Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Claudia Durastanti, scrittrice, giornalista e traduttrice. Si è parlato del Mucchio, delle camicie di Ian Curtis, di modem a 56k, di giornalismo musicale, di letteratura e Siren Fest, senza un ordine preciso.
Nei tuoi libri la musica è un elemento importante, leggendo Un giorno verrò a Lanciare sassi alla tua finestra si ha la sensazione di sentirla la musica, musica di cui hai scritto peraltro per parecchio tempo in Indie for Bunnies e sul Mucchio. Come ci si fa la cultura musicale che hai, quando si arriva da piccoli nell’estrema provincia meridionale ed internet è ancora di là da venire?
Con un fratello maggiore, i libri e le riviste. I miei genitori non ascoltavano musica per cause di forza maggiore, ma mia madre ci ha sempre comprato dei walkman e da ragazza si era fatta una scorta di libri su Patti Smith o Bob Dylan. Per tanto tempo quei libri sono stati l’unica forma di accesso alla musica, ed è stato solo quando mio fratello ha iniziato a sentire i Beastie Boys o Springsteen che ho iniziato a familiarizzare con i suoni – il resto era musica di sfondo, pop da feste di compleanno senza alcuna funzione formativa. Mio fratello ascoltava musica e sembrava una cosa importante da fare, ti dava un tono e uno stile. Ma non era solo importante, era anche difficile e impossibile, e ogni canzone me la sono dovuta guadagnare. Vivere in Basilicata senza emittenti musicali private o negozi di dischi significava approfittare delle vacanze all’estero per fare spesa e accontentarsi delle riviste nel frattempo. Se ci penso era una cosa romantica, leggere di band e pietre miliari senza avere la minima idea di che suono avessero. Un giorno un amico mi ha prestato Rocksound – avevo 14 anni – e il numero conteneva una classifica dei migliori musicisti della storia. Al 33esimo posto c’era un ragazzo di profilo con una camicia a maniche corte arancione e un verso da uno dei suoi pezzi più famosi. Ho acceso il computer, e con il 56k ho impiegato 9 ore a scaricare una canzone che si chiamava She’s lost control. In quelle nove ore avrò scritto dieci pagine di poesie, solo per quella foto e per quel verso. Quando ho premuto play su Winamp ci sono rimasta male per qualche secondo- la sua voce non era per niente melodica e gentile– ma intanto gli avevo dedicato nove ore della mia vita con un’intensità spasmodica, e non sono più tornata indietro. La cosa più assurda di questa storia è che la prima foto che ho visto di Ian Curtis era una foto a colori.
Secondo te che senso ha il giornalismo musicale e perché hai scelto di lasciare il Mucchio?
È una domanda a cui fatico a rispondere, perché significa doversi concentrare sulla sua funzione, e mi sento come quando i critici si interrogano sulla funzione della letteratura in generale. Io all’interrogativo «Che senso hanno le storie scritte oggi?» rispondo «Quello che hanno sempre avuto: rivelare mondi e infondere un senso del bello». Ho sempre trattato il giornalismo musicale come un genere all’interno di una categoria letteraria più vasta, non ne ho mai fatto una questione scientifica o di servizio. È stato un mio limite forse, ma ho perseguito questo modello in tutti gli otto anni che ho dedicato a interviste e recensioni. Le ho sempre trattate come short stories. Ecco, forse la domanda che mi preme di più è: che senso hanno le recensioni come vengono ancora fatte dalla maggior parte delle riviste, riassunti in duecento trecento parole che spesso umiliano musicista e creatività del recensore spesso? Dobbiamo davvero coprire qualsiasi cosa solo perché è stata messa in circolazione? Facciamo davvero un servizio all’ascoltatore? Ho i miei dubbi in merito, e credo che questo modello non solo stia abbassando la qualità del giornalismo musicale che leggiamo, ma sia anche responsabile della sua crescente irrilevanza storica. Parlare del Mucchio e di quello che è stato per me è come raccontare della fine di una storia d’amore, sono cose che tendo a fare in privato. Al netto di tutto, resta l’unica rivista musicale italiana che comprerei su base mensile.
Come hai preso la morte di Bowie?
Nel dormiveglia, spiando Twitter per colpa della sveglia che è suonata alla cinque di mattina senza motivo, ed è stato bello, perché mi sono riaddormentata subito e per qualche ora non è stato vero. Ogni volta che muore qualcuno che ha fatto parte della mia educazione sentimentale mi viene in mente La Storia Infinita, quando la principessa si lamenta che il suo mondo inizierà a sparire se qualcuno non continua a raccontare storie. Nella mappa che definisce la persona e scrittrice che sono oggi, ci sono terre abbandonate e che non frequento da tempo, e poi sono intere lande oscurate e scomparse. La morte di Bowie è stata l’equivalente di una fortezza malandata che è crollata, un posto di cui ho bellissimi ricordi, da cui mi sono affacciata per la prima volta su una versione di me stessa diversa- più ambigua, più libera, in generale più divertita- e che non potrò rimpiazzare. Non ci andavo spesso, ma era rassicurante.
Secondo te chi tra dieci anni potrebbe esser paragonato a lui?
Nessuno. Ho trentadue anni, anche se non vivessi in un contesto storico ontologicamente ostile alla creazione e riproduzione di mitologie, non sarei capace di identificarlo: non ascolto più dischi con quel desiderio e quella fiducia. Sembra una posizione lapidaria e cinica, ma credo che non sia più il mio compito identificare dei personaggi di quel tipo e trasformarli in icone a furia di articoli romantici, e questo è uno dei motivi per cui ho smesso di fare giornalismo musicale. Ho dato e non rinnego niente, ma magari oggi voglio che qualcuno dica a me chi è un potenziale nuovo Bowie, e mi menta finché non gli o le credo.
Come scrittrice dalla doppia cittadinanza, quale retroterra hai preso dall’America e quale dall’Italia?
Per me la definizione di doppia cittadinanza è stata sempre fuorviante, perché identifica due patrie che non sono mai esistite sul piano immaginifico e di conseguenza letterario. Ho vissuto in entrambi i paesi, in modi e tempi diversi, e i territori si sono confusi: in Basilicata non facevo che anelare a un altrove, né più né meno di tanti miei coetanei, e probabilmente sono diventata più americana dei miei consanguinei rimasti negli States per una questione di ostinazione. Ho un passaporto che legittima questa identità, ma non sarebbe stata meno reale se l’avessi scelta a prescindere. Quel che mi ha dato l’America in termini letterari è il desiderio, la frustrazione di non abitarla completamente, e una compulsione nervosa ed elettrica che resta per me il nucleo più importante della sua poesia e della sua letteratura. La lingua italiana invece mi ha regalato la complessità dei tempi verbali, e dunque un modo diverso di viaggiare nel tempo e immaginare dei personaggi che sono sempre in bilico tra un trapassato remoto e un periodo ipotetico. È una sfumatura esistenziale e stilistica non irrilevante, in qualche modo inaccessibile agli americani.
Eventi letterari e musicali, una presentazione di un libro o un festival, quali sono le differenze e gli scarti che respiri in questo genere di contesti/eventi e in quali ti trovi più a tuo agio? in generale perché la letteratura sembra assumere una posa meno ”cool” rispetto alla musica?
Non sono sicura che la sequenza di eventi e festival attorno alla letteratura non sia stata capace di generare, soprattutto negli ultimi anni, una sorta di hype a se stante, anzi: il pubblico di determinate presentazioni è lo stesso di determinati concerti; fa parte della ridefinizione della letteratura come performance. Qualcosa che non mi entusiasma, ma da cui ritengo complicato sottrarmi e che vivo con la stessa ineluttabilità dell’euro: la soluzione è quella dell’eremitaggio e dell’anti-socializzazione dei propri scritti, una scelta rispettabile, ma carica di implicazioni commerciali a sua volta, e che spesso crea una retorica di tipo opposto ma speculare. La scusa che uso quando mi vergogno a condividere copertine di libri e quarte di copertina – posso trascorrere intere giornate a pensare alle scrittrici e agli scrittori che ho adorato e che non lo avrebbero mai fatto – è che in fondo ho scritto libri per essere letta, e sarebbe ipocrita fingere il contrario. Allo stesso tempo cerco di scegliere: non tutti i festival vanno bene per me, e io non vado bene per tutti i festival. Negli ultimi anni ho partecipato a rassegne molto belle – La Grande Invasione a Ivrea è un esempio – il cui formato è più congegnale al tipo di lavoro che faccio, che sia di traduzione o di scrittura. È lo stesso motivo per cui negli ultimi anni mi sono divertita più al Siren Festival di Vasto o all’Hana-Bi che non ai concertoni di Hyde Park o a tutta una serie di eventi imperdibili. Ecco, andando in giro per presentazioni letterarie ho capito questo: che molto si può perdere.
Uno dei vizi della narrativa oggi sembra essere l’auto-referenzialità (storytelling, memoir, non-fiction). Secondo te quali sono i grandi personaggi letterari creati dalla narrativa degli ultimi anni e che riescono a resistere a questa mania? Quali hai adorato?
Malgrado l’avanzata della corazzata Carrère di cui personalmente ormai intravedo solo le munizioni abbandonate a terra, negli ultimi cinque anni – restringo volutamente il campo – ho scovato almeno cinque personaggi di fiction di cui serbo il ricordo e che ricorrono costantemente nei mei esempi: Sasha de Il Tempo è un Bastardo, Reno de I Lanciafiamme, Boy di Boy, Snow, Bird, Marie di Carne Viva, Denise di Versioni di me.
A quale storia stai lavorando ora? E in generale ti affidi più all’ispirazione o al metodo?
Ho finito da poco un libro tratto dal racconto Cleopatra va in prigione, uscirà in autunno per minimum fax; per il resto mi sto divertendo a flirtare con il romanzo storico. In realtà per me l’ispirazione È il metodo. Il problema è il fraintendimento sul concetto di ispirazione. È come il falso mito che circonda l’improvvisazione nei film di Cassavetes, in parte a causa dei suoi stessi tentativi di depistaggio. Gli attori non improvvisavano quasi niente, erano costretti a memorizzare copioni su copioni, ma allo stesso tempo dovevano dimenticare quello che avevano imparato, e reinventarlo sul momento: l’improvvisazione era il risultato di una rimozione, un metodo per niente ingenuo. L’ispirazione per me non ha nulla di fatale e romantico, è semplicemente una congiuntura di tre fattori: tempo, voglia e storia. Va preparata e studiata.
Extra: Consiglia un disco e un libro ai nostri lettori
- Preparation for the Next Life di Atticus Lish in uscita per Rizzoli
- Remembering Mountains: Unheard Songs by Karen Dalton
a cura di Seppino Di Trana e Giovanna Taverni