Le parole hanno un peso. Gli atteggiamenti, consigli spassionati o commenti disinteressati, hanno un peso. Un peso che può variare, e pure di molto. Chi le pronuncia, quelle parole, dà loro una misura, le giudica lievi, di poca o nessunissima importanza. Chi le riceve, chi se le sente piombare addosso, invece, alle volte può assegnare loro un significato, un peso, una misura del tutto diversa. Forse si tratta di mancanza di empatia. Spersonalizzazione di chi si ha di fronte, nullificazione dei sentimenti altrui, lontananza emotiva e affettiva da chiunque sfugga alla propria comprensione. È una soluzione banale, la mia, ma credo sia anche la più umana e la più immediata. Al di là delle ragione profonde che spingono un surfista dei social a dare del ciccione, della bulimica, dell’anoressico o dell’obesa a un altro surfista qualunque, un surfista mai visto o sentito o conosciuto. Al di là di quelle per cui tutti si sentono sempre in diritto, quasi in dovere, di far sapere a tutti cosa pensino del tuo corpo, della sua dieta, della loro immagine. Al di là delle parole, proprio al di là, cioè dall’altra parte, c’è una persona in carne e ossa e desideri e paure e speranze. Una persona che non si domanda quali siano quelle maledette ragioni profonde, ma che imbozzerà in una matassa dolorosa le parole che le sono cadute sul groppone.
Di questi bozzi, di queste matasse, di queste parole dette e non dette parla il nuovo, struggente romanzo di Costanza Rizzacasa d’Orsogna. Di questo e di molto, moltissimo altro. Si intitola Non superare le dosi consigliate, è edito da Guanda ed è strepitoso. Emozionante, ricco di riflessioni umane delicatissime e pregno di una carica emozionale che non può lasciare indifferenti. Rizzacasa d’Orsogna, giornalista culturale per il Corriere della Sera, con maestria narrativa e sguardo vivido, racconta una di quelle storie capaci di cambiare la vita di una persona. Ecco la sua intervista.
“A casa nostra non si parla, si prendono le medicine”. Questa frase, che troviamo già all’inizio del libro, mi ha colpito molto. In sé racchiude un intero universo ed è un universo di cose, persone e sentimenti che fa male. Dietro c’è parecchia incomunicabilità, e in realtà parrebbe pure esserci una certa dose di menefreghismo, di apatia generalizzata. Da cosa nasce questa incapacità di usare le parole, di dar voce ai propri sentimenti e pensieri? E da cosa questa faciloneria al ricorrere alle medicine? È pudicizia o c’è dell’altro?
Il pudore è proprio quello che, agli occhi di Matilde, alla madre manca: la madre che gira nuda per casa, è sempre in cerca di attenzioni, non si nasconde dai figli mentre prende i lassativi, che tiene in bella vista sulla mensola della cucina, né quando induce il vomito nel bagno. Non lo chiamerei menefreghismo: è qualcosa a metà tra esibizionismo e svagatezza. “Quella svagatezza sui fondamentali”, dice Matilde di quando i genitori le perdono il libretto delle vaccinazioni. La mamma di Matilde, chiaramente disturbata, è troppo giovane e impreparata a far la madre. È una bambina anch’essa. Matilde lo dice, e lo dirà molti anni dopo anche di sé: “Come può una bambina avere un bambino?” Una bambina, la madre, costretta a crescere in fretta, che aveva bisogno di brillare ma si ritrova a fare la moglie e la madre, incatenata a un lavoro che detesta, la “morte in banca, come Pontiggia”. Va detto anche che di certe cose – i disturbi alimentari, che sono disturbi mentali – allora non si sapeva né si parlava mai. La madre di Matilde, che è bulimica, appartiene alla cosiddetta “Generazione Farmaceutica”, quella nata nel secondo Dopoguerra. I boomer, che prendevano farmaci come fossero acqua fresca, e li davano ai bambini, senza pensare alle conseguenze. Pensiamo a quanti farmaci venivano prescritti o prendevano le donne per curare sedicenti malesseri femminili che spesso non erano che insoddisfazione, depressione, per come le donne venivano trattate, per non potersi realizzare.
Matilde vede la madre profondamente insoddisfatta per tutta la sua infanzia, e sente che è un po’ “colpa” sua, che se non ci fossero stati quei due figli forse la mamma avrebbe potuto diventare quello che voleva – anche se chi legge, nel 2020, sa che non è così, che non era così semplice. Tornando ai farmaci. “A casa nostra c’è un farmaco per qualsiasi cosa”, dice Matilde all’inizio del romanzo. “Non c’è problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre”. Quando Matilde va in America scopre che esistono i generici, che i farmaci si vendono al supermercato, in confezioni anche da 100 pasticche: non devi chiederli, e quindi sottoporti a un giudizio, vergognarti, rischiare che non te li diano, devi solo avere i soldi. Ma ogni generazione ha la sua dipendenza. Matilde ha 21 anni quando, nel 1994, Elizabeth Wurtzel scrive Prozac Nation. Sono gli stessi anni in cui ai bambini iperattivi, che nella maggior parte dei casi fanno cioè i bambini, negli Stati Uniti si dà il Ritalin. In college, per fare le notti sui libri ed eccellere negli studi, Matilde trangugia compresse di caffeina. “Era l’età dell’innocenza”, dirà molti anni più tardi, oggi che la piaga, tra gli studenti americani, è l’uso smodato di Adderall, altro farmaco destinato a chi soffre di ADHD, quindi di deficit d’attenzione, di cui i giovani abusano per migliorare le prestazioni (c’è un documentario molto interessante di Netflix su questo argomento: Take Your Pills). Uno dei romanzi più importanti del 2018, poi, è My Year of Rest and Relaxation, di Ottessa Moshfegh, su una giovane donna, ricca, bella e insoddisfatta che, complice uno psichiatra incompetente, prende una serie di farmaci, sonniferi, ansiolitici e altro, con l’obiettivo di dormire per un anno.
Matilde, che si ritrova a vivere la propria infanzia in un tempo in cui di disturbi alimentari si deve ancora iniziare a parlare, soffre moltissimo per le parole – “ingorda”, “abulica” – che la madre le rivolge quando le rimprovera le sue abitudini alimentari. D’altra parte, lei, la madre della piccola, soffre di bulimia. Pensi che i sentimenti di una persona siano molto dipendenti dai traumi di chi ha attorno? In altre parole, siamo anche figli dei traumi altrui?
Certamente sì. Quanto sarebbe stata diversa la vita di Matilde se la madre non fosse stata bulimica, se non le avesse dato fin da bambina i lassativi? Il primo modello è in famiglia. Matilde e il fratellino Leo crescono vedendo la madre ingozzarsi di pasticche e vomitare tre volte al giorno. Il loro quotidiano è questo, e ne saranno condizionati per tutta la vita. Anche il fratello, che diventerà anoressico. Matilde, in particolare, che vive idealizzando la madre, vive nel ricordo della madre, che ogni cosa che fa è per rendere orgogliosa la madre, anche se è morta da quasi vent’anni, pensa che se smette di prendere i lassativi tradirà la madre. Non è riuscita a costruirsi una vita sua, a emanciparsi dalle ansie di realizzazione e di perfezionismo materne che sono anche le sue. Matilde però non è solo vittima, e se è vero che replichiamo gli errori dei nostri genitori, possiamo anche tirarcene fuori. Non tutto, nella vita di Matilde, è ascrivibile agli errori della madre. Ci sono anche le sue scelte, di Matilde. Non siamo predestinati, come pensa Matilde, un pensiero in cui lei si crogiola. Matilde diventerà nel suo malessere carnefice di se stessa e di chi le sta intorno, si precipiterà come una calamita verso uomini sbagliati e a volte atroci che non vorranno o non sapranno darle quell’amore che lei cerca e che pretende. Quell’amore che solo il pane le dà, e in questo senso un autolesionismo, sia pure parzialmente inconsapevole, di Matilde è evidente, lo dice lei stessa. Come se andasse verso uomini che sicuramente la deluderanno, la tradiranno, per poter tornare a ciò che non la tradisce mai, cioè il pane. “Il pane non tradisce, se sai dove prenderlo”, dice Matilde all’inizio del romanzo, “e da noi è buono dappertutto”. Il pane dell’infanzia, che pur essendo per molti versi per Matilde un’infanzia terribile è anche bellissima, perché l’infanzia lo è, e perché Matilde sa quello che viene dopo.
È vero anche che quello che viviamo nell’infanzia ci condiziona per tutta la vita, e non tutti hanno la forza di tirarsene fuori. Allora, allo stesso tempo questo libro è un piccolo monito. Volevo far vedere cosa può succedere a una bambina, una ragazza, una donna, la cui infanzia è stata segnata in questo modo. Anche se ho prestato a Matilde il mio vissuto di disturbi alimentari e il mio rapporto con mia madre, questo libro è un’opera narrativa, un romanzo. E però, nell’essere romanzo è più vero del vero. C’è una frase di Bacone che dice, più o meno: “Io non voglio che la mia pittura sia realistica, che faccia del realismo; io voglio che essa sia la realtà”. Io sono una giornalista, sono un passo avanti a Matilde. Grazie al mio lavoro ho potuto leggere, informarmi, salvarmi. Ho potuto soprattutto diventare una piccola attivista: ho scritto un manifesto sul Corriere della Sera, ho una rubrica sul Corriere. Matilde non diventa un’attivista, non volevo darle questo vantaggio che la maggior parte delle persone non ha. Matilde fa un percorso di consapevolezza e accettazione di sé, ma ha ancora tanta strada da fare. E in realtà un po’ anch’io. “Essere la realtà” vuol dire anche la necessità di descrivere tutto nel dettaglio, in modo autentico, affinché non vi fossero alibi. Parliamo di vomito e lassativi? Facciamo vedere di cosa parliamo. Facciamo vedere quello che succede. Da lì la precisione, la crudezza di certi passaggi. Come ci si abitua a una realtà terribile perché è la tua realtà. Volevo scrivere un libro sul dolore: il dolore delle persone che soffrono di disturbi alimentari, e che hanno quindi una percezione distorta del proprio corpo, e il dolore delle persone obese. Volevo sbattere in faccia al lettore tutto questo dolore. Volevo che sapesse. Ora sa. Alcuni, perlomeno.
In foto: Costanza Rizzacasa D’Orsogna e la copertina di Non superare le dosi consigliate
Il linguaggio violento è un’erbaccia difficilissima da estirpare e, anzi, sembrerebbe quasi che i social-network siano un concime, un fertilizzante che alimenta l’odio delle parole. È sempre stato così? O nell’ultimo periodo le cose stanno peggiorando?
Una volta, su Twitter, un uomo – credo fosse un uomo – mi ha scritto che ad Auschwitz nessuno è morto obeso, e che noi grassi dovremmo essere rinchiusi nei campi di concentramento: che lì sì, dimagriremmo. Ho segnalato l’individuo al social: non hanno ravvisato alcuna violazione. Era alcuni anni fa. Voglio credere che oggi che contro l’odio si prendono provvedimenti anche in forma di legge, quella persona sarebbe individuata e rimossa dal social, e magari anche perseguita. Trovo anche che viviamo in tempi molto più aggressivi di una volta. La distanza fra le persone si è allungata drammaticamente, ma allo stesso tempo si è drammaticamente accorciata. Anche quella fisica: ogni cosa che ti viene detta è in your face. Sono da sempre profondamente contraria a qualsiasi punizione corporale dei bambini e dei ragazzi, ma ricordo quando per un sette in condotta a casa scoppiava il finimondo, mentre adesso se un ragazzo si comporta o va male a scuola e prende un brutto voto, il padre spacca il naso al professore. Dev’esserci una via di mezzo. Che non passa dalla violenza.
Matilde mente. Mente a sé stessa, mente a chi ha attorno. In pratica, hai usato la menzogna come tecnica narrativa, come escamotage letterario. Perché? È stato difficile?
La menzogna è un tratto comune a molti disturbi alimentari. C’è la menzogna dell’anoressico, che mente su quello che non ha mangiato, che non esce con gli amici perché si vede grasso, e quella del binge eater, che mangia tre cornetti a colazione in tre caffetterie diverse ma dice che ha mangiato uno yogurt, che non ha davvero l’intento di mentire ma perde la cognizione di ciò che sta mangiando – tre, quattromila calorie in pochi minuti, così che diventa impossibile controllare il peso (poi è chiaro che una certa consapevolezza c’è sempre: puoi andare in bagno con la luce spenta, ma poi senti la tavoletta del water scricchiolare sotto il tuo peso, e l’unica posizione comoda è distesa). Ma c’è anche una menzogna di sopravvivenza, che è quella in generale dell’obeso, che inventa malattie per non uscire di casa e non sottoporsi al giudizio degli altri, inventa furti di documenti per non prendere un aereo temendo o sapendo che non entrerà nel sedile, che la cintura non si chiuderà, inventa furti di cappotti o perdite di cappotti perché il cappotto non gli entra più e non sa come coprirsi. Una menzogna agli altri, ma soprattutto a se stessi, perché permette di prolungare quel limbo, quello stato di semi-coscienza in cui il binge eater vive. Volevo quindi insinuare la menzogna, tema fondamentale del romanzo, nella sua struttura (anche se il romanzo ha già una sua prima struttura, che è quella del foglietto illustrativo, ogni capitolo una voce del bugiardino). L’ho fatto in primo luogo attraverso i continui sbalzi temporali, per cui non solo il lettore, ma Matilde stessa confonde i tempi, mescola passato, presente e trapassato nello stesso paragrafo. I suoi stessi ricordi sono confusi, Matilde si contraddice spesso, per esempio sul padre. Volevo creare un narratore inaffidabile, dare al lettore la sensazione di essere continuamente in bilico. Credere a Matilde o no? Tutte queste cose che racconta sono successe davvero? A un certo punto Matilde dice “E se vi stessi mentendo anche adesso?” D’altronde certe descrizioni, certi dettagli, non lasciano dubbi: quelle cose sono successe davvero. Ma il ricordo è sempre una re-interpretazione. Ma avevo due intenti apparentemente in contrasto tra loro.
Ho scritto un romanzo e non un memoir perché non volevo che venisse liquidato con “È Costanza, poveretta lei. Certe cose non possono succedere davvero”. Per questo motilvo ho creato Matilde, un personaggio in cui tutti potessero identificarsi, pur non volendolo, pur non ammettendolo, perché Matilde è un personaggio complesso. Ho creato Matilde perché non vi fossero alibi. Queste cose possono succedere, succedono e succedono a moltissime persone, molte di più di quante immaginiamo. Un’altra sensazione che volevo dare al lettore era di trovarsi sulle sabbie mobili. Risucchiato e circondato dalla realtà di Matilde fino a non potersene staccare. Anche se le prime settantacinque pagine del romanzo, che potrebbero sembrare in questo senso le più costruite, sono in realtà le più istintive, scritte in una decina di giorni (per me un tempo brevissimo) a dicembre 2018, quando dopo mesi che procrastinavo per paura ho aperto il pc e sono caduta in una sorta di trance, come se quello che scrivessi non lo stessi pensando e poi scrivendo, ma come se venisse fuori dalle dita, come se il mio cervello e le mie dita fossero un tutt’uno e altro da me. Era una trance consapevole, ovviamente, e quelle prime settantacinque pagine sono rimaste quasi esattamente come le ho scritte. Anche perché più lontani sono i ricordi, più sono sedimentati, sviscerati, esatti, anche se non ci hai mai pensato, anche se non ne hai mai parlato con nessuno, come io non ne avevo mai parlato con nessuno. Era una storia che avevo tutta dentro, scritta esattamente così, anche se non lo sapevo.
Matilde ha con il pane un rapporto incredibile, per quanto tale affermazione possa suonare paradossale. È qualcosa di buono che non la tradirà mai e che mai la farà soffrire. Il pane è così come si vede, non nasconde tristi o cattive sorprese, ed è una sorta di costante della sua vita. Come si spiega questo legame, dolcissimo e viscerale?
Credo di aver già risposto, in parte, questa domanda. Matilde torna sempre dal pane. Ma dev’essere proprio quel pane, oppure niente: Matilde è molto più selettiva sul pane che sugli uomini. Mentre a casa si scatena la tempesta, Matilde mangia il pane, che le dà un senso di calma. Del resto anche Cervantes diceva che i dispiaceri diminuiscono col pane. Quando nel film di Salvatores da Ammaniti, Io non ho paura, dove i bambini mangiano per merenda pane, burro e zucchero, c’è un dialogo allo spaccio, tra il bambino, Michele, e Assunta. “Assunta,” dice lui, “ma se uno ha fame, con 500 lire che può comprare?” E lei: “Eh, che si può comprare? Il pane. Quando uno c’ha fame, si compra il pane.” Il pane come alimento primigenio, che costava poco e ti saziava. Mentre oggi il pane artigianale, col lievito madre e i dodici semi, è roba da fighetti. Il pane scaccia-fame di Verga, di cui nel romanzo cito I Malavoglia. Il pane che Matilde mangia senza companatico perché se il pane è buono non hai bisogno d’altro, e non a caso, lamenta, a Roma lo condiscono sempre. Il pane, che è la più calda e la più gentile delle parole, diceva qualcuno.
Quali sono i tuoi riferimenti letterari? Gli autori e le autrici che più hanno influito sulla tua formazione da scrittrice e che maggiormente hanno influenzato il romanzo?
Quanti giorni hai? No, scherzo. Un paio te li ho già menzionati. Tra gli altri, sicuramente Toni Morrison. Che cito nel romanzo e che da studente ebbi anche la fortuna d’incontrare. Sula, il suo romanzo del 1973, l’anno in cui sono nata, fu il secondo libro che mi diedero da leggere in un corso di letteratura comparata su autrici afroamericane e africane in college (Costanza Rizzacasa d’Orsogna è laureata in scrittura alla Columbia University, ndr). Rimasi folgorata. E incredibilmente un giorno arrivò in classe proprio lei. Niente di trascendentale, stette pochi minuti. Sarebbe narrativamente perfetto, a questo punto, se ti dicessi che la mia insegnante mi aveva fatto alzare in piedi e leggere qualcosa, e che lei – la grande Toni Morrison, che di lì a poco avrebbe vinto il Nobel, prima donna nera al mondo – mi aveva fatto perfino i complimenti. E invece no, nessuna lettura, nessuna presentazione e nessun complimento. Ma per un attimo era lì, questa grande donna, questa literary giant, amica o mentore della mia insegnante, non ricordo, con la tunica e i braids lunghissimi, questa donna che sorrideva a tutta faccia, e fortissima. Ho sempre preferito Sula a Beloved, il suo romanzo più famoso, di quasi quindici anni dopo. Anche se c’è stato un momento, nel mio libro, che avrei potuto prendere quella strada. Quando Matilde abortisce per salvarsi da un uomo atroce, e s’interroga su che genere di padre sarebbe stato quell’uomo, mi sono chiesta se nella follia di quel momento Matilde non avesse anche pensato, abortendo, di “salvare” il suo bambino, se non si sentisse – lei che recita, che mente, che sogna che le taglino la mano e che si sente sempre il personaggio di qualche libro o film – se non si sentisse Sethe. Poi ho rinunciato. Ho pensato che Matilde era già abbastanza folle per altri versi.
E poi Alice Munro, di cui riporto nel romanzo la riflessione su ignoranza e innocenza (l’innocenza di Matilde è un tema del libro), Gertrude Stein, Flannery O’Connor, Patricia Highsmith, Tennessee Williams, Ralph Ellison. Una volta, in un altro corso, dovetti scrivere una critica della scrittura cubista di Gertrude Stein, e io la scrissi imitandone lo stile – avevo una grande faccia tosta. Quel gioco che feci allora di ripetere le frasi cambiandone ogni volta un pezzetto ritorna in Non superare le dosi consigliate, ma qui serve un altro fine. Quello di una scrittura ridondante, quasi bulimica, nel tentativo di trasferire il disturbo di Matilde nella scrittura. Anche se poi è tutto estremamente controllato. Moltissimo, poi, ha fatto per me anche la poesia. Dorothy Parker, Anna Achmatova, Langston Hughes, Sylvia Plath, Robert Frost, Edna Millay, sicuramente ne dimentico, alcuni li ho anche citati. Nel recensire il romanzo, qualcuno ha scritto della capacità di sintesi che viene dal giornalismo. In realtà credo che prima ancora venga dalla poesia. Dalla ricerca del ritmo e della parola esatta in cui ho sempre creduto, e dall’ossessione per la prosodia.
In foto: i poeti Robert Frost e Anna Achmatova
Una caratteristica più evidente del romanzo è la mescolanza di alto e basso, di generi diversissimi. La cantante P!nk e Hofstadter di Gödel, Escher, Bach, Eminem e La lingua salvata, Svevo e gli Harmony, Cioè e Elsa Morante. Mi chiamo Costanza per un verso di Dante, ma poi all’anagrafe sbagliarono e invece di Maia, dalla mitologia greca, che era il mio terzo nome, scrissero Maya, come la margarina e come l’ape. In un certo senso era destino. Sono onnivora. E non posso, a questo proposito, non citare Scerbanenco, delle cui opere sono collezionista. Ci sono autori che si rivelano fondamentali per te in un momento della tua vita, e altri che lo sono per tutta la tua vita. Verso Scerba, oltre che stima e passione, ho un debito di gratitudine: mi ha aiutata a sopravvivere in una Milano invernale di vent’anni fa dove ero piombata da New York, quando non parlavo quasi più italiano e ordinavo cappuccini a pranzo tra le risate dei colleghi. Per caso, alla Feltrinelli di Corso Buenos Aires, presi un suo giallo: scoprii che era ambientato proprio in quella zona, la mia zona. La Farmacia Formaggia, Piazza Lima, Viale Abruzzi. Mi sono sentita immediatamente meno sola. Forse anche per quel potere che hanno i crime, certi crime, di farti sentire meno solo. Ma nel romanzo cito soprattutto un altro suo romanzo, La ragazza dell’addio, che come scrisse Carmen Covito nella prefazione, nel voler scrivere un qualunque romanzo sentimentale, un romanzo rosa, Scerba scrisse un ottimo romanzo storico sull’Italia degli anni Cinquanta. Io, e non solo io, sono stata Milla, quella ragazza di cui Scerba dice “O forse era la sua intelligenza, che la rendeva brutta?” Allo stesso tempo volevo dare a Matilde più innocenza di quanta ne abbia io – anche se anch’io a volte mi sento ancora una bambina, di quasi cinquant’anni e niente figli, ma con gatto. Matilde legge La ragazza dell’addio – con quel terribile Martino che prima di volerla la molla trenta volte, e la vuole solo quando lei sembra non volerlo più – e il suo orizzonte sentimentale è quello, dice che è da quel libro che ha imparato molte cose sugli uomini, e di conseguenza noi ne capiamo su di lei.
Ma se dovessi definire Non superare le dosi consigliate, non direi mai che è un romanzo sulla grassezza. Direi che è un romanzo familiare. Matilde, nel romanzo, non prova rabbia verso la sua famiglia, anche se ne denuncia tutti i comportamenti manipolatori e “storti” – ma manipolatrice e storta è anche lei, sono tutti sbagliati, in questo libro, anche il fratello, che è un capro espiatorio, un santo per certi versi, poi è stortissimo per altri. Era importante che fosse così, che Matilde non fosse solo vittima, perché nessuno di noi è solo vittima. Non lo è Matilde, sebbene sia stata molestata quattro volte e sia oggetto delle manipolazioni di sua madre e di suo padre. Matilde, dicevo, non prova rabbia verso i suoi genitori, ne è profondamente, disperatamente, innamorata. E vuole sempre tornare lì, figlia perenne, tornare a quando aveva tre anni ed era la luce degli occhi di sua madre, quella ragazzina tosta che si guardava allo specchio ed esclamava “Come sono bella! Sono veramente bella!” Matilde non prova rabbia anche perché sa quanto dev’essere grata ai proprio genitori per ciò che le hanno dato, perché nel loro essere “sbagliati” sono anche genitori straordinari. Quante bambine sanno a memoria l’Eneide in latino a tre anni e quello che significa? Quante ragazze hanno dei genitori che s’impoveriscono per pagarle gli studi in un’università prestigiosa, per darle quello che loro non hanno avuto? Ecco, per tanti versi, questo romanzo è una lunghissima lettera d’amore ai genitori, ai genitori e al fratello, cui Matilde chiede perdono, e mentre chiede perdono e ne denuncia i comportamenti storti, continua a chiedere aiuto (“Tutti per uno, cioè tutti per me”). Perché in tutto c’è stata bellezza, come dice Manuel Vilas, nella più bella definizione di famiglia che sia mai stata scritta, che ho voluto come frase guida del romanzo, nella pagina dopo la dedica alla mia famiglia. Si potrà litigare, non capirsi, allontanarsi: ma alla fine, in tutto c’è stata bellezza. Un filo rosso con Robert Frost, di cui nel romanzo cito questi versi: “Home is the place where, when you have to go there, they have to take you in”.