Intervista ad Alessandro Baronciani

01Musicista, grafico, illustratore, fumettista – disegnatore ma anche sceneggiatore delle sue storie – Alessandro Baronciani si fa un po’ fatica a inserirlo in un contesto preciso, e si distingue dai suoi colleghi di qualsiasi degli ambiti di cui sopra per essere un artista completo: libri illustrati, copertine di dischi e libri, esposizioni, pubblicità, video, oltre ai fumetti, in cui pure sperimenta molto. Una storia a fumetti, il suo primo lavoro edito per Black Velvet nel 2006, raccoglie cinque anni di storie spedite per posta singolarmente ad ogni abbonato, seguendo la prassi dei bootleg e dei dischi autoprodotti delle etichette indipendenti: storie in cui si mescolano le vicende autobiografiche dell’autore e quelle che i lettori gli avevano raccontato nelle lettere. Il secondo volume, Quando tutto diventò Blu, abbandona la coralità del primo per scegliere la storia di un unico personaggio, e ci racconta in un blu monocromo dell’emancipazione di una ragazza dai suoi attacchi di panico. Ma è col terzo libro del 2011, Le ragazze nello studio di Munari, che Baronciani fa il salto di qualità, giocando con la cartotecnica e dialogando con letteratura e cinema per mettere in scena la difficoltà dei rapporti sentimentali in questo primo scorcio di nuovo millennio, vincendo pure diversi premi (Treviso Comics, Comicon e XL). Abbiamo incontrato Alessandro alla Napoli Comicon, in occasione dell’uscita del nuovo volume Raccolta, con cui è passato a Bao Publishing, e chiacchierato amorevolmente per un’ora buona: nonostante l’atteggiamento da eterno ragazzo, ci siamo trovati di fronte un artista ormai maturo, molto consapevole e attento a ciò che gli accade intorno, oltre che una persona alla mano e straordinariamente disponibile ad accontentare tutte le nostre curiosità.

Raccolta, una selezione di 20 anni di storie brevi distribuite parallelamente alle altre attività tra fanzine e riviste varie (XL, Rumore), pubblicata in un formato particolare – della grandezza di una cartolina –  ci dimostra come alla solita ritrosia con cui Alessandro parla della sua attività di fumettista, sottolineando che si tratta di una passione e non del suo lavoro, in realtà corrisponda una lunga e intensa carriera.

Come è nata l’idea di pubblicare questo volume di storie breve, e il rapporto con Bao?

I rapporti con Black Velvet erano terminati, visto che il marchio praticamente non esiste più. Le mie opere sul loro catalogo – Le ragazze nello studio di Munari in particolare – sono terminate, ne restano le copie che sono in giro, non so neanche dirti come e se saranno ristampate. Con Bao mi sono trovato subito molto bene, e siccome avevo bisogno di un altro anno per terminare il libro nuovo e avevo tanto materiale sparso tra le varie fanzine e riviste, ho pensato di metterlo tutto insieme, e così ho avuto anche l’occasione di sperimentare questo formato nuovo con cui penso di stampare anche il prossimo volume, visto che mi è piaciuto tantissimo: è metà del mio formato solito, ed è anche il formato del Tex originale, se ci pensi. Il fumetto secondo me è un formato, tu sei riconoscibile anche dal mondo in cui imposti la tavola. Quando I ragazzi di Bao mi hanno detto che sarebbe uscito in contemporanea cartaceo e in versione per smart-phone ho pensato che volevo farlo così: il formato solito non mi piace più, mi chiedo perché devo mettere un disegno sopra l’altro, preferisco poter fare una panoramica in lungo, una panoramica vera e propria – così come negli altri libri c’era l’idea delle pagine che si aprono. Il fumetto è quello, è anche il formato.

Infatti, tra i fumettisti ti distingui anche per il rapporto che hai con la forma, rispetto ad altri, Toffolo compreso; ci trovo un dialogo vero e proprio col mezzo fumetto, o anche col fatto che lo esporti fuori dalla tavola, con le illustrazioni, o che usi tecniche particolari come la cartotecnica.

È tutta colpa del mio professore di pittura dell’accademia, che tra l’altro si chiamava Maraniello e veniva da Napoli. Lui sedeva sulla cattedra incazzatissimo ed era severissimo, ma erano delle lezioni molto belle. C’era molta tensione, noi giovani artisti con molto supponenza volevamo subito colpire, piuttosto che essere lì per imparare, una sfida continua coi docenti, soprattutto con quelli a cui davi molto peso artistico, che lui si conquistava facilmente. Quando dovevi esporre nella galleria, lui ti giudicava anche in base a come esponevi il quadro: ti diceva che se tu un quadro lo metti per terra, lo appoggi sul soffitto, il significato cambia. Non è solo quello che rappresenti dentro il quadro o nel fumetto a fare il significato, il modo in cui presenti le cose non è solo una questione dell’abito che fa il monaco, è proprio una questione di significato, come entri in una stanza camminando sulle mani invece che sui piedi. Questa cosa mi ha colpito molto. Siamo tutti condizionati da Duchamp…

…oltre appunto che da Munari.

Certo, Munari è un genio: questo libro ce l’avevo nella testa da quando ho iniziato, con questa cosa della cartotecnica, poi di solito quando fai fumetti, vai avanti a pensare alla storia che scrivi finché trovi la formula che ti piace, magari vedi una cosa e poi ti serve per metterla nella storia, tipo se tu mi saluti in una maniera strana che mi rimane dentro, un giorno potrei usarla per far salutare due personaggi. Certi modi di fare non sai mai quando ti serviranno, ma prima o poi troveranno il loro posto: così è successo con Munari, quando ho visitato una sua mostra. La vita dell’artista è un po’ come quella del barbone, o come quella di Henry Darger, che ha raccolto per tutta la vita tutto quello che trovava per strada, come un matto, e poi un giorno a casa sua hanno trovato tutto questo materiale inserito e rielaborato in un libro di migliaia di pagine, in cui ha scritto la sua epopea delle Vivian Girls. L’opera di un visionario, ma il suo metodo era appunto rielaborare tutto quello che trovava sulla strada. Secondo me l’autore di fumetti dovrebbe fare così.

A proposito del Le Ragazze nello studio di Munari, mi piace pensare al protagonista come ad una specie di anti-stereotipo dell’italiano dongiovanni, trovandoci davanti un seduttore quasi inconsapevole, che non riesce a gestire le sue diverse storie.

In realtà Fabio non è proprio un dongiovanni, quanto piuttosto un ragazzo che non riesce a crescere, e quindi si trova in situazioni in cui non riesce a scegliere se ama più una ragazza che un’altra, ne ama troppe – come il Bertand de L’uomo che amava le donne di Truffaut. Nasce tutto dall’idea di questo film in cui c’è l’idea di amare la donna in tutto, Bertrand non ne ama una in particolare ma le ama tutte; non è un dongiovanni, Bertrand è “l’amore” e in quanto “amore” la fine della storia di Bertrand è morire. Non può amarle tutte per sempre o sceglierne una per tutta la vita.

Hai visto anche il Racconto d’estate di Rohmer? Anche lì c’è una situazione simile, in cui un ragazzo che non sa scegliere finisce per perdere tutte e tre le ragazze con cui amoreggia.

Il finale in realtà è stato controverso, perché mi piaceva l’idea del finale triste – in realtà Chiara poteva anche tornare – ma mi piaceva chiuderlo così, anche nel segno della crescita personale che non si compie; poi è la storia che uno racconta ad un altro, come quella di Bertrand, ma quello che mi interessava di più era raccontare Munari, e mi sembrava adatto prendere come protagonista un ragazzo che non riusciva a crescere, che fosse un bambino, così come Munari ha continuato a fare le cose da bambini. Perciò non so fino a che punto si possa parlare di stereotipi.

Alla fine delle Ragazze dello studio Munari c’è questa pagina con il file che ti viene spedito dal personaggio Fabio: viene da uno spunto vero?

Una storia a fumetti era tutto costruito su storie che mi arrivavano per posta e che rimasticavo, ributtavo dentro, e allora anche nelle Ragazze ho voluto mantenere questa cosa della soglia labile tra finzione e realtà. Per esempio, Fabio esiste veramente, è un amico che ha una libreria a Pesaro ma la storia è totalmente inventata. Tutto sta a come racconti le bugie. Se una bugia è fatta bene ha qualcosa di reale. Io ti porto a credere nelle realtà, ti abbasso la soglia della realtà in modo che tu sei portato a credermi, abbassando quello che si chiama “sospensione del giudizio”. Come accade ade esempio in “Up!” dei Pixar? Inizio un film a cartoni animati raccontandoti la vita vera di una coppia: si conoscono si amano, non riescono ad avere i figli, fanno sogni di viaggi che non faranno mai, debiti fino ad arrivare alla morte. Hei! aspetta un attimo questo non è un cartone animato! è la vita e la cruda realtà. Quando cominci a pensarlo inizia la magia ed è solo allora, quando sospendi il giudizio, che una casa volo grazie a dei palloncini, i cani parlano e guidano gli aeroplani. Tutto ti sembra fantastico perché ci credi veramente. Se ti racconto la realtà e le bugie insieme sei più portato ad ascoltare il mio racconto. Se invece ti parlo di draghi, elfi nelle foreste, è difficile che tu mi creda subito. Che prendi quello che dico per vero. Bisogna trovare anche nuovi modi per raccontare le stesse cose.

Prendi per esempio il nuovo libro di Ausonia (ABC, ndr.): racconta di zombie, di morti che vivono tra noi, ma lui te li descrive da una prospettiva molto realistica e in un modo in cui sei portato a credere. Creando un’aspettativa, un interesse spingi più avanti la soglia della realtà. Se ti dico che Fabio esiste, allora ti nasce un dubbio, ti viene da chiederti se la sua storia è vero o no.

Quel file alla fine è anche un modo per alimentare l’illusione, quindi?

Anche, ma non solo, è anche una voglia di chiudere in una maniera meno drastica la storia, di trovare una via di fuga dal finale definitivo. Se prendi la Raccolta hai tantissime storie staccate che ti danno l’impressione di micro-racconti non finiti. La storia dei piloti dei robot, per esempio, si era pensato di farne una storia completa e indipendente da pubblicare a parte, ma poi quelle armature a fungo tornano in altre storie, come altri elementi. Succede come quando tu senti un discorso e hai un’idea vaga di quello che sta accadendo – come in Una storia a fumetti, dove in concreto, lo dico io per primo, non succede niente – lo leggi e ti viene da legare le cose insieme: l’uomo è fatto così, se vedi le cose ci vedi dei legami e dei racconti, come per il fatto che vedi due cose vicine le antropomorfizzi e cominci a trovare nelle auto delle facce che ridono, e la faccia per prima è un racconto. Perciò amiamo la simmetria – e invece gli artisti amano le cose non simmetriche, perché sono destabilizzanti.

A proposito di Una storia a fumetti, invece, quando hai deciso di concluderla e come hai motivato la cosa?

Non riuscivo più a gestire il tutto, i contatti erano ormai più di 500, gli abbonati erano più di 350 e 400 quelli che mi scrivevano, e gli editori stessi sono venuti a chiedermi di pubblicarla in volume. A pubblicarla ci ho messo tantissimo perché da solo non ci riuscivo, per fortuna in quel periodo vivevo con Davide Toffolo che mi ha dato una mano e mi ha spinto, sentivo che era una roba troppo grossa per me. Detto questo, mi piaceva tantissimo gestire quella cosa e ricevere così tanta posta, era un periodo che mi arrivavano più lettere per il fumetto che bollette.

Se invece volessimo parlare delle tue influenze?

Le maggiori influenze sono state i fumetti giapponesi e americani, e da piccolo leggevo Dylan Dog, che ha proposto per la prima volta un modello completamente diverso, avulso dal Bonelli di quel periodo, anche per lo stile del disegno, con Stano che al primo numero mi ha fatto paura, era ostico, per chi come me era abituato a Ferri e a Mister No. L’ho trovato davvero destabilizzante, infatti non a caso il primo anno di Dylan Dog è andato malissimo. Oggi nessuno invece fa più quei numeri, era diventato una mania. Credo che in quel periodo l’edicola era davvero internet, se volevi vedere il mondo andavi in edicola, dalle riviste alle fotografie trovavi tutto lì, a partire dai fumetti, le foto dei paesi, i porno, era il punto di contatto con altri mondi. Le lettere le pubblicavi sulla rivista, come sulla posta di Linus, che era una specie di forum: tutti i sistemi che sono migrati su Internet erano nati lì. Molta gente comprava Linus per leggere la pagina della posta: è a partire da queste cose che scopri che il mondo è cambiato, e si è velocizzatissimo. In edicola ho scoperto Mondo Naif che è stato il modo che cercavo per iniziare a raccontare le mie cose.

A proposito di autobiografismo, invece, cosa mi dici?

Mah, quella è una fase che è già finita. Ci sono due modi per raccontare le storie, oggi: la prima è la finzione, la seconda è la condivisione. La prima riguarda la storia, raccontare qualcosa di originale è difficile e bisogna mettersi in gioco veramente struttarando e complicando la trama. Ad esempio con Lost, si è persa la forma racconto con l’eroe che parte, costruisce, e torna vittorioso. Il racconto di condivisione parla di quello che è stato con quelli che l’hanno vissuto o avrebbero voluto viverlo.

Devi capire cosa stai dicendo a chi – come fa Zero Calcare – perché ci troviamo in una condizione in cui non c’è più niente, siamo tutti a galla allo stesso modo e possiamo ricordare quello è già affondato prima di sprofondare anche noi. A me piace molto la finzione, ad esempio prendi il film Cloud Atlas, in cui nessuno capisce niente ma tutti sono coinvolti in qualcosa più grande di loro. Ad un certo punto del film c’è il racconto delle gocce d’acqua che fanno insieme l’oceano: la storia è appunto questo: tante persone che fanno micro cambiamenti. non esistono grandi idee ma miliardi di email spedite tutti i giorni che spostano di poco le idee.

Dici sempre che i fumetti sono la tua passione, non il tuo lavoro. Ma se potessi vivere di fumetti lo faresti?

Non da solo. Non voglio uno sceneggiatore, ma comunque delle persone, non mi piace l’idea dell’autore che fa tutto perché è un gran lavoraccio, è molto difficile, e poi si è sempre da soli mentre credo che le idee vengano dalla comunicazione e dal confronto. All’inizio ero abituato a pensare in singolo ma poi, quando ho lavorato in pubblicità e mi sono trovato a lavorare in gruppo, ho scoperto che – come diceva Munari – da cosa nasce cosa, che è quello il modo di creare e divertirsi in modo efficace.

Un po’ come è stato per il gruppo che si riuniva intorno a Toffolo ai tempi di Mondo Naif? Tra l’altro, ho sempre avuto l’idea di un universo unico che unisce tutti i tuoi personaggi, come accade per la Bologna disegnata in quella serie di albetti.

Quella era più di una rivista in cui si raccoglievano una serie di storie. È stata un’esperienza importante per il fumetto nuovo, e per me, come ti dicevo.

a cura di Francesco Chianese e Alessia Carnevale

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