Nel nuovo disco troviamo un Dimartino meno urlatore e meno scapigliato, più misurato e attaccato alla tradizione cantautoriale italiana. Sembra tu abbia maggiormente messo a fuoco la tua strada musicale. Come mai hai messo da parte l’uniforme napoleonica? Cos’è cambiato da “Cara maestra abbiamo perso?”
Questo è un disco che è nato in solitudine, ci sono pezzi che sono nati poco prima di registrarli e che quindi appartengono a un passato meno lontano, cara maestra è stata una somma di canzoni che avevo scritto molto tempo prima di pubblicarle.
Raccontaci un po’ com’è nato “Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile”. Ci leggo molto enfatizzata la sensazione di nostalgia presente in alcuni pezzi del tuo lavoro precedente.
Sono stato sei mesi in campagna a Misilmeri in provincia di Palermo il mio paese, non ho pensato molto, ho scritto, ho parlato con i miei amici, ho fatto l’amore, ho trovato un cane (che poi ha anche figliato) e ogni tanto guardavo il telegiornale, erano cose che volevo dire da tempo.
Musicalmente sembra proprio suonare come un istant-classic, uno di quegli album che capisci subito che amerai e ti rimarrà in testa. Posso chiederti cosa ascoltavi mentre lo componevi?
Ho cercato di non ascoltare molta musica mentre scrivevo proprio per tenermi lontano dalle influenze nei limiti del possibile, solo quando ho finito il disco, ho ricominciato ad ascoltare altro.
“Non ho più voglia di imparare” è uno sfogo personale o una critica all’Italia di oggi e alla poca cura che ha nel garantire un futuro ai giovani?
È uno sfogo corale. Come tanti miei coetanei finita l’università mi sono interrogato sul tempo che ho dedicato e su cosa ne ho avuto un cambio, su quante cose ho imparato e quante ne ho dimenticate il giorno dopo l’esame, mi è venuto spontaneo scrivere “non ho più voglia di imparare”.
Ogni volta che ascolto “Venga il tuo regno” non posso fare a meno di sentirci una grandissima influenza di Lucio Dalla, dalla struttura del pezzo ai personaggi che descrivi, secondo me gli sarebbe piaciuta.Che rapporto hai avuto con la sua musica? Trovi ti abbia influenzato in qualche modo?
Mentre eravamo in studio a missare il disco con Dario Brunori e Matteo Zanobini è arrivata la notizia della morte di Dalla, avevamo “Il cucciolo Alfredo” come riferimento di missaggio per uno dei pezzi del disco e siamo rimasti di ghiaccio per il resto del pomeriggio, devo dire che è uno dei cantautori insieme a De André che ho ascoltato di più.
Tra i treni troppo cari e sempre in ritardo, le cene d’addio divorate e rimaste sullo stomaco, la vita che ci costringe sempre a spostarci alla ricerca di qualcosa che non ci è nemmeno ben chiara. Ti è mai venuta seriamente la voglia di sentirti un albero e di star fermo lì tutto il giorno a non curarti di nulla?
Mi viene quasi ogni mattina, ma poi mi alzo e capisco che ci sono le partenze, gli addii, gli arrivederci, le bollette della luce.
Ne “La penultima cena” reciti “O per toccare i miei diciotto anni che sono trenta da un po’ di tempo“, in “Piccoli Peccati” dici “perché alla nostra età ci si accontenta di poco“, mentre in “Ormai siamo troppo giovani” la vita sembra davvero andare al contrario e alla fine ti chiedi “perché tutto deve andare sempre com’è normale?“. Che rapporto hai con lo scorrere del tempo? Sembra quasi essere una costante attorno a cui ruota l’album.
Il tempo è una costante di tutto il disco, se a vent’anni il tempo ti attraversa e no te ne curi a trenta cominci a farci caso.
Da Vasco Brondi a Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi, passando per Dario Brunori e tanti altri, quale sarà la prossima collaborazione?
Ho cercato di contattare Franco Califano per la “penultima cena” che è una riproposizione di “ti perdo” del cantautore romano, ma niente da fare. Spero nel prossimo disco.
In “Io non parlo mai” sembri affrontare il tema della follia. È una lettura corretta? Sbaglio o questa tematica era a tratti presente anche nel disco precedente?
“Io non parlo mai” è un pezzo che ho scritto sei anni fa, è una canzone sull’impossibile sul fatto che basta illudersi che le cose accadano, e poi accadono veramente.
Il 2012 si è aperto come l’anno d’oro per la tua terra dal punto di vista musicale. La Sicilia sembra la protagonista indiscussa del cantautorato italiano di qualità. Spendi una parola per i tuoi colleghi: Colapesce, Carnesi e Oratio.
Sono di parte perché molto amico di tutti e tre con Nicolò ci conosciamo da tempo l’ho visto crescere e sentire le sue canzoni di oggi mi fa stare bene, poi siamo entrambi della provincia di Palermo per questo abbiamo molte esperienze di vita in comune. Lorenzo (Colapesce) l’ho conosciuto un paio di anni fa, è uno sperimentatore, lo avevo apprezzato già con gli Albanopower adesso è riuscito a trovare una propria via con la lingua italiana che mi piace molto, del nostro incontro è rimasto un video nei vicoli di Mazzara alle 4 del mattino a cantare Renzo Arbore. Andrea Corno (Oratio) ha scritto una delle canzoni che avrei tanto voluto scrivere io che è “non guariremo più”, ci incontriamo ogni tanto e non c’è bisogno di parlare tanto, ci capiamo.
Che rapporto hai con la tua terra d’origine?
Ci vivo da sempre, anche se spesso parto. Ultimamente ho ricominciato a combattere, pratica che avevo annullato dalla mia vita da un po’.
Passerai l’estate in tour? Dacci qualche anticipazione.
A Maggio promuovo il disco con degli showcase nelle fnac di Torino, Milano e Roma, da Giugno in poi sarò in tour per alcuni festival, non vedo l’ora di partire.