La prima parte | Intervista a Carlo Carabba

Quarant’anni, lo spartiacque. La nuova raccolta di Carlo Carabba indaga ciò che ha rappresentato la prima parte della sua esistenza, rievocando i timori, le speranze e le questioni aperte delle raccolte precedenti. Le esperienze quotidiane sono lo spunto per rievocare temi universali come la morte, l’insoddisfazione, l’amore. In un’indagine che parte dalle vite altrui per riconoscere e dare un senso alla propria. La prima parte (Marsilio, 2021) giunge al lettore come un diario che ripercorre le tappe principali della vita personale dell’uomo, ancor prima del poeta, sfiorando quella collettiva. Un percorso che fonde realtà, storia e letteratura, riprendendo l’uso della satira, del sonetto, dell’ode.

Carlo Carabba, nato nel 1980 a Roma, lavora da anni nel mondo dell’editoria. Ha esordito con la raccolta di poesia Gli anni della pioggia (peQuod 2008) con cui ha vinto il premio Mondello per l’opera prima. Nel 2011 è uscito Canti dell’abbandono (Mondadori, premio Carducci), cui è seguito nel 2018 il memoir Come un giovane uomo (Marsilio).


La prima parte è anche e soprattutto un libro della memoria, dove le speranze per il futuro si alternano ai fantasmi di un tempo bruscamente interrotto. Se «non è dolce pensare che la morte / muterà il cerchio in linea / bloccando i movimenti / come il collasso d’un sistema in fuga», invece di guardare avanti, l’unica via di salvezza è quindi proprio la memoria. Guardarsi indietro e nutrirsi di ciò che emerge è sempre la mossa giusta?

Sicuramente la memoria è un dovere morale, collettivo. Ci permette di ripercorrere le grandi tappe che ci hanno portato a essere chi siamo e ricordare le persone che abbiamo amato. Trascendendo la questione sentimentale ed emotiva, credo che l’esigenza più profonda sia morale. Non so se sia giusto parlare di redenzione, rischia di essere uno sguardo rivolto esclusivamente al passato, come L’angelo della storia di Benjamin che vede solo macerie guardando indietro. Il presente in realtà è l’unico tempo che esiste, il passato si configura più come la stagione del rimorso, della nostalgia, delle grandi emozioni. Il futuro è il tempo della progettazione, una prospettiva nuova e necessaria.

Per molto tempo mi hanno spaventato
le vite che ho incontrato e non capivo
che non avrei, per me, desiderato
temevo gli insuccessi, la miseria
restare senza affetti senza beni
materiali volevo
essere forte, bello, essere amato
desideri comuni e incoraggiati
diffusi, inevitabili
ed altrettanto vani.

Il periodo di composizione di questi testi è racchiuso tra due lutti, quello della nonna e del padre, il primo a diciannove e il secondo a quarant’anni. Dentro c’è la vita. Le esperienze quotidiane, quelle amorose, i viaggi. I lutti che fanno parte della vita di ognuno hanno avuto anche nella sua esistenza questa funzione regolatrice, cioè quella di chiudere capitoli della sua vita come nella raccolta?

Penso che i lutti, più che chiudere capitoli, li aprano. Sono pietre miliari che segnano una discontinuità nella mia vita, come nella raccolta. E poi, per puro caso, i lutti più importanti della mia vita, i più drammatici, sono avvenuti sempre in un anno tondo. 2000 e 2020, le rispettive morti di mia nonna e mio padre. Ma anche il 2010 per me ha rappresentato un anno difficile, è scomparsa una mia cara amica, a cui ho dedicato il mio libro in prosa. Ogni lutto ha avuto un impatto diverso, ha assunto un significato specifico. Quello di mia nonna mi ha rivelato la fallibilità del mio orizzonte affettivo. Mi ha gettato in faccia la realtà: i miei genitori sarebbero morti un giorno e anche io. Il secondo lutto riguardava una mia coetanea, una mia compagna di scuola con cui ero cresciuto ed è stato molto doloroso. Mi ha fatto comprendere che la morte, che avevo visto così lontana fino a quel momento, poteva riguardare anche me e i miei amici. Anche io, guarda caso, sono nato in un anno tondo. Il lutto paterno ha un valore particolare. Sradica, imprime una scossa violenta alla propria vita. Ho assistito impotente alla disgregazione del mio orizzonte affettivo, di tutto ciò in cui ho sempre creduto.

Le poesie di questa raccolta scavano in un tempo a volte remoto, a volte così vicino da far paura. L’impressione è proprio quella che la scrittura serva per cercare di dare un senso alla propria giovinezza. Alla soglia dei quarant’anni, rimane qualcosa del ragazzo che è stato?

Mi è sempre piaciuta l’idea che la scrittura dia un senso. Anche le scritture meno efficaci sono un atto di fiducia nel potere della parola. Quelle più complesse cercano di restituire un senso al non senso del reale. Evidenziando l’assurdo, avviene proprio questo: si insiste per rendere spiegabile e comprensibile la mancanza di un senso complessivo. In Satira I il senso è da ricercarsi nella solidarietà degli esseri umani, contro il successo individuale e le soddisfazioni effimere della carriera. Da ragazzo, a volte emergeva l’impressione di non riuscire a godere delle gioie del presente. Oggi ho superato quelle incertezze. Questa raccolta infatti è un atto di amore nei confronti di certi sentimenti provati e di tante persone incontrate.

“Discendenza”, l’ultimo componimento in ordine di apparizione, è una specie di testamento dell’uomo Carlo Carabba, ma soprattutto un testamento universale. Un ciclo naturale senza possibilità di riscatto. Quant’è stato difficile scrivere un testo del genere, risolutivo, a questo punto della sua vita? E in questo quadro materialistico dell’esistenza umana vede qualche forma di redenzione?

“Discendenza” è una poesia conclusiva. Ha chiuso tutte e tre le raccolte di poesie che ho pubblicato, l’ho scritta molti anni fa. Credo che per comprendere fino in fondo la centralità di questo testo sia necessario analizzare il rapporto con Satira I. Uno dei temi che attraversano questo componimento è proprio l’ineluttabilità della morte. La morte sopravviene quando muore la traccia dei nostri affetti. Ma si parla anche di redenzione: sono le esperienze, la vita contingente, le persone che la affollano. L’idea di fondo è che l’esistenza umana sia un mistero e vada per questo rispettata. Con tutto il suo carico di complessità, dolori e speranze. Però sono convinto che alla base dell’evoluzione e poi della salvezza dell’uomo resti la capacità di pensare astratto e l’immaginazione.

Succederà lo stesso
ai frutti smemorati del mio seme
e ai loro frutti e ancora
la notte il buio e il freddo
e il sole
di giorno ancora il sole.
Un giorno sarò morte e intanto vivo.

Come immagina la sua “seconda parte”? Il testamento di “Discendenza” può essere ribaltato o almeno parzialmente riscritto?

“Discendenza” parla di un destino ineluttabile degli uomini, non si può ribaltare. Credo però che in questo testo sia chiaro un messaggio: esiste una positività viscerale del presente che indipendentemente dalla religione sopravvive. Esiste una saggezza, una voglia di vivere che contraddistinguono la mia seconda parte.

In questa raccolta, che include componimenti de Gli anni della pioggia e Canti dell’abbandono, ha raccontato quarant’anni della sua vita, questa ipotetica metà della sua vita. E ora?

Come dicevo, la vita è un mistero e si affronta passo dopo passo. Più che una linea retta, mi piace pensare l’esistenza come un percorso carsico. Ho un lavoro che amo e spero di potermi dedicare il più possibile. Il mio futuro è un dubbio, ma sono fiducioso.

E in ambito letterario come vede il suo futuro?

Da tempo voglio scrivere il seguito del mio precedente memoir. Più che un romanzo, sento l’esigenza di raccontare qualcosa di autobiografico, ma ancora è presto per parlarne.

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