Padiglione Oval, poco dopo pranzo e in quello spaccato di tempo che precede i consueti “disegnetti” dei fumettisti di casa Bao Publishing. Entrare nello stand, brillante e con tanto di angoletto foto sotto al neon, è come raggiungere una cerchia di amici a cui piace davvero tantissimo fare quello che fanno. Mi siedo accanto ad Alberto Madrigal con Daniel Cuello (che disturberà ogni tanto, ma le battute in spagnolo non sono state riportate!) e tutti gli altri dall’altro, in un ambiente tanto chiassoso quanto carico di energie positive. Si sta bene da Bao, sì.
Arrivo alla chiacchierata con Madrigal avendo già letto tutti i suoi lavori e parlare con lui mi fa capire quanto la voce che ha dato alle sue narrazioni sia proprio personale, autentica e sincera – anche quando non strettamente autobiografica.
Pigiama Computer Biscotti per quanto profondamente diverso nella struttura e negli intenti, si presenta quasi come prosecuzione tematica dei precedenti. Trovi un lavoro, ti costruisci una stabilità professionale e relazionale, poi diventi padre e in un modo o nell’altro sei costretto a rimettere in piedi gli equilibri della tua vita. Dall’altro lato, poi, i dubbi e gli interrogativi di un artista alle prese con un blocco creativo e le aspettative su di sé. In quest’opera Madrigal si rivela ai suoi lettori in modo intimo, quasi commovente, senza perdere quel tocco di autoironia che riconosco anche nelle risposte datemi nella nostra mezz’oretta insieme. Qui quello che ci siamo detti.
Nella tua prima opera, Un lavoro vero, per quanto non biografica, immagino ci fosse molto di te nella storia di Javi. In Pigiama Computer Biscotti, invece, parli e disegni apertamente di te e della tua famiglia: com’è stato raccontarsi in modo così intimo?
In realtà quando scrivo non mi faccio queste domande. Nel senso che scrivo tutto in una prima stesura che arriva fino alla fine del libro, perché se mi fermo a rileggere è una tragedia: mi rendo che sto dicendo quello che non dovrei e mi blocco. Sono arrivato alla fine della stesura di questo libro senza neanche farlo leggere a mia moglie, perché avevo paura mi dicesse “che cosa stai facendo?” e sarei andato nel panico.
Dalla fine della prima stesura però poi passano dei mesi, così dopo sei in grado da un lato di vedere le cose da una certa distanza – per capire subito non solo quali sono le cose brutte e quelle belle della storia, ma anche se qualcosa non vuoi dirla o vuoi cambiarla, non per nasconderla ma magari per raccontare quello stesso sentimento in un modo che non sia così intimo.
La scrittura di questo libro è stata molto naturale ma nello stesso tempo sofferta. Tante volte mi dicevo: “Ma chi me lo fa fare? Ma perché racconto queste cose?”. In questi casi hai anche un peso addosso: magari capita di lavorare per un anno intero per poi renderti conto solo alla fine che forse hai esagerato, anche se al momento non hai capito di averlo fatto. Quindi raccontarsi in modo personale per me è una cosa molto facile, ma allo stesso tempo quando hai finito ti mette un po’ di angoscia.
Questo tuo nuovo lavoro nasce da un blog che hai aperto e alcuni episodi sono proprio tratti da lì: continuerai a lavorarci o è stata una parentesi?
Tutto è stato un esperimento improvvisato. Ho iniziato la storia perché ne stavo scrivendo un’altra – che voglio continuare – e mi ero bloccato, quindi mentre leggevo libri sulla scrittura per sapere come altri autori affrontavano questi blocchi ho iniziato a fare delle prove narrative, a fumetti, su quello che avevo già scritto.
Ma mi sono bloccato di nuovo, perché sentivo che volevo una voce leggermente diversa dagli altri libri; anche se magari poi da fuori non si sente, cercavo qualcosa di diverso e non riuscivo a trovarlo. Quindi mi sono fermato sia sulla parte scritta che in quella grafica. Ho rotto un sacco le scatole a Michele, Zerocalcare, che mi ha convinto ad aprire il blog. Il blog è una cosa bellissima che ti permette davvero di essere libero: non hai scadenze. Io impiego circa una settimana per scrivere una puntata, è anche un tempo che puoi “buttare”, diciamo. E’ stata un’esperienza superbella e dai capitoli che avevo fatto ho pensato: perché non faccio una storia anche con questi?
Il blog vorrei continuarlo; ovviamente mentre lavoravo al libro è stato impossibile perché tutto sarebbe finito nel libro ed era come pubblicare online cose che stavano per uscire in libreria quindi ho fatto una pausa. Però è pure vero che mi dispiace quando qualcuno ha un blog che non aggiorna mai: è una cosa che mi terrorizza perché so che è un impegno. Magari impieghi una settimana per un episodio, ma devi dedicare la tua settimana solo a quello e non sempre te lo puoi permettere. Vorrei trovare il modo di continuarlo senza abbandonarlo, anche se non aggiornato super di frequente.
La tua opera racconta del tuo modo di affrontare il processo creativo accanto all’evoluzione della tua vita personale, soprattutto con la nascita di tuo figlio. A distanza anche dalla conclusione di “Pigiama Computer Biscotti”, sei riuscito a trovare un equilibrio?
Sì e no. Non l’ho trovato – è difficile rispondere a questa domanda -, ma penso di avere trovato qualcosa che mi aiuterà a trovarlo. A volte penso di averlo trovato e in altri momenti no. Io faccio tante cose in contemporanea, come penso tutti quelli che hanno una passione che a che fare con qualcosa di artistico che può diventare potenzialmente un lavoro. Io faccio i miei libri – la mia passione; ma anche lavori di illustrazione che è il mestiere con cui alla fine guadagno. E poi per me è anche importante avere tempo per la mia famiglia e i miei amici. Non voglio più fare come facevo dieci anni fa, quando potevo stare a lavorare anche fino alle cinque del mattino, anche perché ora mi stanco. Avere un figlio piccolo fisicamente ti distrugge. La cosa bella però è che un figlio ti obbliga a concentrarti sulle cose importanti: a me piace lavorare sulle mie cose svegliandomi un paio di ore prima di lui e la mamma, a un orario in cui sei anche troppo addormentato per pensare ai problemi e puoi dedicarti al lavoro. Basta poco in realtà, anche un’oretta e mezzo al giorno per portare avanti un progetto. Sembra il contrario, ma un’ora al giorno fa moltissimo, più che quindici ore tutte concentrate in un solo giorno della settimana.
In questa tua opera parli anche banalmente di preventivi e soldi. Quanto è difficile vivere di fumetto oggi? E pensi ci sia una discriminizzazione del fumetto come mezzo di comunicazione?
In realtà quando parlo di preventivi e altro, nel libro, non è mai per il lavoro da fumettista, ma da illustratore. Quando fai un contratto per pubblicare un libro, il contratto che firmi in Italia è molto simile a un contratto che potresti firmare in Francia o in altri paesi, anche se ad esempio è probabile che in Francia ti paghino di più. Questo banalmente perché in Francia calcolano che venderai molte più copie, perché lì ci sono molti più lettori di fumetto. Semplicemente in Italia ce ne sono di meno. Anche se all’inizio io ero molto determinato a fare del fumetto la mia professione, con gli anni ho capito che quella era una posizione radicale che mi portava a fare delle scelte il cui obiettivo erano i soldi, e quindi cominciavo ad allontanarmi da quello che mi interessava. Lo so che suona un po’ da artista strano!
In ogni caso, con i fumetti puoi anche guadagnare tanto se ti leggono in tanti. Devi avere fortuna e sperare che un tuo libro venda molto, ma non puoi basare la tua economia personale e familiare su qualcosa che non sai come andrà, anche perché poi se va male ti concentri solo su quell’aspetto negativo. L’importante è fare un libro di cui ti senti orgoglioso, che ti piace, eccetera.
Per l’altra domanda, il fumetto dopo tutto è un linguaggio: è un modo di raccontare storie, come lo è il cinema o il romanzo. Il punto è che ancora visto poco come mezzo per gli adulti, probabilmente perché è sempre stata una cosa usata con e per i bambini. E’ immediato, ci sono le parole ma ovviamente anche molte immagini. Quindi continua a essere associato a questa cosa, ma già con Zerocalcare o Gipi o altri autori che lo hanno portato in libreria è già cambiata la visione del fumetto e cambierà sempre di più. Serve solo tempo.
Hai parlato anche di numero di lettori. Tu ovviamente vivi in Germania quindi magari non ne sei così consapevole, ma secondo te da cosa dipende l’avere un numero inferiore di lettori di fumetto in Italia?
Allora, io non sono un esperto. Io faccio i libri, non conosco le vendite. Però immagino sia un po’ come in Spagna, il mio paese d’origine: se per strada chiedi a qualsiasi persona adulta quanti fumetti ha letto, probabilmente ti risponderebbe che non sa neanche di cosa stai parlando, a differenza per esempio dei film. Manca semplicemente che diventi un mezzo più conosciuto. Però c’è anche chi preferisce che non lo sia: è una cosa interessante che sia di nicchia, e il non avere un contesto con enormi interessi economici alle spalle lo rende un ambiente più libero. Questa è una cosa bellissima che si perderebbe qualora diventasse mainstream. Come tutte le cose, anche questa ha il suo risvolto positivo e quello negativo.
Una cosa che dico nel libro, così come altri autori è: magari un autore non sopravvive solo col fumetto, però grazie al suo fumetto qualcuno ci realizza un film, o gli commissionano continuamente illustrazioni o collaborazioni per il suo stile, per quello che sa fare. Mentre non pubblicando i propri libri, un artista potrebbe non essere notato per quello che sa fare e non essere chiamato da nessuno. Pubblicare libri quindi può essere qualcosa di positivo che ti può portare anche ad altri lavori, così da mantenere la tua libertà artistica e anche l’indipendenza economica.
Che siano autobiografici o meno, scritti o anche solo disegnati da te, come nel caso di Berlino 2.0, Berlino è sempre protagonista dei tuoi fumetti. Quanto ti ha influenzato come città a livello lavorativo?
Mi ha influenzato tantissimo, ma in realtà – tranne che nel primo libro – non volevo parlare di Berlino: è solo uno sfondo. Mi piace esteticamente quello che vedo quindi provo a portarlo graficamente nelle storie, ma già nella storia nuova che sto scrivendo (e che al momento ho lasciato in pausa) sto provando a cambiare contesto, ambientando il libro in Italia: a Milano, Torino e Roma.
Quando devo ambientare le mie storie in altri posti però, devo anche viaggiare, prendere informazioni visive, è una cosa faticosa. Mentre a Berlino se mi serve sapere com’è fatto un palazzo, mi basta uscire di casa. Mia moglie è di Roma, e ci vado spesso: mi piacerebbe tantissimo ambientare un fumetto nella Capitale perché è super ricca visivamente, anche i colori sono bellissimi. I problemi sono due: il primo è che ci sono tantissimi motorini e disegnare i motorini è difficilissimo; il secondo è che bisogna riportare anche come parlano le persone, i gesti, come si comportano i personaggi se sono di Roma, quindi c’è molto più lavoro dietro di come sembra, anche solo per usare la città come sfondo. Mentre a Berlino posso raccontare la storia di uno spagnolo che abita a Berlino, che è quello che faccio.
Hai nominato quest’opera da cui nasce tutto, anche la tua crisi: sei riuscito a riprenderla?
Non ancora perché ho finito due settimane fa questo nuovo libro, e ora che nascerà il mio secondogenito avrò sicuramente qualche altro mese di pausa da quel punto di vista. Mi piacerebbe riprenderla presto anche perché è la cosa che più mi piace tra quelle che ho scritto finora. Poi non so se è bella o no, ma a me piace tantissimo e penso possa venire fuori una storia molto interessante. Non ha niente di autobiografico e per me è una cosa nuova; è proprio lontano da me in tanti sensi e mi sembra di scoprire i personaggi e le loro vite dall’esterno ed è molto emozionante.
Sia Un lavoro vero che Va tutto bene parlano della generazione tra i venti e i trent’anni di ragazzi che cercano un posto nel mondo; Pigiama Computer Biscotti è ovviamente, seguendo te, più adulto nei temi e nei problemi da affrontare. Com’è cambiato l’approccio alle tue opere con la tua crescita personale?
E’ vero quello che hai detto, ma c’è anche un altro modo di leggerlo, più generale. Nel mio caso personale il cambiamento è stato avere un un figlio, ma potrebbe essere qualsiasi cosa che ti costringe a mettere la tua soddisfazione personale da parte in un certo momento della tua vita. Può essere un genitore che sta male e a cui devi badare, un periodo difficile… qualcosa che ti obbliga a non dedicarti al 100% a una delle cose che vuoi fare.
Però ho cambiato modo di pensare su tante cose: ora ho una visione meno idealistica. Con Un lavoro vero credevo che la cosa giusta da fare fosse lasciare tutto e inseguire i propri sogni. Ora con gli anni vedo che quella scelta, che è molto bella, mi ha anche portato a stare male tante volte, non avendo una sicurezza economica stabile. Ho visto quello che guadagnavo all’epoca nella vita e mi è venuto da piangere! Adesso ho una visione meno romantica; forse più matura – anche se matura è una parolone. Penso che prima di lasciare tutto devi portare avanti tutte le cose che ti aiutano a star bene, anche dal punto di vista economico. Però sono sicuro che se hai una passione, non necessariamente artistica, devi inseguirla. Per una persona potrebbe anche essere cucinare una crostata, non devi essere per forza un musicista o un artista. L’importante è farlo, perché se lo metti da parte, diventi anche una persona peggiore con gli altri.
Tra le prime pagine della tua opera tu citi un lavoro di Bastien Vivès. Quali altre letture ti accompagnano in questo periodo?
In questo periodo in realtà poche. Di solito mi rifornisco di fumetto quando vengo in Italia ed era un po’ che non venivo. Adesso sto leggendo un romanzo che mi piace tantissimo che si chiama Follie di Brooklyn di Paul Auster. Ho periodi in cui leggo molti fumetti; altri in cui leggo molti romanzi, o altre cose. In più sono stato molto impegnato con libro fino a poche settimane fa e non ho avuto granché tempo libero. In più, mentre con un romanzo mi va bene leggerlo anche dieci minuti prima di andare a letto; per il fumetto provo sempre ad avere il momento giusto per leggerlo: non voglio leggerlo che sono stanco, al volo, a letto senza luce perché ci sono i disegni ecc. Trovare quei momenti è difficile.
Quest’anno sono dieci anni di Bao Publishing. Peraltro altri autori di casa Bao sono presenti nel tuo graphic novel. Quanto è importante la collaborazione con altri autori e l’influenza reciproca?
Secondo me è la base. Non tanto la collaborazione quanto l’influenza reciproca… io quegli autori li ho messi nel fumetto perché loro sono comunque una parte importante della mia vita. Conoscere autori che ammiro è stata una cosa che mi ha dato tantissimo, grazie anche all’aver pubblicato per la stessa casa editrice: si va a cena insieme, ci si diverte. Queste cose ti nutrono tanto, ti danno voglia di superarti, di fare cose che magari potenzialmente piacciono anche a loro. Poi le collaborazioni nascono dopo, da sole. Se tu ammiri qualcuno e a quella persona piace quello che fai, arrivi a dire “ma perché non facciamo qualcosa insieme?”. Tante cose poi magari non si scoprono perché si perdono per strada, non vanno avanti, mentre altre sì. Ma quello è una cosa che succede da sola, non puoi pianificarlo
C’è un capitolo che è ambientato proprio qui, al Salone del Libro dell’anno scorso. Qual è il tuo rapporto con fiere di questo tipo?
Per me sono il momento in cui mi carico di energia per poi lavorare di nuovo al libro successivo, in cui stai anche uno due anni da solo senza farlo vedere a nessuno. Se non hai questi momenti in cui incontri i tuoi lettori o altri autori, non avresti poi la forza per farlo. Quindi sono importantissimi.