: non era importante se davanti a una persona o 2000, non avevamo pretese o velleità. Ma senza scendere a compromessi o perdere la spontaneità. La più grande conquista è proprio lavorare e non sentire che stai perdendo tempo.

Trascorrere tanto tempo insieme, significa anche dividere i gusti musicali. Sono curiosa di sapere cosa ascoltate in tour?

Di solito il nostro guru musicale è Alessandro. È un audiofilo che in maniera subdola riesce a farci piacere tutto quello che ascolta, spiegandoci il perché. Io sono più istintivo, in questo periodo ci sono i Big thief, i Touché amoré, i Gang of Youths, ma non mancano mai classici come Rolling Stones, Beatles e Bruce Springsteen. Anche se, va detto, l’autoradio del furgone è rotto e non abbiamo intenzione di aggiustarlo visto il costo.

Negli ultimi anni, ci troviamo davanti a una scena musicale italiana fervente soprattutto nell’indie-rock. In un certo senso ne siete stati precursori, nel genere ma anche nella scelta di abbandonare l’inglese. È così?

Siamo d’accordo che sia scoppiata la bolla ma noi più che precursori ci siamo trovati al posto giusto al momento giusto. Non siamo stati un’esplosione, come band ce la siamo faticata tutti. Il nostro pubblico ci conosce da tanti anni, non è occasionale perché magari segue il fenomeno del momento. Siamo cresciuti e abbiamo consolidato la nostra musica. Dieci anni fa tutti cantavano in inglese, erano pochi gli sperimenti italiani di band come il Teatro degli Orrori. Per noi, fu un modo per andare sul palco e combattere la vergogna. Nessuno capiva i testi così io potevo fare pratica e capire la mia voce. Il passaggio a voler raccontare e dire cose che sentivo, è stato spontaneo. Ogni band ha un suo percorso, noi avevamo bisogno di fare gavetta mentre oggi si parla troppo spesso del sold-out.

“Che a suon di concerti c’ho preso la mano”, cantate in Annabelle. Se potessi scegliere con chi divideresti il palco tra le band italiane?

Starei con i miei amici, quindi gli Zen Circus. Dividere il palco con chi la pensa come te è un privilegio, il prima e dopo è stupendo. E poi ne è passato di tempo e noi siamo cresciuti, mai avremmo pensato di suonare all’Hiroshima Mon Amour o all’Alcatraz. Da piccoli e appassionati di musica, ne sentivamo parlare, sono nomi che girano ma suonarvi due volte nel corso dello stesso tour era un’utopia. Ogni concerto è importante, ma questi hanno un sottofondo di orgoglio personale. Arriviamo con la voglia di suonare bene, di meritarci la nomea di musicisti.

Dopo un anno intenso, a marzo terminerà il tour finale di Forse non è la felicità. Quali sono i progetti futuri?

Come per ogni fine tour, ce ne andiamo a spasso. Io partirò per un viaggio, questa volta per il Vietnam. Poi, nonostante decidiamo di prendere tempo, magari qualcuno di noi, chiamerà imbarazzato l’altro e dirà “ci vediamo in sala prove”. Durante il tour di Alaska, con i vari sold-out tra cui l’Alcatraz, abbiamo iniziato ad avere contezza che quanto stava accadendo era molto più grande delle aspettative. Prima di scrivere Forse non è la felicità eravamo in ansia, eravamo bloccati, poi ci siamo detti: non è cambiato niente. Chi prende le birre, chi la chitarra, ed eravamo già in sala prove a scrivere, tornando a essere quelli che siamo sempre stati. Nel giro di due mesi lo abbiamo finito. La nostra bussola è la passione libera, serena, e deve continuare ad esserlo. Lasciamo che la musica fluisca e che le emozioni nascano dalla nostra quotidianità. Non siamo quelli che devono seguire l’onda e magari pensare “ora è il momento giusto per la musica, quindi dobbiamo sbrigarci”. Non riusciremmo mai a suonare qualcosa che ci fa schifo.

Exit mobile version