Il premio Napoli non delude mai. Sarebbe sufficiente scorrere l’albo degli autori che dal primo anno di edizione, nel 1954, hanno calcato il palco del teatro Mercadante, per cogliere la validità artistica di questa istituzione. Da Dino Buzzati a Dacia Maraini, da Domenico Starnone a Gianna Manzini. Quest’anno è stata la volta di uno scrittore che, sebbene sia sulle scene da poco, ha già dato prova di possedere una penna superba, una sfera emotiva sfaccettata e uno sguardo acuto. In dozzina al premio Strega con Anni luce, edito da Add, Andrea Pomella è uno degli scrittori più capaci del panorama italiano contemporaneo. Ha vinto lui, quest’anno, e ha vinto con un romanzo di rara forza espressiva, coraggioso come solo la letteratura di grande spessore sa essere: L’uomo che trema.
È una stagione florida per i memoir. In Italia di lettori ce ne sono pochi, questo ormai è un dato assodato e che tutti stiamo cercando di digerire, ma quei pochi parrebbero pure attratti da impianti narrativi intimi e viscerali. La lista sarebbe lunga e consterebbe di ottimi autori, noti e poco noti, che negli ultimi anni hanno rimpolpato il genere a dovere. E uno tra tutti è proprio Pomella, che ha colpito molto e molti – tra questi si annovera il sottoscritto – per una capacità narrativa fuori dal comune.
Anni luce e L’uomo che trema. Sono ambedue romanzi dal piglio personale e intimo, ma il secondo è un memoir. Qual è stata tra i due la differenza nella scrittura? Sia per quel che riguarda l’organizzazione in sé, sia per quel che riguarda l’approccio a livello emotivo.
C’è una differenza sostanziale tra i due, e risiede nel tempo narrato. In Anni luce sono proiettato sul passato, in L’uomo che trema parto da un’istanza del presente. Questo perché la scrittura autobiografica, per me, non è solo la ricostruzione del passato, non è solo il recupero di una vicenda che ci siamo lasciati alle spalle, ma una scrittura – dunque al tempo presente – che tramite l’uso del contemporaneo rende il colore, il tono e il senso stesso del passato.
L’uomo che trema ho iniziato a scriverlo quando ho sentito l’esigenza di raccontare ciò che mi stava capitando, cioè cominciare una terapia antidepressiva e combattere con la depressione. Era un’esigenza sì, e ciò che ho cercato di fare è stato seguire quello che capitava “in progress”; tant’è che tutto ciò che c’è scritto è stato scritto spesso il giorno dopo i fatti accaduti.
Sta più in un fatto temporale, la differenza tra i due romanzi.
L’uomo che trema, per forza di cose, ti ha costretto a fare i conti con dolori, ansie, paure che ti portavi dentro. Questi demoni, in qualche modo, sono stati esorcizzati dalla scrittura? In tal senso, portarli o, meglio, trascinarli sulla carta ti ha aiutato?
Non è la mia principale preoccupazione, quella di esorcizzare i dolori o di curare me stesso con la scrittura. Per me la narrazione è altro, è raccontare una storia: il senso è quello. La realtà non serve a mutare la scrittura, ciò che cerco di fare non è portare la realtà nella scrittura, quanto piuttosto il percorso inverso: cerco di fare in modo che la scrittura cambi la realtà. In questo senso L’uomo che trema è stato il primo tentativo di fare qualcosa di simile. Non volevo curarmi attraverso la scrittura, far sì che la scrittura, una volta esercitata, avesse delle conseguenze sul reale. Come, ad esempio, accade nell’incontro con mio padre, una vicenda di cui parlo nel romanzo, che mi è capitata proprio nel momento in cui mi trovavo al capitolo precedente.
La gestazione del romanzo è stata una sorta di catabasi o piuttosto una risalita, dunque? Scrivere è stato riabilitante per te?
Non so se sia corretto individuare una direzione in questo senso. In realtà, direi nessuna delle due. La scrittura per me è più un’esplorazione lineare di quello che può accadere o che, in questo caso, mi è accaduto. Questo anche per un fatto temporale, cronologico. Ad esempio, sempre a proposito di direzioni, gli antichi avevano una visione di passato e futuro diversa dalla nostra. Noi siamo abituati a pensare che il futuro sia qualcosa che ci sta di fronte, mentre il passato ci sta alle spalle. Ecco, loro la vedevano e vivevano esattamente al contrario, cioè il passato era una cosa che stava loro di fronte e il futuro gli stava alle spalle. Proprio perché non potevano vedere ciò che stava loro per accadere. Per me la scrittura è così, è un camminare all’indietro scoprendo momento per momento quello che accade e cercando di farlo collimare con il mio presente e passato.
Penso a te, a Fuani Marino e a Simona Vinci in Italia e poi, ad esempio, a Matt Haig all’estero e ho come l’impressione che finalmente si parli di più e con meno remore della depressione, in letteratura. È così?
Di depressione soffre talmente tanta gente che nascondersi non ha più senso. Nascondersi da cosa, poi? Oggi come oggi se esci di casa e cammini sul marciapiedi di una città qualunque hai il quaranta percento di probabilità di incontrare qualcuno che soffra di depressione. In verità, quindi, ti guardi continuamente in faccia con altri depressi e nascondersi, secondo me, sarebbe inutile. Poi, certo, esiste ancora uno stigma sociale fortissimo nella società contemporanea ed è un fatto che andrebbe sicuramente affrontato. Se la letteratura dunque se ne occupa in prima persona, perché no, che ben venga. Detto questo, comunque, io non credo di aver scritto un libro sulla depressione. In realtà ho usato la depressione come lente per indagare qualcosa di più grande, cioè quello che banalmente tutti riassumiamo nel senso della vita. Secondo me lo sguardo di un depresso è molto interessante, sotto questo punto di vista, perché ha una percezione del mondo, del vissuto, del presente del tutto diversa da un non depresso.
L’assenza di tuo padre nel romanzo è pressante e, a costo di suonare banale, devo dirlo: è un’assenza che si fa presenza. Da cosa e come nasce un’ossessione del genere? Voglio dire, la tragicità di una mancanza risiede in ciò che è stata capace di togliere o piuttosto in ciò che con il suo ricordo ha lasciato?
La tragicità di una mancanza sta nel non poter nominare ciò che è assente. Questa è stata la grande tragedia della mia vita: non poter nominare mio padre e tutto ciò che c’era intorno a lui. Ciò che riguardava lui, quindi nel passato, e ciò che riguardava la sua assenza, quindi nel presente. Una delle parole che non riuscivo a pronunciare, appunto, era papà; o, in effetti, anche il mio stesso cognome. Questo non nominare, un’operazione che veniva fatta già in casa mia, ha reso la mancanza una sorta di mostro che si autoalimentava giorno per giorno.
Penso alla tua compagna e a tuo figlio, e al rapporto con loro descritto nel romanzo. Credi che l’egoismo del dolore, la pretesa di attenzione totale della sofferenza, in qualche modo si riversi sui rapporti con gli altri?
Sì, senz’altro. Il depresso è un enorme egoista. È un narcisista, qualcuno che pone al centro del mondo la propria percezione demoralizzata del mondo stesso. Il motivo per cui altera i rapporti è che richiede perennemente delle attenzioni, la depressione per certi versi è anche un’enorme, gigantesca richiesta di aiuto. Quando ad esempio si rivolgono al depresso le solite frasi di circostanza “dài, esci di casa” oppure “dài, su col morale”, si commette un grosso errore. Il depresso priva di significato ogni cosa all’interno della realtà. Sé stesso, gli affetti più cari, tutto. Nulla ha senso, l’unica cosa che ne ha ancora è la depressione stessa, una sorta di feticcio che si porta appresso ovunque come fosse la sua coperta di Linus.
Ne L’uomo che trema c’è un tentativo di salvarsi, in Anni luce i protagonisti parrebbero invece puntare all’autodistruzione. Si tratta di una dualità coesistente in ognuno di noi o piuttosto certi sono rivolti a un desiderio e certi altri no?
Sono due vie, due aspetti delle pulsioni umane. Secondo me c’è anche una questione che riguarda l’età diversa in cui si svolgono le due storie. Anni luce rappresenta la gioventù che si dispiega negli anni Novanta in cui la distruzione era il segno principale. In L’uomo che trema c’è invece una maturità maggiore e la maturità impone quantomeno di provarci, ad andare avanti e a salvarti. Anche io ho indugiato nel pensiero dell’autodistruzione e anche da adulto, poi però vince la voglia di resistere, di tentare.