Fertile è il secondo album degli Stearica, abbiamo fatto due chiacchiere insieme a Francesco Carlucci e Davide Compagnoni, rispettivamente chitarra e batteria, in occasione del release party torinese allo Spazio 211. Fra Medio Oriente e l’Italia, i tour all’estero e quel suono post rock che sembra non attecchire qui. Un racconto che sa di rabbia e speranza, non solo musicale, come sono le tante facce di una rivolta.
Sono passati sette anni da Oltre, il vostro primo album, e la maggior parte del tempo l’avete passato in tour, che è un aspetto abbastanza anomalo, almeno in Italia, dove il lavoro in studio sembra essere sempre privilegiato, senza dimenticare poi il sodalizio con gli Acid Mother Temples.
Francesco: Sì, in effetti, siamo abbastanza problematici dal punto di vista manageriale, nel senso che ci viene naturale muoverci in direzione contraria rispetto a quelle che dovrebbero essere le regole del mercato musicale, sempre che ne esista uno. Diciamo che tutto è dettato anzitutto dal fatto che suoniamo solo e unicamente quando sentiamo la necessità di farlo e, quindi, nasce un po’ tutto da lì. Non abbiamo mai ragionato strategicamente per mantenere vivo il nome, stare sotto i riflettori, o utilizzare i social network. In questi anni siamo stati parecchio in giro e l’aver prodotto pochi dischi è dipeso dal fatto che la dimensione live per noi è vitale. Nei primi anni in cui suonavamo abbiamo composto tanti brani da farci quattro o cinque album: mai registrati! È sempre stato così, montare e seppellire ogni volta quello che componevamo. Ci siamo finalmente decisi a incidere un disco nel 2007: Oltre è uscito a ben dieci anni dalla nascita della band, un biglietto da visita grazie al quale abbiamo suonato ancora di più all’estero. Poi nel 2010 l’incontro con gli Acid Mothers Temple [da cui è nato STEARICA Invade ACID MOTHERS TEMPLE, NdR] ha creato un rapporto indissolubile, siamo diventati una famiglia e insieme abbiamo suonato due lunghi tour europei. La data al Primavera Sound del 2011 è stata, forse, la scintilla da cui è nato l’ultimo lavoro – Fertile: ci siamo accorti che era giunto il momento di tornare in studio e incidere su disco tutte quelle suggestioni.
In questi anni abbiamo assistito a grossi cambiamenti non solo musicali ma anche di tipo sociale e politico. Mi riferisco, in particolare, alla Primavera Araba e alle rivolte un po’ in tutto il mondo, che sembrano aver influenzato molto la struttura di Fertile.
Davide: È una cosa che si avverte, soprattutto, sottopelle questo perché facendo musica strumentale cerchiamo soprattutto di creare un immaginario. Non possiamo dire che dentro la nostra musica mettiamo un messaggio politico, ma è vero, Fertile è un disco rabbioso e molto proviene da lì.
F: Sono state delle session d’improvvisazione in cui avevamo quasi due facce. Durante il giorno, prima di entrare in sala, eravamo davvero mitragliati da immagini relative a quello che succedeva nel Medio Oriente, la Crescent Fertile, e quella è stata una nuova scintilla. In qualche modo quell’immaginario si stava sedimentando inconsciamente, ci chiedevamo cosa stesse succedendo da quelle parti, col solito handicap italiano di leggere tutto in qualche maniera…filtrato. Avevamo vissuto la stessa esperienza già con gli Indignados spagnoli quando siamo arrivati al Primavera senza sapere assolutamente nulla della protesta in atto. È stato il nostro label manager a portarci in piazza per farci vedere cosa stesse succedendo. Ci aveva colpito molto il fatto che a un orario fisso, in ogni parte della Peninsula, organizzassero queste pentoladas, spalancando le finestre e usando il suono come forma di protesta. Queste cose, inevitabilmente, sono entrate all’interno del disco che, come ti dicevo, è nato da sessioni a due facce, perché da una parte c’è questo tipo di musica feroce mentre, dall’altra, ci siamo ritrovati a suonare delle cose molto più dilatate e sintetiche, direi occidentali: e molte di queste ultime non sono entrate in Fertile.
Questa duplicità si avverte molto, molti pezzi rabbiosi hanno in sé anche una parte più lenta, quasi come a voler rappresentare le due parti della rivolta, tanto la rabbia quanto la speranza di cambiare.
F: Credo sia una cosa che ci rappresenta e appartiene come persone, questo riportare aspetti differenti delle cose insieme. Siamo tutti e tre molto diversi e la nostra musica ci permette di mettere a sistema il nostro modo di vivere le cose. Il mio lavoro nella produzione in Fertile è stato questo: cercare di restituire l’intensità della band. Ci interessava fare un ulteriore passo avanti con questo album, non solo a livello musicale, ma trovare il modo di catturare quel contesto di cui stiamo parlando.
La vostra è una musica prettamente strumentale ma in Amreeka e Nur c’è spazio anche per le parole, a creare ulteriori suggestioni. Da cosa nasce questa necessità?
F: Si tratta, appunto, di estendere le suggestioni. Di solito, per le collaborazioni, chiamiamo persone a cui siamo vicini, che abbiamo incontrato in tour o che, in qualche modo, sono legate umanamente al gruppo. Stasera, ad esempio, suoniamo con i Niagara e con tanti altri amici. Nelle collaborazioni lasciamo sempre carta bianca ed è sempre saltato fuori qualcosa di buono. In questo caso quando abbiamo contattato Scott McCloud e Ryan Patterson non avevamo ancora il titolo del disco ma gli avevamo raccontato della nostra attenzione rivolta al Medio Oriente e al Nord Africa. La cosa interessante è che questo lasciare totale libertà espressiva ha portato Scott a creare, ad esempio, un parallelismo ideale tra l’Occidente e la questione araba. Non è un caso, secondo me, che abbia cantato della giungla delle città americane ed è stato lo spunto che mi ha portato a chiamare la traccia Amreeka riprendendo il titolo del film [di Cherien Dabis, Usa, 2009] – passato al Sundance qualche anno fa – in cui si narra la storia di una famiglia palestinese emigrata negli Stati Uniti. Anche lì ci è sembrato che ogni cosa ritornasse, non ti sai dire perché o come, ma succede sempre. Non siamo religiosi quindi non possiamo nemmeno darci una risposta, è così e basta.
Oltre a McLoud e Patterson c’è anche la collaborazione con Colin Stetson, sassofonista canadese che ha collaborato anche con Godspeed You! Black Emperor e i National. Come è nata questa collaborazione?
D: Un giorno su internet ho scovato un video di questo alieno e l’ho girato subito a Francesco, dicendogli che secondo me era perfetto per Shah Mat. Era da un po’ che cercavamo un certo sound per quel pezzo e quando lo abbiamo trovato è stato naturale contattarlo. La fortuna è che Colin sia nel catalogo della Costellation, un’etichetta canadese con cui siamo in contatto da anni, avendo fatto qualche tour con alcune loro band, così contattarlo è stato più facile del previsto. Lui ha sentito il pezzo e gli è piaciuto e, così, siamo partiti. E, tornando a prima, Colin è l’unico che ha collaborato con noi senza averlo mai conosciuto di persona, almeno per ora.
Fertile è uscito per la Monotreme Records, etichetta inglese già degli M+A e dei Niagara, quando è nato questo sodalizio?
F: Siamo in contatto da molto tempo con la Monotreme. In realtà anche Oltre sarebbe potuto uscire con loro, ma non eravamo riusciti a incastrare gli schedule. Ci avevamo messo tanto tempo per realizzarlo e uscire con loro avrebbe significato aspettare ancora, anche perché Monotreme ha un catalogo mastodontico quindi le uscite vanno pianificate molto tempo prima ma, avendo noi la possibilità di andare presto in tour, abbiamo preferito rimandare.
È chiaro, anche dalle vostre risposte, che il post rock in Italia fatica a prendersi quel ruolo importante come succede all’estero. Siete stati un po’ dappertutto e avete imparato a conoscere gli ascoltatori, sono davvero così diversi i gusti e, soprattutto cosa credete possa mancare qui? E com’è suonare così tanto fuori?
D: All’estero ci sono degli ascoltatori e un contesto cultural-musicale profondamente diversi rispetto all’Italia. Sono sicuramente più abituati ad ascoltare musiche “altre”, e vieni accolto in modalità completamente diverse. Ci sono situazioni spesso più consone per quello che facciamo noi, questo non vuol dire che qua ci trattino male, ma ad esempio in Belgio o in Olanda ci sono strutture che ti permettono di fare quello che vuoi a livello tecnico, e pensa che sono pure statali! Il fatto è che le persone sono più abituate ad andare a vedere delle band dal vivo anche se non le conoscono, perché incuriosite dalla situazione live in sé, incuriosite dalle novità, una cosa che in Italia è sempre più difficile trovare.
F: Ne parlavamo l’altro giorno con Giorgio Valletta, che è un dj storico qui a Torino, e ha una cultura musicale spropositata. Ci diceva, per esempio, avendo visto più generazioni crescere, che col passare del tempo è andata a scemare l’attenzione e la curiosità nella musica che non conosci, dell’andare a scoprirla dal nulla. E penso che in un Paese come il nostro, spento nel guardare la De Filippi ma con i cellulari sempre accesi, si preferisca usare lo “strumento social” per comunicare senza neanche incontrarsi – come invece succede in un luogo “sociale” per eccellenza quale il concerto – senza poi aver realmente nulla da dire perché vuoti nei contenuti e nelle esperienze di vita. Noi siamo cresciuti, anche, andando a vedere concerti. Alcuni amici ci parlavano della situazione attuale qui a Torino, che per vari motivi non frequentiamo più assiduamente, in cui sono stati aperti nuovi live club ma ogni sera te la giochi: magari organizzi cose bellissime a cui assistono appena quaranta persone. Che poi, per quanto ci riguarda, noi ci divertiamo moltissimo nel suonare per due come per 15mila persone al Traffic Festival, ma dietro alla musica ci sono tanti sacrifici e questo trend negativo, di certo, non aiuta musicisti e addetti. Non che all’estero vada tutto sempre meglio ma vedo ancora molta, molta più vivacità culturale. È divertente che oltre confine alle volte percepiscano il nostro gruppo quasi come una realtà esotica. Ci è capitato di suonare in posti in cui ci dicevano di non aver mai ascoltato gruppi italiani, e così gli veniva spontaneo chiedere se in Italia fosse normale trovare gruppi come il nostro, se esistesse una scena, etc. In risposta gli abbiamo raccontato della Torino del periodo hardcore perché comunque la matrice del nostro suono proviene anche da lì. Quello è stato un periodo in cui, secondo me, esisteva una vera scena e non è stato un male come in altre zone in cui nacquero movimenti autoreferenziali e limitati nella creatività perché chiusi. Questo per dire che sì, suoniamo tanto all’estero, ma dopo tanti anni che ci piacerebbe che le cose cambiassero in Italia e potessimo farlo anche qui!
D: Una scena forte ha tanti lati positivi come negativi, come sempre insomma. A qualche concerto è capitato che prima di iniziare ci presentavamo dicendo “Siamo gli STEARICA da Torino” e qualcuno dal pubblico urlasse “Negazione!”, richiamandosi a quella scena lì e un po’ ti faceva piacere non essere così lontani da quelle realtà.
Stasera lancerete Fertile in Italia, nella vostra città insieme a un sacco di amici. Ancora una volta quel senso di appartenenza e dei tanti legami con le persone che hanno incrociato la vostra strada.
F: Negli anni stiamo costruendo una vera e propria rete di rapporti, ci hanno fatto notare che sembra quasi un network di musicisti. È inevitabile non pensare al nostro amico Damo Suzuki, lui sì ha costruito negli anni un enorme network di musicisti semplicemente per andare a improvvisare e divertirsi condividendo la musica e il momento. Ma in effetti è tutto molto naturale per noi, pensa ai Niagara, per esempio, ci siamo trovati bene insieme nel tour in Inghilterra di un paio di settimane fa e li abbiamo invitati stasera, così come con Franz Goria [Chitarra e voce nei Fluxus]: è una vita che vogliamo suonare insieme e finalmente ce l’abbiamo fatta.
Tutte le foto sono a cura di Alessia Naccarato