“I librai sono creature del demonio, e dovrebbe esserci un inferno apposta per loro”, diceva Goethe. Che il mestiere del libraio sia complicato, sfaccettato e spesso sottovalutato – o, per andare appresso a Goethe, demonizzato – non è né una novità né un mistero. In Italia alla lettura si dedicano in pochi. Nel mercato librario Amazon e gli ebook di Kindle e Kobo parrebbero avere un peso sempre maggiore. E con i ritmi serrati di una vita che accelera con una costanza quasi sadica ai romanzi non rimane che stare in un angolo a pigliare polvere. Ma le librerie a tutto questo resistono. Asserragliate contro un nugolo di nemici diversi e giganteschi, sono colonne portanti del mondo culturale che, nella tempesta, vanno avanti. Ecco che la figura del libraio riveste un’importanza enorme, sia per un fatto di per sé intrinseco, sia per tutti i motivi di cui sopra.
Ne abbiamo intervistato uno, di libraio. Si chiama Davide Franchetto. Con un socio, gestisce la Pantaleon di Torino. E ha da poco esordito con L’attesa, un racconto lungo o romanzo breve edito da Autori Riuniti. Abbiamo chiacchierato con lui sia di libri, sia del suo primo nato, di letteratura e di scrittura, esplorando il mondo del mercato librario e infilandoci nella sua cassetta degli attrezzi autoriale.
Partiamo dal principio. Com’è nata la libreria Pantaleon? E come si è evoluta nel tempo?
Il nome è un omaggio a Mario Vargas Llosa, un autore che a me piace moltissimo. La libreria ha aperto i battenti il trenta maggio 2015 – stiamo per compiere cinque anni! –. Ho lavorato per dieci anni nel campo del commercio e, gestendo dei punti vendita, avevo già bene in mente come si potesse fare un mestiere del genere. Certo, quello del libraio è un lavoro assai particolare, differente dagli altri. Ha sfaccettature diverse rispetto ai vari settori del commercio.
L’idea di aprire una libreria è nata intorno al 2010. Una di quelle idee che si accarezzano per anni, sai. È un mestiere rischioso, un’attività complicata, per certi versi. Come molti ripetono spesso, le librerie sono massacrate da Amazon, dai colossi, e spesso bene faticano ad andar bene. Ma a un certo punto mi sono detto: perché no? Perché non buttarsi in questa avventura? Certo, non intendo mica buttarsi in modo sventato, piuttosto valutando tutto per bene. E con un socio, qualche anno dopo, è nato tutto! Siamo andati a prendere una birra assieme una sera d’estate, gli ho accennato questa idea ed ecco che il giorno dopo mi ha chiamato. Dopo meno di un anno è cominciato tutto. Prima ho fatto uno studio sui quartieri torinesi, volevo capire quali fossero liberi, per così dire, distanti abbastanza dalle altre librerie per poter costruire la mia comunità di lettori. E, a dire il vero, ha funzionato da subito. Certo, con tutte le difficoltà del caso. Si deve sempre stare attenti all’equilibrio dei dettagli.
Il quartiere è bello, un tempo aveva una doppia anima: da una parte era in stile liberty, molto borghese, e dall’altro, alle spalle della stazione, a popolarlo erano ben altri tipi umani. Negli anni però è stata rivalutata. Adesso c’è il tribunale, il grattacielo dell’Intesa San Paolo, e, senza stravolgimenti, senza diventare un quartiere di movida, è diventato molto più tranquillo. Si lavora bene, si vive bene. C’è una bella comunità di lettori, e ci si trova a vicenda.
La crisi dell’editoria italiana parrebbe più sistemica che congiunturale, e nessuno sembrerebbe avere una soluzione a portata di mano. I lettori in Italia sono pochissimi, i lettori forti ancor meno. Da cosa credi che dipendano numeri tanto sconfortanti e quali pensi possano essere i primi passi da muovere verso una risoluzione del problema?
È una domanda alla quale chiunque in questo campo prova a dare una risposta. Io sono cauto, anche perché non so se ce l’ho, una risposta. Di sicuro, una cosa che ho notato è che i lettori vanno soprattutto dai primissimi anni di vita ai quattordici, poi li perdo per riprenderli verso i trenta. Anche se, a dire il vero, in tempi recenti ne ho trovati, di lettori che si possono inquadrare in questa fascia d’età.
Sicuramente, se dovessi cercare una risposta alla domanda, penso anche al fatto che ci sono molte distrazioni affascinanti quanto la letteratura. Serie tv, videogiochi e film sono grandi forme di intrattenimento, e non mi sento di criticare chi preferisce una cosa piuttosto che un’altra, penso che ognuno debba passare il tempo come meglio crede.
In effetti c’è anche una vita che va molto in fretta. La lettura richiede tempo, ragionamento. Dobbiamo capirlo, interpretarlo e metabolizzarlo, ciò che c’è sulla pagina. È qualcosa che raramente, se ben fatta, possiamo solo subire. Un film può anche essere subìto, ci si siede e lo si guarda, ma la lettura necessita di un intervento di interpretazione. E forse con una vita che ha ritmi tanto elevati e stressanti leggere non è facile. Molte persone mi dicono, “sono troppo stanco per leggere, non ce la faccio la sera, preferisco un film o una serie tv”. Chissà, magari è questo, o magari sono scuse, ma di sicuro a concorrere sono diversi fattori.
Si parla spesso del degrado culturale del Paese. Gli ultimi trent’anni di storia italiana non hanno aiutato la cultura, anche questo è certo. E poi da noi, in Italia, c’è molta più socialità, si tende a stare assieme a divertirsi. E… be’, insomma, direi che sì: sono tante cause tutte messe insieme. Di soluzioni non so darne, anche perché non riesco a vedere la lettura come un’imposizione. Per me è stato sempre il campo della libertà, dell’espressione personale, quanto più lontano ci fosse dagli obblighi. È il viaggio, la scoperta, è qualcosa di estremamente libero.
Quando ti tocca consigliare un libro, come decidi quale? Voglio dire, ti basi sull’intuito, cioè sul tipo di persona che credi di avere davanti, o sul tuo gusto personale?
Cerco sempre di valutare in un tempo brevissimo il tipo di lettore che ho davanti, sono uno di quei librai che va incontro ai gusti della persona. Non voglio consigliare a tutti i costi ciò che piace a me. E cerco spesso di capire, con poche informazioni, cosa piace. Come una sorta di psicologo, faccio qualche domanda e provo. Chiacchieriamo un po’ delle letture pregresse, raccolgo informazioni e poi creo un percorso al lettore. Spesso va bene, non sempre, certo, ma ci prendo abbastanza. A volte, ad esempio, mi baso sull’età. I giovani stanno attenti a ciò che esce per determinati editori. Seguono quello che ha una spinta social; la collana di Vanni Santoni per Tunué, il titolo di NN o Adelphi. Chi ama la letteratura dell’est, invece, segue Keller. Ogni lettore, in fondo, è un mondo assestante.
Hai da poco esordito con L’attesa, edito da Autori Riuniti. Comincerei dal formato, il testo è di una cinquantina di pagine. Si tratta di un romanzo breve o di un racconto lungo?
Istintivamente tenderei a risponderti che è un racconto lungo, ma, a dire il vero, l’ho ragionato e scritto come si farebbe con un romanzo. Se lo considero un racconto lungo è perché si tratta di una cinquantina di pagine. Mi affascinava molto cimentarmi in questo formato, sai queste collane di testi brevi mi intrigano sempre. In realtà, stavo scrivendo un romanzo, un testo su cui ho ripreso a lavorare, ma quando Autori Riuniti ha aperto la collana, quella de I bugiardini, ho voluto provare. Avevo questa storia in mente, sono riuscito a scriverla in un tempo relativamente breve e mi è piaciuto farlo. Ho trattato temi a me cari e che sto sviluppando nel romanzo di cui ti ho accennato.
I tuoi giovani protagonisti si muovono in un contesto rurale. Viaggiano, si spostano, girano in lungo e in largo apparentemente senza posa, ma abitando sempre ambienti campestri. È un topos letterario piuttosto frequente, quello della vita rurale, ma credo che tu lo abbia reso un personaggio vero e proprio. La natura ne L’attesa è matrigna?
È molto giusto ciò che dici: era mia intenzione, in effetti, rendere l’ambiente come una sorta di personaggio. In realtà, però, non è né l’una né l’altra: per me la natura è neutra. Potrebbe sembrare matrigna, a leggere, ma non è proprio così. Sono gli esseri umani che la popolano a farla tale. Un’altra cosa che volevo fare con il racconto era raccontare un cammino, un percorso a tappe. Ero, e sono, in un periodo in cui mi affascina moltissimo il tema del viaggio. Quelle storie in cui il protagonista, l’Io narrante o lo scrittore, cammina e racconta ciò che vede. Molto basilare, certo, ma mi affascina parecchio. E con questo mi affascinava anche l’idea di raccontare la natura in maniera estatica, pure se è complicato, lo so. Quindi sì, c’è in effetti una natura che respira. Una natura che ti può cullare ma anche mentire.
Un chiaro obiettivo del tuo romanzo risiederebbe apparentemente nel tentativo, ben riuscito, di partire da una situazione reale, da qualcosa di veritiero, per andare oltre. La tua narrazione verso cosa si protende?
La storia si basa sul dato reale del viaggio, ma si intreccia al mondo fantastico fino ad arrivare a una sorta di dimensione altra. Lì, in quel punto, ho spinto sull’acceleratore per portare il lettore in un territorio ambiguo che ha a che fare con il sogno e la fiaba. È un racconto di formazione, di crescita, i temi sono pure quelli. Il ragazzino, in un certo senso, rappresenta la fede verso un immaginario che appartiene al fantastico. Ha sentito parlare del paese dei balocchi e adesso vuole andarci. Ma cos’è, in effetti, il paese dei balocchi? È una sorta di paradiso in terra dei ragazzini, un posto che astrae, che porta via da un mondo altrimenti violento e ambiguo.
Ecco, partendo da queste basi, i due protagonisti affrontano un grosso cambiamento. Per la ragazza è la presa di coscienza: lei capisce che non può desiderare un altrove che non sia il mondo che sta già vivendo, buono o cattivo che sia – sta crescendo, e tutto, pian piano, sta andando solidificandosi. Il ragazzino ha invece una fede cieca per quel paradiso dell’irresponsabilità che tanto va cercando, una sorta di fede dei puri, la sua, ma in realtà il mondo dei balocchi è una trappola, e questo è il gancio interpretativo che offro al lettore.